Un borgo delle Alpi e l'impegno di persone che non si arrendono al declino. Viaggio a Ostana, teatro di una piccola rivoluzione.
Dalla provinciale che percorre tutta la Valle Po e porta fino ai piedi del Monviso Ostana neanche si vede. Bisogna lasciare la direttrice principale e inerpicarsi su una strada che si fa via via più stretta, e non spiana quasi mai. Poi, dopo l’ennesimo tornante, un edificio dall’ossatura montana e dall’aspetto innovativo dà il benvenuto ai visitatori. È il Rifugio Galaberna ed è gestito dalla sindaca del paese, Silvia Rovere, salita dalla pianura con la famiglia dieci anni fa proprio per occuparsi del rifugio. E se oggi Ostana può sentirsi un paese diverso rispetto alle altre piccole borgate che punteggiano le Alpi piemontesi, è anche grazie a luoghi come questo.
All’inizio degli anni ‘90 qui vivevano stabilmente non più di 5 persone: i pochi sopravvissuti a quell’esodo che aveva svuotato le vallate delle Alpi Occidentali.
Il secondo dopoguerra di Ostana era stato infatti simile a quello di gran parte dei borghi montani del nostro paese. Lo stillicidio immortalato da Nuto Revelli (nato e morto proprio in provincia di Cuneo) ne Il mondo dei vinti. Finita la guerra, arriva il Piano Marshall ed esplode il boom economico; generazioni di contadini scambiano la vanga per il martello, si inurbano, sognano un appartamento con televisore, il benessere, una pensione serena. La montagna si inchina, vinta, alla città.
Oggi i residenti stabili di Ostana sono però una sessantina (addirittura 89 da dati Istat), un incremento in controtendenza frutto di una piccola rivoluzione silenziosa. Inserito oggi anche nella lista dei borghi più belli d’Italia, da 35 anni questo paesino ha iniziato un processo di rivitalizzazione. Rivitalizzazione delle case e degli edifici che giacevano in abbandono, riportando servizi, posti di lavoro e spazi di socialità: le condizioni per poter vivere a Ostana 365 giorni l’anno, non solo qualche mese durante l’estate.
Una delle menti dietro la rinascita di Ostana è Antonio De Rossi, un passato nel punk rock e un presente come professore ordinario in Progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Torino.
L’abbiamo intervistato per parlare del caso Ostana, partendo dall’inizio di questa storia.
Simone Benazzo - Per biografia prima ancora che per lavoro, tu sei stato tra i testimoni di quella grande fuga di massa che ha desertificato le Alpi Occidentali.
Antonio De Rossi - Io abito in una vallata qui a nord, la Val Pellice. Frequento Ostana dal 1973, da quando avevo otto anni. E ho visto tutto il percorso di dissoluzione di questa comunità. Come tutti i luoghi della montagna piemontese, in particolar modo occitana, questo era un luogo dove era passato un vento di disgregazione, di dissoluzione, qualcosa come un’implosione dell’interno. Ci sono dei luoghi su queste montagne che sono stati abbandonati di colpo, durante gli anni ‘60, dall’intera comunità. A Narbona, in alta Val Grana, c’è un villaggio dove l’intera comunità è andata via tutta insieme, di colpo, lasciando le tavole apparecchiate. Una sorta di Pompei alpina.
E questo era un po’ il sentimento che si sentiva in questi luoghi. Luoghi che sì, erano ancora in piedi, ma erano privi del soffio della vita. Ancora prima dei fantasmi della case, dei muri, delle pietre, erano i fantasmi delle persone la cosa più presente in questi luoghi.
SB - Come si riparte dopo una lacerazione del genere?
ADR - Provare a riattivare lentamente la vita, delle cose e delle persone, è un processo veramente molto complicato. Puoi partire dal ritrovare le tradizioni, ma questi luoghi hanno vissuto una frattura non ricucibile. Ti ritrovi di fronte a una cosa che è stata svuotata di una sua storia pluricentenaria, e sai che lì, in quella storia, ci sarà sempre un’interruzione, qualcosa che non potrà più essere riannodato fino in fondo.
Questo pone questioni difficili da affrontare, perché molte comunità vivono nel mito di quello che fu il tempo passato. E molte volte si tratta di una mitizzazione di un passato che non è mai stato. Si tende ad averne una visione molto pacificata, naturalizzata, quando in realtà è stato è un passato difficile, fatto spesso di conflittualità.
SB - Ostana pare invece attrezzatissima per questo secolo.
ADR - Il processo di rigenerazione di Ostana parte da lontano. Nel 1985 una serie di persone della diaspora torinese che continuavano ad avere fortissimi legami con il posto, che ritornavano e mantenevano le case, hanno deciso che il paese non doveva morire. Si sono presentate con una lista, hanno vinto le elezioni e hanno iniziato un processo di rinascita.
Inizialmente, si è molto lavorato sulle questioni di carattere culturale, storico e tradizionale, dando vita a un processo iniziale di recupero del patrimonio, simile a quelli intrapresi in altri paesi alpini. Tuttavia, sempre in quella fase viene fatta anche una scelta di avanguardia: a Ostana non si sarebbe potuto costruire nulla di nuovo, ma solo ristrutturare il patrimonio, che versava in stato di abbandono ma era perfettamente integro. Questo scelta ha iniziato ad attirare sul paese l’attenzione delle persone attente alla montagna.
In una seconda fase, iniziata con il nuovo millennio, è nato qualcosa di più attivo, dove l’obiettivo è proprio quello di ricostruire un’abitabilità del paese, di ricostituire una comunità. Quindi non più solamente salvaguardare e tenere in vita Ostana: la costruzione dell’abitabilità e la possibilità di far ritornare persone, di far venire nuove persone, e non solo gli abitanti originari ad abitare in questo paese, è diventato un progetto completamente consapevole.
A metà anni 2000 è così nata una collaborazione molto stretta tra l’amministrazione, la comunità di Ostana e il Politecnico di Torino, proprio per lavorare intorno al tema della costruzione di una nuova abitabilità. Un lavoro più da bricoleur, da rigeneratori, che da progettisti tradizionali. Poiché prevede anche la ricerca di finanziamenti, sono cantieri spesso molto difficili, perché la difficoltà di trovare risorse obbliga a realizzare queste opere nel corso del tempo. Però siamo riusciti a darci obiettivi di lungo termine.
E quindi nell’arco di quindici anni abbiamo costruito una “infrastrutturazione di servizi di welfare”: la priorità, a mio avviso, per costruire una nuova abitabilità della montagna.
SB - Cosa intendi con “infrastrutturazione di servizi di welfare”?
ADR - Abbiamo costruito una serie di infrastrutture diffuse in questo sistema policentrico, una sorta di rete, di fuochi disposti nella varie borgate, che servono a supportare e ad alimentare la vita.
La prima sfida è sempre la costruzione di una infrastrutturazione sociale. Servono luoghi dove incontrarsi, dove poter vivere assieme. In paese, fino a poco più di quindici anni fa, non c’era più un servizio commerciale, non c’era più un bar, un ristorante. L’apertura del rifugio Galaberna, il primo luogo dove le persone si potevano reincontrare, è stato un momento fondamentale per la comunità.
E ancora: un centro culturale a 1400 m di quota sembrava una follia. Invece oggi abbiamo il Lou Pourtoun, sempre pieno di attività culturali, formative, istituzionali.
Poi abbiamo costruito una “Casa alpina del welfare”, che ospita una serie di servizi, tra cui un ambulatorio, una libreria, una nuova panetteria-pasticceria, gestita da ragazzi appena arrivati dalla pianura. Abbiamo realizzato un centro benessere, che serve a supportare politiche di turismo sostenibile e green.
E al momento stiamo lavorando molto sul tema di una infrastrutturazione per l'agricoltura. Stiamo realizzando un piccolo caseificio, con annessi anche punto vendita per i formaggi e casa del margaro.
Questa infrastrutturazione, con le sue nuove architetture, è diventata fondamentale non solo per segnalare il processo di innovazione che si stava sperimentando a Ostana, ma proprio per dare quei servizi di base che oggi sono fondamentali per abitare in questo luogo; un luogo duro, ad alta quota, con inverni lunghi.
SB - Che ruolo ha giocato l’architettura in questa costruzione di una nuova abitabilità?
ADR - Per chi si occupa di montagna e di aree interne, oggi Ostana è un posto sotto i riflettori, cui viene anche riconosciuta qualità architettonica. Questi progetti sono andati alla Biennale di Venezia, hanno ottenuto premi e riconoscimenti; sono usciti su riviste specializzate, cataloghi di mostre.
Ma il tratto distintivo non è solamente la qualità, è proprio il modo di procedere. Durante questo lavoro collettivo - continuo, quotidiano, basato sull’esserci, l’architettura non ha agito solo come una semplice traduzione funzionale di qualcosa che serviva per la rigenerazione: qui è stata alla testa del processo di rigenerazione.
SB - Come?
ADR - Mentre questo processo avveniva, l’architettura e il lavoro culturale costruivano un immaginario, una possibilità di raffigurarsi un progetto di futuro.
Questi progetti hanno avuto, nel loro piccolo, la capacità di far prefigurare che un altro destino fosse possibile. E questo è un ruolo sociale. Non è un discorso che mira a legittimare l’architettura per la sua funzione sociale, sarebbe un tema banale. È una questione di un’architettura che è dentro le cose, dentro i processi: una possibilità che l’architettura ha, ma che molte volte non viene colta.
Quello che ha fatto la grande differenza di Ostana - e la fa tuttora - in questo processo è stata la grande intelligenza di questa comunità e di questa amministrazione. Erano a rischio della vita e hanno avuto il coraggio di uscire dalla tradizionale autarchia di queste valli e di chiedere un supporto a specialisti, esperti, persone di buona volontà cha hanno deciso di accompagnare Ostana in questo processo di rigenerazione.
SB - Instaurare una relazione sana tra dentro e fuori, tra qui e altrove, tra montagna e fondovalle: un’azione decisiva, e spesso frustrante, nelle aree alpine.
ADR - Se prendiamo le singole biografie di tutti i nuovi abitanti di Ostana, sono storie di persone che intrecciano continuamente più spazi, più culture.
Io credo che il futuro della montagna sia soprattutto fatto di queste cose, che permettono di costruire nuovi visioni in un intreccio tra questo luogo e altri luoghi. Questa capacità di essere multi-prospettici è un tema oggi decisivo per ripensare il rapporto coi luoghi. Perché, mentre si inventano nuove pratiche di appartenenza, legate anche a cose molto fisiche (la nuova agricoltura, i nuovi mestieri della montagna), serve mantenere anche la capacità di essere orizzontali. Prendere saperi, competenze, visioni da più parti che non siano solo quelle del territorio locale.
SB - L’apertura e il dialogo con l’esterno sono una novità di questi ultimi decenni, agevolata forse dalla tecnologia? La montagna è sempre stata fino a tempi recenti quel luogo remoto e isolato, abitata da montanari che rifiutano la relazione con l’esterno, come prescrive lo stereotipo?
No, la storia dei montanari è sempre stata una storia di scambio con l'altrove. Le persone che abitavano queste comunità nell’800 e nel primo ‘900 emigravano per diversi mesi all’anno. Andavano a lavorare al porto di Marsiglia, giù in Provenza, a Parigi. Avevano delle competenze molto più ampie rispetto a quelle che l'immaginario attribuisce a un montanaro. Per cui, l’idea di una montagna che è al contempo strettamente legata a questo luogo, ma che sa, conosce e mette in relazione le cose è in realtà il tema tradizionale della vita in montagna, che noi, assuefatti a una visione molto urbana e ideologica della montagna, tendiamo oggi a rimuovere.
Un esempio molto indicativo furono i valdesi, nella valle immediatamente superiore a questa, la Val Pellice, che avevano rapporti con praticamente tutta la intelligentsia europea, quindi con la Svizzera, con la Germania, con l’Inghilterra. Persone da tutta Europa, e anche dal Nuovo Mondo, venivano a visitare questo luogo.
È tutto l’opposto dell’immagine di una montagna chiusa su sé stessa. È sempre stata una montagna che ha coltivato una grande volontà di carattere relazionale. Non perché l’avesse teorizzato, ma perché doveva farlo. Per mantenere questa economia di sussistenza diventava fondamentale andare a guadagnare soldi in altri posti, riportarli e reinvestirli sul proprio territorio. Era questo che permetteva a 1200 persone di riuscire a vivere in un territorio piccolo come quello di Ostana.
SB - Cosa può insegnare la rigenerazione di Ostana?
ADR - Insegna che le comunità possono ricominciare a far scorrere la storia, ricominciare a far correre il tempo producendo una nuova cultura, delle nuove visioni e non rimanendo attaccati solamente a un’idea mitizzata di un montanaro che in realtà non è mai concretamente esistita.
Ostana non è semplicemente un caso, che era forse impossibile, di un paese quasi morto che rinasce solamente in virtù delle proprie forze ed energie. È la costruzione di un racconto, di una pratica corale che mette insieme pezzi della vecchia comunità, persone che arrivano qui da più parti d’Italia e anche del mondo (abbiamo tedeschi, svizzeri che sono venuti ad abitare qua), specialisti che portano i loro saperi e competenze rendendoli attivi e facendo il grande sforzo di rendere efficaci questi saperi e queste competenze. Far incrociare tutte queste persone fa diventare questi luoghi degli incubatori che vengono a produrre nuove visioni, nuove culture, ma anche nuove economie.
Questo insieme di azioni, molto articolato, ha prodotto la storia di Ostana, per certi versi unica e non ripetibile, ma che dimostra una grande cosa: anche un paese praticamente morto, che è arrivato ad avere solamente cinque persone, può rinascere.
è professore ordinario in Progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Torino. Tra le sue opere più recenti: La costruzione delle Alpi (2014) e le due curatele Riabitare l’Italia (2018) e Metromontagna (2021), uscite tutte per Donzelli. Segue da anni il tema del neo-insediamento alpino, setacciando l’Italia alla ricerca di esempi virtuosi di rigenerazione, aiutandoli a immaginarsi una seconda vita nelle società post-industriali.