Cosa succede quando le sorti del mondo sono nelle mani di poche persone?
Quando si parla della Silicon Valley è facile appellarsi a un certo tipo di retorica. Non c’è nulla di male, perché in fondo tradisce una presa di posizione, la visione del mondo che si è deciso di sposare. Da una parte c’è chi la vede come un avamposto della cultura occidentale, culla di una nuova umanità in grado di trasformare il globo attraverso il mezzo tecnologico, lì “dove si puote ciò che si vuole”. Altri ne evidenziano l’assetto ipercapitalista, l’enorme potere coercitivo, gli intenti poco chiari delle aziende che vi operano, gli stravolgimenti economici e sociali causati dall’indotto del settore tech nella baia di San Francisco.
Gli stessi magnati diventano personaggi da romanzo, soggetti a una drammatizzazione che loro stessi non sono esenti dall’alimentare. Così Jeff Bezos oscilla fra la percezione dell’uomo potente, in grado di arricchirsi più di chiunque altro durante la pandemia (e allo stesso tempo di raddoppiare i dipendenti della propria azienda), e le ricorsive accuse di schiavismo; Mark Zuckerberg passa, in qualche anno, da impacciato genietto nerd a milionario senza scrupoli alle prese con lo scandalo di Cambridge Analytica; Elon Musk da visionario alla moda che commercializza lanciafiamme per divertimento a goffo polemista in tempi di emergenza sanitaria. Gli umori dell’opinione pubblica sono variabili, ma ciò che conta è che gli imprenditori del tech continuano a essere sulla bocca di tutti.
Lo and Behold è un documentario di Werner Herzog dedicato alle nuove tecnologie, nel suo viaggio Herzog non può esimersi dall’incontrare proprio il fondatore di Tesla e SpaceX. Nella scena vediamo il solito Musk ispirato che racconta le meraviglie dei viaggi spaziali e le potenzialità dell’intelligenza artificiale. Alle sue parole Herzog sovrappone le immagini catturate nei laboratori di SpaceX, il commento sottilmente ironico del regista sottolinea come i prototipi robotici di Musk somiglino a strani e inquietanti alieni. Una breve scena ai margini dell’incontro rivela un Musk privato: il magnate guarda nel vuoto, non c’è traccia dell’usuale fermezza dello sguardo, Herzog gli chiede cosa sogna, Musk ci pensa un secondo – sembra stanco – e poi risponde che non ricorda i suoi sogni, crede di non farne di belli, gli sovvengono solo gli incubi.
La stanchezza di Musk mette in luce un problema evidente: cosa succede quando le sorti del mondo sono nelle mani di poche persone? I tech titan dispongono di enormi mezzi economici e tecnologici, come mai prima nella storia, ma la loro visione sembra essere personalista. Si tratta dell’idea di pochi che salvano molti, una sorta di paternalismo all’ennesima potenza, una gerarchia che, nel migliore dei casi, vede alla vetta della piramide un tiranno illuminato, e nel peggiore una compagnia senza scrupoli il cui unico dogma è guadagnare in barba agli effetti negativi sull’assetto sociale. Questa almeno l’idea della vulgata più critica, rappresenta nel mainstream, con semplificazioni brutali ma efficaci, dal documentario The Social Dilemma (guarda caso – ma ormai siamo abituati al paradosso – disponibile su Netflix).
Ma allora in questa storia i nostri milionari smanettoni sono buoni o cattivi? Forse, e come sempre, la verità sta nel mezzo. Anna Wiener, autrice de La valla oscura, dipinge così gli startuppari della baia in cerca dell’idea distruptive: «Sin dai vent’anni erano sempre stati sottoposti alle pressioni, e a un certo grado di sorveglianza, di investitori giornalisti e altri fondatori. All’età in cui io mi sbronzavo insieme agli amici, loro si preoccupavano dell’organico aziendale e si documentavano sulle metriche economiche. Io esploravo la mia sessualità; loro confrontavano compagnie di assicurazione sanitaria e svolgevano controlli di sicurezza. Adesso a venticinque anni erano responsabili del sostentamento di altri adulti. Ero circondata di persone che stavano sfondando, persone che lo avevano scelto. Persone influenti a cui non piaceva ammettere la sconfitta. La loro comunità era la comunità aziendale». Dunque, non tanto persone dall’enorme talento imprenditoriale, ma persone carenti di esperienza, immerse sin dall’adolescenza nella propria visione in maniera acritica ed esclusiva che, una volta approdati in California, trovano una cultura su misura – una “bolla” sociale, proprio come quella delle piattaforme – e un gigantesco accumulo di capitali che permette loro di dare forma a ciascun progetto, al di là del bene e del male.
D’altronde l’aveva ben intuito David Fincher in tempi non sospetti quando con The social network dipingeva l’epopea della nascita di Facebook come uno scherzo da campus universitario. Nel film del 2010 vediamo Zuckerberg e soci muoversi in un microcosmo studentesco classista, sessista e in gran parte bianco. La poca attenzione al mondo circostante e al rispetto delle norme sociali non impedisce al futuro fondatore di lasciarsi influenzare da una cultura tanto asfittica, dando per scontato che l’unico obiettivo del suo operato sia la crescita illimitata del progetto, lo sviluppo della piattaforma in quanto sfida fine a sé stessa.
Tornando a Uncanny Valley (la traduzione italiana impedisce di cogliere appieno il gioco di parole, l’uncanny valley è infatti la sensazione di straniamento che si prova di fronte a un oggetto inanimato dalle fattezze “troppo” umane, come una bambola particolarmente realistica o un androide), quello di Wiener è un memoir, il resoconto dell’esperienza esistenziale e lavorativa di una donna dal bagaglio umanistico all’interno delle startup della Silicon Valley. L’autrice newyorkese racconta di come, stanca delle basse retribuzioni nel settore editoriale, decida di spostarsi dall’East alla West Coast in cerca di fortuna nel settore più in crescita dell’ultimo ventennio. Non è il primo memoir che “traduce” per i comuni mortali ciò che succede nella Valley, ricordiamo ad esempio Dentro Facebook di Katherine Losse e Accanto alla macchina di Ellen Ullman – o anche, con i dovuti distinguo, il resoconto di costume Steve Jobs non abita più qui di Michele Masneri – ma l’attenzione alla cronaca quotidiana, ai più minuti aspetti della vita di tutti i giorni, fa di quest’opera un prezioso documento.
Fra gli affitti alle stelle, la gentrificazione selvaggia, gli open space aziendali trasformati in sale giochi, la finta cordialità dei rapporti fra colleghi, i teambuilding che celano esami, gli orari lavorativi sfilacciati, la pressione ubiqua, l’onnipresenza delle app, l’offerta culinaria apparentemente esotica ma standardizzata, come d’altronde qualsiasi esperienza replicata in vitro dalla rampante classe imprenditoriale, ciò che ne viene fuori è il ritratto di una realtà in apparenza libera ma di fatto estremamente codificata, che occulta i rapporti di forza e ottunde la percezione. Wiener lavora in una compagnia che si occupa di dati, ma racconta di come nessuno al suo interno, lei compresa per il periodo in cui ne ha fatto parte, si pone quesiti etici circa la legittimità di trattare i dati dei consumatori. All’indomani delle rivelazioni di Snowden l’autrice descrive l’atmosfera svagata e affatto preoccupata del suo ambiente di lavoro: «Alla startup di analisi dati non parlammo una sola volta della talpa, nemmeno durante l’happy hour. In genere raramente si discuteva di attualità. Non ci consideravamo parte dell’economia della sorveglianza. Non riflettevamo sul nostro ruolo, non pensavamo al fatto che stavamo favorendo e normalizzando la creazione di banche dati sul comportamento umano, gestite da privati e non soggette ad alcuna regolamentazione. Stavamo solo aiutando gli sviluppatori a creare app migliori».
Non stupisce che l’oggettivismo, una particolare filosofia di vita, creata a partire dagli anni Quaranta dalla scrittrice Ayn Rand, che predica di concentrarsi sull’accrescimento personale senza prendere in considerazione gli obblighi morali nei confronti del mondo e del prossimo, abbia preso piede nella Valley. Al di là delle credenze di ciascuno sembra che l’imperativo della Valley sia solo uno: ottimizzarsi come un algoritmo che impara a fare sempre meglio il proprio lavoro. Una corsa al profitto e alla soddisfazione di sé che Wiener delinea così: «Il traguardo finale era lo stesso per tutti: la crescita a ogni costo. Superare chiunque altro, la disruption e poi il dominio. Scopo ultimo di quell’idea: un mondo migliorato dalle aziende migliorate dai dati. Un mondo libero dal peso delle decisioni, dalle inutili frizioni del comportamento umano, dove ogni cosa, ridotta alla versione più veloce, semplice e patinata di se stessa, poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata e controllata».
Seguendo questa logica l’ottimizzazione finale sarebbe quella dell’essere umano. Da qui la retorica e i sogni di postumanesimo dei magnati della Valley. Non è un mistero che da qualche anno Alphabet, la società-ombrello costruita da Google, stia sperimentando nel campo della robotica e dell’ingegneria genetica, allo stesso modo il sogno sbandierato da Musk è portare l’uomo a colonizzare Marte, come se la frontiera spaziale fosse la via definitiva per ovviare al problema dell’esaurimento dell’energia non rinnovabile. Eppure, come ammonisce lo studioso Adam Greenfield in Tecnologie radicali, un saggio che indaga in maniera critica lo stato dell’arte del progresso tecnologico, «ogni volta che ci viene propinata una qualche aspirazione al post-umano, dobbiamo riconoscere gli impulsi prevedibilmente dozzinali e fin troppo umani che vi sono alla base, tra i quali la brama di guadagnare dallo sfruttamento degli altri e la mera volontà di potere e controllo». E questo vale per ogni idea di futuro che ci viene spacciata dai nostri venditori di aggeggi tecnologici.
Ancora una volta si profilano i tre dogmi della Valley: ottimizzare, monetizzare, controllare. Il problema non è appurare se gli intenti che muovono gli imprenditori del tech siano più o meno nobili, ma sapere che alla fine della fiera il campo da gioco un cui operano è delimitato da questi valori, e tanto vale per acquisire una certa consapevolezza su ciò che succede nell’ecosistema digitale nel quale siamo immersi ogni giorno.