Una rilettura dell'opera di Fernand Deligny, educatore e studioso dell'autismo infantile.
La recente ripubblicazione del libro I vagabondi efficaci (Edizioni dell'asino) ha riacceso il dibattito attorno alla figura di Fernand Deligny. Vorremmo qui deragliare rispetto agli articoli generalmente proposti, trattando una parte della sua opera ancora poco discussa, e sottolineando come l’eredità lasciataci in consegna possa oggi germogliare in scenari inaspettati.
Deligny è stato un educatore francese che dagli anni ’60 del Novecento ha studiato «l’autismo infantile precoce» ponendosi egli stesso al di fuori del linguaggio; le comunità della zattera da lui fondate nel Massiccio Centrale Francese erano difatti regolate dalle necessità dei bambini in vacanza dal linguaggio, i quali non venivano rieducati per essere accolti dalla società che li aveva dichiarati inutili, ma piuttosto indicati come nuovo possibile riferimento. Deligny li definisce in vacanza dal linguaggio perché liberi dalla parola e, ugualmente, le sue comunità dalla parola dovevano essere mantenute libere: «aree di soggiorno come possibili strutture aperte per collocare una condizione estrema e degradante, ma aperta, come quella di chi è fuori linguaggio» (Lucia Amara).
Lasciare che le comunità si sviluppassero sulla misura dei bambini autistici ha permesso di rivelare una rete di connessioni che generalmente sfuggono all'attenzione comune. Deligny ha pensato a un sistema di linee di abbrivio — ovvero linee che registrano su una mappa i percorsi dei bambini all’interno della comunità — le quali mostrano il ritorno in determinati luoghi dove gli stessi gesti in-causati e privi di scopo si ripetono ritualmente; questi, venendo di volta in volta indicati sulla mappa con dei segni, formano solchi o calli che vanno a influenzare lo sviluppo della rete. L’origine di questi gesti è sconosciuta: non potremo mai sapere cosa li abbia innescati; non possiamo sapere perché Jean Marie, il primo bambino seguito da Deligny, abbia tracciato per mesi cerchi semi aperti o perché continuasse a girare intorno a se stesso, anche se, pensa Deligny, la vacanza dal linguaggio implica la vacanza del sé, della coscienza e del tempo. L'educatore francese prende l’aggettivo “aracneo” (Arachnéen), un aggettivo letterario caduto in disuso, gli ascrive nuovi significati, e se ne serve per meglio cogliere cosa significa essere in vacanza dal linguaggio. L’aracneo dà centralità al gesto: non è il progetto del ragno quello di tessere la ragnatela, ma è il progetto della ragnatela di essere tessuta.
«Ogni movimento traccia una linea nello spazio; completa, secondo una precisa formula ermetica, una ignota e rigorosa figura, conclusa da un gesto imprevisto della mano.” Scrive Antonin Artaud descrivendo il teatro Balinese. Penso che questa breve sintesi sugli studi di Deligny già riveli una possibile connessione con il suo Teatro della Crudeltà. Artaud voleva spodestare la parola affinché il teatro potesse tornare a essere gesto; un gesto che è impulso, che sfugge alla rappresentazione e che è geroglifico; un gesto che i bambini in vacanza dal linguaggio sembrano non poter prescindere dal compiere. Farla finita con Dio implica la fine del Padre e della rappresentazione, ecco la Crudeltà; e chi meglio di quei bambini che non concepiscono l’alterità può attualizzare questa condizione?
Ma queste analogie sarebbero infeconde se a loro volta non rivelassero una possibile fitta rete di connessioni. Derrida identifica alcuni dei disegni di Artaud con il suo teatro, scoprendone la loro natura geroglifica. Scrive Artaud in una lettera ad André Gide:
I movimenti, gli atteggiamenti, i corpi dei personaggi si comporranno o si scomporranno come dei geroglifici. Questo linguaggio passerà da un organo all’altro, stabilirà delle analogie, delle associazioni impreviste, tra serie di oggetti, serie di suoni, serie di intonazioni.
Tali movimenti generatori di associazioni che sono la scrittura geroglifica nell’accezione di Artaud, non potrebbero essere identificati con il movimento aracneo dei bambini nelle comunità della zattera? Le linee di abbrivio, scrivono Deleuze e Guattari, sono linee di intensità, non vogliono dire niente e non hanno niente a che vedere con la scrittura, ma è la scrittura che dovrebbe rifarsi alle linee di abbrivio. La scrittura dovrebbe perdere la significazione per poter “misurare territori e cartografare, perfino delle contrade a venire.” Ne Il rituale del serpente, Warburg e Mainland descrivono un vaso trasportato da una donna indiana ed enfatizzano come l’uccello dipinto sul vaso sia scomposto nei suoi tratti fondamentali, diventando così un geroglifico, ovvero un oggetto che non va soltanto osservato, ma anche letto, ponendosi a metà tra immagine e scrittura. Le linee d’abbrivio e il tratto divengono un’unica cosa, ovvero delle linee d’intensità che giocano sul limite. Un tale miracolo avviene anche nel montaggio verticale suggerito dal cineasta sovietico Sergej Ėjzenštejn, il quale si ispira al teatro No, al teatro kabuki e alla scrittura per mezzo dei logogrammi, i cui diversi abbinamenti “fanno esplodere il concetto.” Nello specifico il montaggio verticale avviene sovraimprimendo una striscia di immagini a una striscia virtuale, che può essere, ad esempio, un suono. In un film muto riusciremo attraverso l’utilizzo delle sole immagini a dare la sensazione del suono in questione in quanto la striscia virtuale guiderà il montaggio delle immagini e sarà così presente come forma d’intensità. Il primo artista che fa uso del montaggio verticale è El Greco, il quale è riuscito a restituire la canzone popolare Cante Hondo attraverso il suo montaggio della città di Toledo che possiamo osservare in Vista y plano de Toledo (1608).
Il discorso portato avanti sin ora può trovare la sua sintesi nell’atlante Mnemosyne (1921) di Aby Warburg in cui si rintracciano le sopravvivenze (Nachleben) di forme di pathos (Pathosformeln) che ricorrono inspiegabilmente attraverso la storia dell’arte e che hanno rivelato, ad esempio, connessioni tra il Rinascimento e l’arte classica attraverso panneggi e ninfe. Didi-Huberman, ne L’immagine insepolta, ci fa notare che l’origine di queste forme ricorrenti viene associata da Warburg alle parole Prägung ed Engramm; ovvero queste forme sono riconducibili a un’impronta che ha lasciato il proprio solco nella memoria collettiva, richiamando l’impronta di Darwin, termine che egli utilizza per identificare quei gesti che sono impulso privo di volontà: “Darwin la definisce [l’impronta] come ‘un’azione diretta del sistema nervoso’ sui gesti corporei, in quanto gli elementi costitutivi di tale azione sono ‘totalmente indipendenti dalla volontà ed entro certi limiti anche dall’abitudine.’” (L’immagine insepolta) Le linee d’abbrivio usate da Deligny consistono proprio in quei gesti che vanno alla deriva, che scaturiscono da impulsi ignoti, e si distinguono dai semplici percorsi abituali dei bambini. È interessante che le parole impronta (Darwin), Prägung (Warburg) e solco (Deligny) evochino la stessa immagine dell’imprimere una superficie e che esse identifichino un effetto analogo che è quello di influenzare una rete comune.
Questo discorso può essere la base di una ricerca che vada a inseguire le linee d’abbrivio per rintracciare gesti aracnei che fanno silentemente parte di una rete di connessioni che li accomuna. Questi gesti fuori dalla rappresentazione, inspiegabili, generati da impulso e liberi dal pensiero andrebbero ricercati ovunque, in qualsiasi cultura e forma d’arte; riunendoli insieme in un nuovo atlante scopriremmo analogie sorprendenti, e fondamentali per gli scenari futuri.