Megalopoli a guida autonoma? - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Smart, a guida autonoma, è sempre lei: la vecchissima auto
Smart, a guida autonoma, è sempre lei: la vecchissima auto | Copyright: Automobile italia / Flickr

Megalopoli a guida autonoma?

Gli scenari che ci prospetta la realtà non sono sempre prevedibili. Per questo, la rivoluzione dei trasporti non va nel migliore dei modi.

Smart, a guida autonoma, è sempre lei: la vecchissima auto | Copyright: Automobile italia / Flickr
Andrea Daniele Signorelli

(1982) scrive di nuove tecnologie, politica e società. Collabora con diverse testate giornalistiche e riviste tra cui La StampaWiredIl TascabileDomaniEsquire Italia e cheFare.

C’è un elemento che non manca mai nei progetti, nei render e nelle visioni delle smart cities del futuro: l’automobile. Anzi: le automobili. Quelle autonome – guidate esclusivamente dall’intelligenza artificiale e trasformate in un piccolo salotto – e quelle volanti: più precisamente droni a decollo verticale che solcano i cieli come in Blade Runner, rendendo gli spostamenti all’interno della metropoli questione di pochi minuti. In questo modo, le città diverrebbero praticamente prive di traffico, con più spazio per i pedoni, più ordinate, meno caotiche e meno inquinate. C’è solo un problema: tutto questo non avverrà mai. 

Come ci si può lanciare in un’affermazione del genere quando niente meno che Elon Musk, il fondatore di Tesla e pioniere delle auto a guida autonoma, ha annunciato solo poche settimane fa che le self driving cars di livello 5 (in grado quindi di sollevare il pilota umano da qualunque compito in qualunque circostanza) potrebbero fare la loro comparsa già quest’anno, e quando anche un colosso come Toyota sta investendo qualcosa come 400 milioni di dollari nelle auto volanti?

Le auto autonome in un vicolo cieco

Partiamo da Elon Musk, la cui fiducia nei confronti dell’imminente avvento delle auto autonome è inamovibile. Al punto che nel 2015 ha promesso che le sue Tesla avrebbero raggiunto il livello 5 nel 2017, nel 2017 ha detto che sarebbe avvenuto nel 2019 e adesso punta le sue fiches direttamente sull’anno in corso. Il solo fatto che Elon Musk abbia continuamente rivisto le sue previsioni ci dà l’idea delle difficoltà a cui sta andando incontro questa tecnologia. 

A ciò si aggiunge lo scetticismo crescente che proprio nell’industria dell’automotive comincia a respirarsi: “È una delle difficoltà più importanti che dobbiamo fronteggiare. È un po’ come andare su Marte: potrebbe anche non succedere mai”. Questa affermazione – che alle orecchie del fondatore di Tesla e SpaceX potrebbe suonare come una vera e propria eresia – proviene dal CEO di Volkswagen Autonomy Alex Hitzinger. E non si tratta dell’unico addetto ai lavori a non credere che in tempi brevi potremo guardare una serie tv mentre la nostra auto ci scorrazza fino in ufficio: Jim Hackett di Ford ha ammesso come l’industria abbia notevolmente sottovalutato le difficoltà, John Zimmer di Lyft ha spostato la sua personale previsione dal 2021 a un comunque ottimistico 2029, mentre Chris Urmson – che fino a poco fa guidava i progetti di Google in questo settore – ha affermato che le auto completamente autonome saranno gradualmente integrate nei prossimi 30/50 anni.

Perché i tempi previsti si sono allungati in questa maniera? Per farla breve, perché le abilità del deep learning (il sistema di avanzatissimo calcolo statistico oggi quasi sinonimo di intelligenza artificiale) sono state sopravvalutate. “Le self driving cars più avanzate possono procedere autonomamente solo finché si trovano in condizioni prevedibili e per le quali sono state addestrate”, ha spiegato Melanie Mitchell, docente di Scienze Informatiche al Santa Fe Institute. “I problemi sorgono quando si verificano situazioni inaspettate che non corrispondono agli scenari per i quali le auto sono state preparate”.

Gli algoritmi di deep learning apprendono quale sia la risposta statisticamente corretta da fornire in un determinato scenario affrontando una lunghissima serie di tentativi (ed errori) compiuti in situazioni simili. Per esempio, per sapere come comportarsi quando un pedone si affaccia sulla strada indeciso se attraversare o meno, mentre a sinistra ci sta superando un motorino e un'auto spunta da una strada laterale senza rispettare la precedenza, la self driving car dovrebbe aver già affrontato questa stessa identica situazione in migliaia di occasioni, provando e riprovando finché non scopre quale sia il comportamento più sicuro. Il problema è che le situazioni inedite, nel traffico cittadino, sono all’ordine del giorno. E le incognite rischiano di essere semplicemente troppe per poter essere affrontate con successo impiegando la statistica.

“Le persone che lavorano in questa industria parlano di ‘coda lunga delle situazioni improbabili’: quelle che non si verificano nella quotidianità della guida, ma che sono così numerose che ogni situazione ‘coda’ capiterà regolarmente a qualche macchina”, prosegue Mitchell. “Questo rende impossibile addestrare un sistema di intelligenza artificiale per tutte queste situazioni”. 

Basti pensare a tutto ciò che noi esseri umani fronteggiamo su base quotidiana: biciclette in contromano, auto in doppia fila, motorini che fanno slalom, pedoni che attraversano in qualunque punto. Per sapere come comportarci in ciascuna di queste situazioni, ci affidiamo non a un puro calcolo statistico, ma alla nostra esperienza, che ci permette di generalizzare i vari scenari e sapere così come comportarci anche in una situazione che non abbiamo mai vissuto prima. È ciò che viene normalmente chiamato buon senso. Ed è proprio la qualità di cui l’intelligenza artificiale è completamente priva.

E quindi? Nell’attesa (che potrebbe anche non finire mai) che le AI si dotino di buon senso e capacità di astrazione, le strade da seguire sono due. La prima è accontentarsi di auto in grado di guidare autonomamente quando le variabili sono ridotte (come potrebbe anche essere il caso dell’autostrada); la seconda è quella di trasformare le città affinché siano a misura di auto autonoma. È quanto ha proposto un luminare del settore come Andrew Ng: apportare alle megacities di domani cambiamenti infrastrutturali che le rendano perfettamente razionali, impedendo by design ai pedoni di attraversare col rosso, alle auto di saltare una precedenza, alle biciclette di percorrere un tratto contromano e altro ancora. Una città in cui all’essere umano sia letteralmente impedito di trasgredire alle norme e che sia quindi facilmente navigabile dalle auto autonome. 

Potrebbe anche funzionare. A costo, però, di dare vita una città in cui le persone si muovono – e quindi si comportano – in maniera predeterminata, e in cui le diverse aree della città comunicano solo in punti ben precisi. È davvero questa la città del futuro in cui vogliamo vivere? Se la risposta fosse positiva, dovremmo come minimo sbarazzarci di tutti i render che mostrano grandi viali alberati dove le persone si muovono liberamente e la presenza delle auto è ridotta al minimo, sostituendoli con progetti in cui gli spostamenti dei pedoni sono ridotti al minimo e subordinati al funzionamento delle auto autonome. Ma se il prezzo da pagare per rendere realtà le auto completamente autonome è troppo elevato, quale sarà allora il mezzo che rivoluzionerà gli spostamenti nelle megacities di domani?

Lo show: la presentazione di un'auto a guida autonoma in casa Mercedes, 2015.

Lo show: la presentazione di un'auto a guida autonoma in casa Mercedes, 2015. | Daniel Davis / Flickr


L’incubo delle auto volanti

Il secondo cavallo su cui si punta è quello a cui abbiamo già accennato: le auto volanti. Qualcosa di simile a quanto visto nel sequel di Ritorno al Futuro o nel Quinto Elemento: auto che percorrono normalmente la strada finché non si alzano in volo consentendo, come dicono gli addetti ai lavori, di “fornire agli spostamenti cittadini una terza dimensione”. E in effetti c’è chi sta lavorando a tutto ciò: colossi del calibro di Uber, Boeing e la già citata Toyota, ma anche startup come la giapponese Skydrive o la statunitense Opener. Ma si tratta davvero delle auto volanti che da ormai più di mezzo secolo ci vengono promesse? 

A un’occhiata ravvicinata, si vede subito come la realtà dei fatti sia molto distante dalle visioni fantascientifiche: più che auto, questi velivoli sono a tutti gli effetti dei maxi droni a decollo verticale, dall’autonomia limitata e che avrebbe davvero poco senso utilizzare come mezzi privati per gli spostamenti cittadini. “Credo che tutta l’idea di questi taxi volanti sia una stupidaggine”, ha affermato su The Atlantic Carlo Ratti, architetto italiano e direttore del dipartimento smart city del MIT di Boston. “La tecnologia può cambiare molte cose, ma non può cambiare la fisica. Gli elicotteri sono costosi e sconvenienti per la maggior parte degli spostamenti”. 

Non solo: se già nei normali aeroporti regolare il traffico richiede l’utilizzo di decine di persone nelle torri di controllo, che razza di impresa logistica diverrebbe gestire un traffico cittadino che dalle strade si sposta nei cieli? Una possibile soluzione, studiata per esempio da Uber, riguarda la possibilità di disseminare nelle più grandi città i cosiddetti skyport (più banalmente: degli eliporti per droni), da cui partirebbero velivoli guidati da piloti professionisti. In poche parole, per spostarci da un punto A un punto B dovremmo prima chiamare un normale taxi (o un Uber), raggiungere lo skyport, salire a bordo di un drone, arrivare in un secondo skyport e poi concludere il tragitto chiamando un secondo taxi. 

 

 

Una soluzione di questo tipo, per quanto più realistica dei maxi droni privati, ha numerose controindicazioni. Prima di tutto, più che di auto volanti avrebbe più senso parlare di droni-taxi impiegati per tragitti medio-lunghi (qualcosa di molto diverso dal futuro immaginato in Blade Runner & co). In secondo luogo, è davvero accettabile che si costruiscano eliporti nel bel mezzo delle città per consentire a quei pochi che si potranno permettere un servizio – presumibilmente – molto costoso di spostarsi volando? E infine, per quale ragione dovremmo mai salire su un mezzo del genere per spostarci di città in città a 300 chilometri all’ora (come promesso da Uber) quando già oggi le città sono collegate da treni che viaggiano alla stessa andatura?

 

Un futuro a misura d’uomo

Per quanto possa sembrare rivoluzionario l’avvento dei droni con passeggero, la realtà è che gli ostacoli logistici sono enormi e i vantaggi rispetto ai mezzi che già abbiamo a disposizione sono ridotti. A dare l’idea di quanto uno scenario di megacities solcate da auto volanti sia improbabile c’è un ultimo elemento: persino il già citato Elon Musk non lo ritiene fattibile, sostenendo che “non potranno mai essere convenienti per gli spostamenti urbani quotidiani”. Il fatto che l’imprenditore visionario per definizione mostri un tale scetticismo nei confronti delle auto volanti dovrebbe far scattare più di un campanello d’allarme (e in effetti anche i progetti più avanzati, come quello di Dubai in collaborazione con la società cinese Ehang, continuano a subire rinvii).

Ma se dobbiamo rinunciare ai sogni delle self driving cars e anche alle macchine volanti, come cambieranno gli spostamenti nelle città del futuro? Difficile a dirsi: è possibile che le auto autonome ci libereranno gradualmente dall’onere della guida almeno in alcune zone delimitate; è anche possibile che qualche forma di drone con passeggero inizi a solcare i cieli, allo scopo di velocizzare il più possibile gli spostamenti di lavoro all’interno di città che – nei progetti pre-pandemia – avrebbero dovuto continuare a espandersi. La vera rivoluzione degli spostamenti urbani del futuro potrebbe però essere molto diversa: tutt’altro che fantascientifica, ma decisamente più realizzabile. Uno dei progetti più avanzati in questo senso è quello della “città dei 15 minuti” di Parigi.

Invece di trovare il modo di percorrere in tempi sempre più brevi distanze sempre più grandi, la città – secondo questa visione promossa dalla sindaca Anne Hidalgo – andrebbe ripensata al fine ridurre il tempo necessario a raggiungere uffici, supermercati, parchi, luoghi di cultura e spettacolo o negozi. Sarebbe, in poche parole, la rinascita dei servizi di prossimità in quartieri in cui la bicicletta – attraverso uno sviluppo continuo delle piste ciclabili – diventerebbe il mezzo di elezione. 

Una visione troppo poco fantascientifica? Può essere: seguendo questo modello, avremmo però a disposizione una città pulita, silenziosa e vivace. E ci lasceremmo alle spalle l’ideale futuristico di una metropoli costruita a misura di auto autonoma e i cui cieli, invece che dagli uccelli, sono costantemente invasi da mezzi volanti pronti a provocare una strage a ogni incidente. Forse, questa idea di futuro è da abbandonare il prima possibile senza più guardarci indietro: con buona pace di Elon Musk, Uber e tutti i miliardari e colossi tecnologici del mondo. La cui visione del domani assomiglia sempre di più a un incubo cyberpunk.

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Andrea Daniele Signorelli

(1982) scrive di nuove tecnologie, politica e società. Collabora con diverse testate giornalistiche e riviste tra cui La StampaWiredIl TascabileDomaniEsquire Italia e cheFare.

Pubblicato:
30-11-2020
Ultima modifica:
30-11-2020
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