L’Italia è costituita da una miriade di comuni piccoli, distaccati e progressivamente depauperati della popolazione. Eppure, tornarvi e valorizzarli potrebbe essere un inganno. Una storia a molte voci.
L’Italia è costituita per grande parte di paesi piccoli, talvolta considerati molto attraenti secondo i canoni estetici correnti, altre volte più ordinari. Come ogni luogo abitato da esseri umani potrebbe essere narrato in un’infinita complessità di vicende e punti di vista, ma possiamo osservare come siano due gli snodi semantici più utilizzati.
Il primo è quello dell’assenza. Assenza di servizi fondamentali di cittadinanza, collegamenti, politiche adeguate, considerazione.
Il secondo è quello della riscoperta, intesa come ritorno bucolico a un ancestrale policentrismo, che si accompagna però al rischio di sottrazione della complessità dell’abitare e di eccessiva estetizzazione.
Leggendo i dati ISTAT recenti si può notare che quasi il 70% dei comuni italiani ha meno di 5.000 abitanti e che l’insieme di tutti questi piccoli paesi occupa circa il 55% della superficie nazionale. Tuttavia la percentuale degli abitanti dei piccoli comuni sulla popolazione globale è solo intorno al 16%, e lo spopolamento dei piccoli paesi è progressivo e in accelerazione, parallelo al fenomeno dell’invecchiamento progressivo di chi resta. Sono soprattutto i comuni situati in collina e montagna a contrarsi: l’Italia alpina, della dorsale appenninica, e la prima fascia montana delle regioni litoranee.
È l’Italia che l’associazione Riabitare l’Italia denomina “lontana”, e così veniamo al campo semantico dell’assenza.
Quello che l’associazione denuncia è una disuguaglianza di fatto tra piccoli paesi e il resto dell’Italia, e una disuguaglianza di riconoscimento. Le disparità sono nelle carenze nei servizi abitativi di base più assodati nelle aree urbane, come scuola, presidi di salute, reti internet, trasporti…
Nel loro manifesto la definiscono anche “L’Italia dei vuoti”, facendo riferimento allo svuotamento demografico, e all’abbandono edilizio. I vuoti possono essere stagionali, nell’Italia del turismo, con grandi contrasti tra un periodo e l’altro.
A. ha sedici anni, ed è una delle persone che ho interpellato per parlare della vita nei piccoli paesi. Abita in una località di mare con pochi abitanti e una brulicante vita estiva, fatta di locali aperti, spiagge piene, sagre, spettacoli teatrali; alla quale fanno da contraltare inverni desolati durante i quali è un problema trovare una bibita al bar, o qualcosa da fare con gli amici nei pomeriggi. Per raggiungere la città, e la scuola superiore, si è schiavi di lunghissimi viaggi in treno, che, come dice A. «non passa mai all’ora giusta».
Un altro fenomeno con cui chi vive in piccoli comuni e zone rurali ha a che fare in questi anni è quello del cambiamento climatico, di cui sentono maggiormente gli effetti: alluvioni, smottamenti, siccità, mettono in luce la fragilità e la solitudine dei luoghi extraurbani.
Ma la mancanza maggiore è quella di riconoscimento, cioè di una politica dei territori duratura e di vicinanza, capace di leggere e assecondare la complessità, e dare valore al contesto in modo concreto.
Un esempio di intervento attivo è stata la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), innovativa per l’uso di processi partecipativi invece che competitivi. Strategia che ha faticato però a esprimere il suo potenziale per via del disinteresse delle istituzioni centrali, ma anche del mondo della cultura, che si conferma essenzialmente urbano anche nello sguardo.
Sempre secondo Riabitare l’Italia questo riflette lo squilibrio dei rapporti di potere, «a sfavore dei soggetti più subalterni, dei luoghi più vulnerabili, delle istanze più innovative. Salvo poi denunciarne la “marginalità”». E questo ci porta dritti nel contiguo campo semantico della riscoperta.
Negli ultimi anni, e ancora di più dopo che le restrizioni sanitarie ci hanno tenuti chiusi in città faticose e caotiche, in molti sono tornati a vagheggiare la vita in un piccolo borgo incontaminato e bucolico. Una sorta di “borgomania” gonfia di retorica che finisce per cancellare, anche con il linguaggio, la realtà territoriale delle aree interne a favore del marketing del turismo e del mercato.
Il bisogno che vi sta dietro è chiaro e probabilmente condiviso da molti: cercare una qualità di vita che il degrado e il sovraffollamento di certi contesti metropolitani non può offrire. È però interessante osservare cosa questo bisogno rischia di lasciare indietro.
Il termine borgo, nato per indicare un luogo fortificato, e successivamente un piccolo centro abitato, o l’area di una città fuori dalle mura, è diventato l’equivalente di un un insediamento urbano di dimensioni ridotte con caratteristiche di amabilità e gradevolezza conformi a un’estetica standard, fatta di muri di pietra, travi in legno, cespugli fioriti e cibo tradizionale su tovaglie bianche. Tutto molto instagrammabile: infatti, tra i tanti hashtag che contengono la parola borghi, sotto #borghipiubelliditalia si raccolgono più di un milione di immagini con scorci tra case di mattoni, ristorantini, lucine calde… tutto ciò che è associato all’idea di “tipico”.
Questa rappresentazione oleografica ed estetizzante dei piccoli paesi è il presupposto per lo sfruttamento patrimoniale di questi luoghi, e non soltanto un dispositivo culturale. Sposta la priorità delle politiche per le aree interne verso l’idea di “valorizzazione”, funzionale ai grandi interessi, che finisce con il trascurare le esigenze reali degli abitanti, oltre che tutti i luoghi poco aderenti a questo modello, e quindi poco spendibili sul mercato dell’attrattività.
Ed ecco che sostituire la parola “paese” con “borgo” non è un’operazione neutra.
Il recente “Piano nazionale borghi”, previsto dal PNRR, sembra sottolineare (tramite il linguaggio utilizzato, l’esiguo numero di comuni scelti, la puntualità e i tempi stretti dell’operazione – incompatibili con processi partecipativi reali) quest’idea di piccole “eccellenze esemplari” da recuperare, al posto di un paesaggio diffuso e ordinario nei suoi bisogni; e fa coincidere il valore dei borghi con il loro possibile branding.
È quasi caricaturale il cortometraggio, con la regia di Michele Placido, che preconizza, con fini evidentemente propagandistici, la realtà prossima di un immaginario borgo (“Borgo antico”!) oggetto delle politiche del PNRR. Con sguardo perennemente languido e conversazioni improbabili, i due protagonisti ci mostrano una dimensione di vita presentata come perfetta: le persone anziane si tengono in forma in completi fosforescenti, le stradine lastricate sono perfette grazie a robot pulisci-strada e alla raccolta differenziata di nuova generazione. Ai tavolini dei bar una gioventù multietnica e ben vestita fa smart working, le case sono ville con vetrate sul verde, l’agricoltura è ridotta a nivee vaschette di piantine “a chilometro meno dieci”, forse senza nemmeno la terra dentro.
È un’idea “malata di metrofilia” e molto borghese, sostiene Giovanni Semi nel suo saggio Borghi per borghesi, contenuto nella raccolta: Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, volume uscito recentemente per Donzelli.
È un pamphlet polemico e a più voci, volutamente distruttivo e molto appassionato, che ragiona su queste questioni, proponendosi di mettere in crisi l’immagine appiattita e mercificata dei borghi, e di fare da base a un discorso pubblico un po’ più adatto alla complessità territoriale italiana.
Attribuisce al dispositivo culturale del “borgo” una rappresentazione essenzialmente urbana, e un meccanismo di cancellazione dell’alterità dei piccoli paesi, che finisce per negarne l’identità: «Ci troviamo di fronte a un’astrazione vetrificata che contrappone il borgo al territorio, che si basa su una cesura insistita rispetto al contesto insediativo, una sorta di violenza simbolica e materiale che qualifica un’idea di insediamento per sottrazione.» (dall’introduzione).
Quindi il passaggio lessicale da paese a borgo, rimandando il referente concreto del territorio e dei luoghi a un’astrazione, fallisce nella figurazione della realtà.
Tra le voci che ho ascoltato c’è quella di S., che abita in un paesino di prima montagna con i figli:
«C'è la poesia del vivere in mezzo ai boschi che cozza prepotentemente con la realtà che stare qui è tremendamente scomodo e costoso! Perché i prezzi del carburante sono alle stelle, e i mezzi pubblici sono scarsi. C'è un pullman al mattino per gli studenti e uno che torna su dopo le 14... Se lavori fuori o se semplicemente hai figli da accompagnare a scuola, a fare sport, dagli amici, dal dentista… passi le giornate su e giù in auto, e il tempo davvero trascorso in paese è poco e mal speso. Niente vita bucolica, niente tempi dilatati, niente orto, niente tramonti osservati dall'uscio di casa sulla sedia a dondolo, niente letture sotto il pergolato. Solo un gran correre di qua e di là. Il posto non te lo godi, anzi lo trascuri: l'erba cresce alta e ti invade, le piante assumono una forma spettrale, il cortile si riempie di foglie e di terra. Tu guardi il tutto e tiri un sospiro di rassegnazione... ti dici: passerà! Torni su e accendi il fuoco nella stufa. Già, che poesia il focherello, soprattutto quando non prende e la canna fumaria non tira e ti si affumica tutta la cucina (e se vuoi un po' di calore in casa non hai alternative). Be’, quando tutto funziona, è una meraviglia mettere su un pentolone di minestra che cuoce lentamente sulla stufa a legna!».
Anche se è solo una di innumerevoli storie possibili e diverse, viene da chiedersi se i tempi e i modi della società capitalistica non stiano finendo per assorbire la vita nei paesi, e se il vernacolo tanto cercato dai cittadini forse non esista più se non per pochi.
Se questa è la direzione che la vita dei piccoli comuni finirà per prendere, il borgo sarà un luogo ameno solo per chi ha risorse, economiche e culturali.
Nel volume si parla anche della negazione della vita delle comunità locali, schiacciate sulle immagini standard del bel tempo che non c’è più, e private della tridimensionalità che caratterizza la convivenza umana (“comunità” in questo contesto è una nozione ambivalente, ci ricorda Letizia Bindi): conflitti, vita politica, ambizioni, differenze sociali e culturali.
I singoli soggetti dotati – appunto – di risorse, possono compiere (anzi, sono incoraggiati a farlo) la scelta individuale di spostarsi nel piccolo paese, ma senza necessariamente un progetto di condivisione della vita comunitaria, rimanendo dipendenti dal lavoro e dalle possibilità della città, e innescando così processi di gentrificazione traslati alle aree interne.
Tra le tante storie che si potrebbero far emergere, c’è per esempio quella di M., che fa il magazziniere, e abitava in un piccolo borgo del Veneto, fino a che la pressione del mercato immobiliare lo ha spinto via: «Non mi posso più permettere di vivere lì, e nelle vecchie case ci sono solo stranieri», dice.
A questo proposito, scrive Pietro Clementi nel suo intervento Chiamiamoli paesi, non borghi, non ha senso criticare in modo radicale il turismo, o rifiutare del tutto la gentrification e gli investimenti che provengono dall’esterno, ma riconoscere il bisogno di processi partecipativi che partano dal basso per un autentico sviluppo locale.
È a partire da questo che diventa importante tornare a chiamare i borghi “paesi”, facendo emergere il mondo del sapere e del saper fare legato al primario, in particolare all’agricoltura, che continua a essere fondamentale per la vita delle aree interne, considerato che sempre secondo i dati ISTAT vi sono specializzati il 60% dei piccoli comuni. Conclude quindi Clementi: «I borghi, nel quadro ufficiale pubblico, non sono che una invenzione “ornamentale” legata a un cattivo uso del patrimonio culturale e delle culture locali. I paesi sono invece le cellule molteplici dell’insediamento territoriale, delle pratiche collettive e delle comunità».
L’omologazione dello sguardo, e l’attenzione riservata a poche eccellenze, fanno scomparire la multiformità e la varietà di un territorio che non si può ridurre alle sue mancanze o necessità.
Se è vero che le aree interne abbisognano di politiche di sostegno e stanno vivendo il declino demografico di cui abbiamo parlato, sono però anche luoghi che producono cittadinanza attiva, valori, risorse, e una diversità ambientale, culturale e umana che ha un valore intrinseco e un valore in relazione alla vita nelle città.
Rossano Pazzagli in Oltre le mura. Borghi senza campagne, campagne senza borghi, ricorda che senza i flussi di cibo, energia e cultura tra mondo rurale e urbano, città e paesaggio non sarebbero oggi quello che sono. In un rapporto biunivoco: i luoghi agricoli sono diventati periferia per effetto dell’interruzione della cura del territorio, della riduzione delle opportunità e dei servizi. Come dire che il destino di marginalità non sarebbe stato ineluttabile, e forse non lo è ancora.
Se il partecipazionismo e la cura per le differenze non fossero solo bandiere retoriche, ma metodi, si potrebbe imboccare la strada per politiche reali per le aree interne. Con l’attenzione dovuta ai bisogni specifici che determinano la qualità della vita, come li elenca Pier Luigi Sacco nel suo testo: l’accesso alla casa, il bilancio vita/lavoro, il senso di appartenenza, l’offerta di servizi e soluzioni di vivibilità, la trasmissione e l’attualizzazione dei saperi locali, la creazione di beni comuni, la pianificazione familiare. E con un ripensamento della mobilità, la connettività, le politiche di sviluppo sostenibile per l’agricoltura e l’artigianato, scrive invece Bindi. Sempre Sacco conclude: «Le capacità di spesa senza precedenti associate al PNRR e al nuovo ciclo della politica di coesione garantirebbero una base credibile per un ripensamento radicale di una politica di sviluppo locale dei territori marginali. Ma occorrerebbe un cambio di rotta piuttosto deciso».
L’indagine Giovani dentro, sempre a cura dell’associazione Riabitare l’Italia, ci mostra le prospettive di giovani tra i 18 e i 39 anni che vivono in aree interne. I dati sono molto interessanti, tra questi quelli su comunità e territorio: quasi l’80% degli interpellati sente di vivere in luoghi con legami significativi e verso i quali sente senso di appartenenza, ma solo meno del 40% sente di avere abbastanza voce in capitolo in merito alle decisioni che influenzano lo sviluppo del territorio.
Il 69,4% dei partecipanti vorrebbe rimanere nel luogo in cui vive e pianificare lì la propria vita (scorporato: più dell’80% degli over 30 e il 56% dei più giovani) e l’8% vorrebbe invece andare altrove o ha già in programma di farlo. Le motivazioni principali che spingono i giovani a restare nel posto in cui vivono sono la migliore qualità della vita dal punto di vista ambientale e di ritmi, e il forte legame con la propria comunità.
Nell’intervento di Pier Luigi Sacco all’interno del volume troviamo questa domanda che è quasi una risposta: «Come può esserci uno sviluppo locale sostenibile senza un desiderio? Come può esserci un desiderio che non prenda forma dal senso di un luogo?».