Minimum Fax pubblica il secondo volume dedicato agli scritti di K-Punk: questa volta tocca al cinema e alla televisione.
Mark Fisher scrisse per molti anni su un blog che si chiama K-Punk: era hostato su Abstract Dynamics, aveva uno stile scarno e notturno, specchio dell’Internet dei suoi tempi. Il server che lo teneva online è ancora in piedi e potete visitarlo. Il blog nacque nel 2004, qualche anno prima della grande crisi finanziaria che avrebbe sconvolto il mondo (crisi dei subprime, il crack della Lehman Brothers, lo scoppio della bolla immobiliare e qualche altre piaga biblica), tre anni dopo il crollo delle Twin Towers: evento che, ironia, il mondo lo aveva già sconvolto. Un periodo storico di transizione tra due catastrofi d’Occidente durante il quale il filosofo e blogger inglese ha scritto, come dicevo, tanto (la sua opera più nota, Realismo capitalista, verrà pubblicata nel 2009).
(Cercare di) capire il proprio il tempo è stato lo scopo di Mark Fisher sul pianeta.
Il blog K-Punk era la comfort zone di un individuo che aveva vissuto con sofferenza il periodo del Phd, “ti spinge a credere di non poter dire la tua su nulla finché non hai letto tutto ciò che hanno scritto gli esperti sull’argomento”, e che nella forma privata, informale e libera del blog riusciva a raccogliere con leggerezza i pensieri sugli argomenti che lo interessavano.
Alcuni di questi scritti hanno posto le basi o, sono stati utilizzati, nei libri successivamente pubblicati dall’autore, Ghost of My Life (Spettri della mia vita) e The Weird And The Eerie (Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo).
Un anno dopo la scomparsa di Fisher, avvenuta nel 2017, Darren Ambrose cura la pubblicazione di “K-Punk. The Collected and Unpublished Writings of Mark Fisher”: è un corpus di 800 pagine tratte dal blog (ma non solo, ci sono articoli per riviste online o quotidiani, come Wired o The Guardian), selezionate al netto di tutto quello che poi venne pubblicato in forma libro dall’autore quando era in vita.
In Italia la pubblicazione e la traduzione (di Vincenzo Perna) sono ad opera di Minimum Fax, che ha deciso di farlo dividendo l’opera in quattro libri tematici. Se il primo, Il nostro desiderio è senza nome, uscito lo scorso anno, affronta gli scritti politici, Schermi, sogni e spettri, pubblicato poche settimane fa, raccoglie gli scritti dedicati al Cinema e alla Televisione.
Il volume presenta in circa 250 pagine quasi una cinquantina di articoli, citarli tutti sarebbe faticosamente inutile e confusionario. Ma è possibile focalizzarsi su alcuni, che mettono in mostra i ragionamenti più interessanti e coerenti all’edificio del pensiero di Fisher.
Il denominatore comune degli oggetti della missione fisheriana è quello di andare alla ricerca di elementi d’iperstizione. Allievo di Nick Land, Fisher va a caccia dei fenomeni iperstizionali che infestano la fiction. Se si volesse comprendere un minimo l’argomento c’è un articolo che pone alcune basi e si chiama “How Do Fictions Become Hyperstitions?”; tratta, come si evince dal titolo, del rapporto tra iperstizione e opere di finzione. Lovecraft, ad esempio, è l’archetipo dell’autore iperstizionista: le sue creazioni (la sua mito-storia, i suoi dei antichi, le paure, le aberrazioni, i culti immondi) sono da tempo fuggite al creatore ed esistono, nel presente, indipendentemente da esso.
Fisher fa un po’ questo: scrivere di opere che sono sfuggite ai loro autori.
Come nel caso di Materialismo Golgotico (ma è molto più interessante il titolo originale Hyperstition, che appunto lo mette in linea diretta con Land), recensione atipica de La Passione di Cristo di Mel Gibson, riletta come opera antimondiana. La violenza perversa degli ebrei e dei romani non ha nessun valore di etnicità in Fisher, ma è la rappresentazione della stupidità e della violenza dell’essere umano. Cristo muore per non trasmettere il virus della violenza, diventando sotto certi aspetti uno dei protagonisti/vittima del suo Capitalismo Realista.
Secondo Fisher molti prodotti televisivi anglosassoni sono infestati da certi fantasmi della storia (i lettori di Ghost of My Life potranno intuire). Me è una storia privata (di famiglia) o una storia universale?
Nell'articolo su Doctor Who (storica serie sci-fi britannica) Fisher s’inventa il concetto di fiction perturbante (“Uncanny Fiction”), cioè una fiction che colonizza l’inconscio. Riguardare da adulti un vecchio episodio di Doctor Who significa affrontare l’incapacità di rivivere un momento perduto, disarmante impresa della memoria. Questo avviene, prova a spiegarsi Fisher, perché in qualche modo la serie tv britannica ha colonizzato l’inconscio del giovane spettatore il quale ,una volta divenuto adulto, sarà incapace di inventare zone di gioco immaginarie. Lo spettatore postmoderno “ha davanti a sé due opzioni: ripudiare l’entusiasmo, cioè come si dice diventare grandi, o conservare la fede, cioè non diventare grandi. Due destini attendono perciò il bambino non più ipnotizzato dai media: realismo depressivo o fanatismo per la tecnologia.”
Scritto nel 2005, questo passo anticipa e prevede lucidamente quello che sarebbe successo dieci anni dopo: un insieme di eventi noti sotto il cappello di toxic nerdom.
Avvisaglie di nerdom tossico sono un presagio anche in Edipo Gotico: soggettività e capitalismo in Batman Begins di Nolan, a partire dalla critica posta a Frank Miller, che avrebbe “sfruttato il desiderio ipocrita degli adolescenti maschi di leggere i fumetti e sentirsi al tempo stesso superiori a loro.” L’articolo è una decrittazione del Batman di Nolan per salvarlo dal rischio di essere letto come un prodotto di fascismo anticapitalista (accusa che gli fu rivolta dallo scrittore China Miéville), e rileggerlo in un’ottica di dramma esistenzialista, in fuga dal capitalismo nichilista. In Batman Begins se c’è il fascismo è incarnato da R’as Al Ghul, che nella distruzione vede l’unica soluzione alla corruzione di Gotham City.
È interessante notare come in questi articoli siano disseminate tracce dei fondamentali del pensiero di Fisher, che nell’articolo sul film di Nolan definisce il realismo capitalista, una ”struttura ideologica” che sosteneva di aver liberato l’uomo dalle utopie di collettività e dalle astrazioni mortali delle ideologie del passato.
Salvare Batman da un’appropriazione neo-conservatrice sarà il compito anche dell’articolo dedicato a Il Cavaliere oscuro. I neocon e i fanatici di destra rivedevano in Joker il riflesso di Osama Bin Laden, ma Fisher fa notare come “il film non riguarda affatto la lotta del Bene contro il Male, male buone cause contro i modelli aberranti di causa/causalità. Joker e Due Facce non sono malvagi ma pazzi, e la loro pazzia è collegata al rapporto che intrattengono con la sua causalità”. Cosa ne pensava Fisher del Joker di Heath Ledger? Bene, benissimo, molto meglio di quello interpretato da Nicholson: (a proposito di Ledger) “qui non emerge nessuna traccia dell’attore dietro al ruolo (nel caso Nicholson, ovviamente, c’è solo quella). “ Del Joker burtoniano critica l’eredità della scrittura di Alan Moore, che ha donato al Joker un precedente simil-letterario per la sua follia (la scena della pozza dell’acido in The Killing Joke).
L’operazione di lettura anti-destra di Batman sulla quale Fisher deve porre un limite con il terzo capitolo, Il Cavaliere oscuro - Il ritorno: il film è una sorta di anti-Occupy Wall Street, movimento nato nel 2011 per denunciare gli abusi del capitalismo finanziario. Nel capitolo finale della saga di Nolan la rivoluzione del popolo contro i ricchi ha il sapore di una tragica distopia: “il nuovo film demonizza l’azione collettiva contro il capitale, chiedendoci contemporaneamente di riporre tutta la nostra speranza e tutta la nostra fede nelle mani di un ricco pentito.”
Uno dei capitoli più ispirati del libro è il mini-saggio Gli spazi spettrali dell’Overlook Hotel, che è una rilettura degli studi di Frederic Jameson sul concetto di fantasma nella società borghese e, nello specifico, in Shining. Il romanzo di Stephen King e la trasposizione “infedele” di Kubrick vengono analizzate tramite la definizione dell’hauntologia, termine derivato dal Derrida de Gli Spettri di Marx, definita come “lo studio di ciò che si ripete senza mai essere presente”. Le infestazioni ( di cose che non sono mai avvenute) sono sempre state un tema caro a Fisher, come lo saranno a tanti intellettuali della scena del CCRU (Cybernetic Culture Research Unit, collettivo di ricerca attivo tra il ‘95-’98 all'università di Warwick). La connessione con Jameson è evidente: la postmodernità è definita in termini di ripetizione. Così se per Jameson Shining si declina come vicenda psicoanalitica, in una storia di fantasmi sui fantasmi, in Fisher il film non appartiene alla postmodernità ma al suo “sosia”, all’hauntologia. La grandezza di Shining sta nell’essere una ripetizione in senso culturale e psicanalitico, evidente nella versione cinematografica: l’Overlook Hotel è un parco giochi per i super privilegiati della storia umana, un incubo della storia americana costruito sulle macerie di un cimitero indiano. Ma Fisher è più attratto dal lato famigliare della questione, ai fantasmi dell’Overlook in quanto spettri della storia di famiglia.
C’è spazio anche per Star Wars, con un pezzo del 2012, “Star Wars era svenduto fin dall’inizio” e pubblicato ai tempi sul The Guardian. L’articolo vuole rispondere alla domanda che ai tempi si ponevano molti critici e fan della saga: l’acquisizione della Lucasfilm da parte della Disney avrebbe configurato una svendita artistica della creatura di George Lucas? Star Wars “era venduto fin dall’inizio”, secondo Fisher fin da quando nel 1977, ai tempi del primo film, i pupazzetti della Kenner andavano sold out offrendo al mondo il primo fenomeno di sovrasaturazione di prodotti commerciali legati a un film. Star Wars come apripista del pastiche blockbusteriano e, versione transustanziata di Apocalypse Now. Ma per chi fosse interessato all’argomento Star Wars sarebbe decisamente più interessante leggere il capitolo "00:Lost Futures" in Ghost of My Life.
Tra i film che Fisher ha apprezzato di più negli ultimi anni della sua vita c’è il primo capitolo della trasposizione di The Hunger Games, La Ragazza di Fuoco: “a Suzanne Collins va riconosciuto l’immenso merito di aver prodotto nientemeno che una contronarrazione del realismo capitalista.” Dell’opera di Collins il filosofo s’innamora, fulminato dall’idea di un racconto nel quale la rivoluzione è necessaria, dove “i problemi sono logistici ma non etici, è l’unica domanda è come e quando avverrà la rivoluzione, non se debba avvenire o meno.”
Tra le serialità compare un articolo di analisi su Breaking Bad, scritto a serie ormai conclusa. Come nel caso del mini-saggio su Shining, Fisher pone sapientemente attenzione nei confronti del rapporto tra patriarcato, goffamente interpretato da Walter White e famiglia. “Ma che diavolo vi è preso a tutti e due? Noi siamo una famiglia!” dirà Walt appellandosi all’unità dopo uno scontro fisico avuto con la moglie. E a proposito della moglie Skyler, per Fisher è il personaggio “forse più complesso e incisivo della serie”. L’attrice nel corso degli anni ha dovuto subire offese e attacchi online da parte di alcuni fan, nonostante sia “un personaggio sfaccettato [...] Pur deplorando le avventure criminali di Walt [...] ha lottato, senza successo ma eroicamente, per cercare di conciliare i ruoli di moglie, madre e onesta cittadina. Alla fine si ha quasi l’impressione che Skyler sia traumatizzata ma non sconfitta: una donna che sarà comunque in grado di sfuggire agli orrori che Walt ha portato nella sua vita.” Più generalmente, Breaking Bad per il teorico sfugge al pensiero di Spinoza, Kant, Nietzsche e Marx secondo i quali l’ateismo fosse difficile a dirsi, ma un paio di maniche diverse da praticare, a causa della rinuncia complicata di abitudini di pensiero che prevedono l’esistenza di una provvidenza, di una giustizia e di una visione manicheista del mondo. Nel Selvaggio West dei dintorni di Albuquerque, dove deserto e valli desolanti richiamano il mito di John Ford, Walt “compie gesti scellerati perché vuole rimanere un buon marito secondo i canoni dell’etica protestante del lavoro”. Interessante notare come effettivamente i familiari di Walter avrebbero potuto sopravvivere a un insieme di piccole e grandi tragedie, come la povertà e alla morte di Walter, ma “non riescono a sopravvivere alla perdite dell’immagine di Walt come figura di padre normale”.
Si diceva poi della divisione annullata del bene e del male. Come fa notare Fisher la storia è disseminata di cose “cattive” (ve la ricordate la testa decapitata di Danny Trejo poggiata sulla corazza di una tartaruga che passeggia nel deserto?) ma effettivamente nessuno è un malvagio in senso stretto. A partire da Tuco, squilibrato a causa di una famiglia di criminali e dipendente alla meth, per passare a Gus Fring, un boss pragmatico e, direi, rassicurante. In Breaking Bad la demarcazione tra buono, normale e criminale spietato si gioca di pochi centimetri. Ed effettivamente la catena degli eventi si scatena perché un uomo non può pagarsi delle cure private: “Se non fosse stato per il sistema previdenziale e per la sanità britannica, avrebbe potuto capitare anche a noi”.
Chiudiamo la panoramica con il capitolo dedicato al Grande Fratello vip, scritto per New Humanist nel 2015. Fisher si chiede come sia stato possibile arrivare ad un’edizione del Grande Fratello basata su un esercizio di crudeltà quotidiana perpetrata nei confronti dei suoi protagonisti (per capire approfonditamente la situazione, bisognerebbe conoscere i fatti successi nell’edizione, che aveva tra i suoi ospiti la celebrità britannica Farrah Abraham e l’ex porno-star Jenna Jameson). La tendenza generale è quella di aver visto, negli anni, un inasprirsi di contesti di ansia, precarietà, nei format televisivi di tipo reality. Oggettivamente è qualcosa che è evidente anche in Italia: guardatevi qualche puntata di talent sulla cucina (da Master Chef a Cortesie per gli Ospiti), musicali (X-Factor), in generale tutto ciò che riguarda le performance. Le conclusioni di Fisher sono sempre coerenti al suo percorso teorico: “i mutamenti economici e l’ubiquità di internet. La combinazione che ne risulta, il cyberspazio capitalista, ha normalizzato la precarietà estrema (la sensazione che niente sia permanente, che tutto sia sotto costante minaccia. [...] Abraham è il prodotto darwiniano delle brutali e costanti luci della ribalta della celebrity/reality tv del ventesimo secolo. [...] Nell’atmosfera di spietata incertezza che prevale nella tv tardocapitalista, fidarsi del prossimo è un lusso che nessuno si può più permettere, neppure il super-ricco.”
Nella prefazione al libro Simon Reynolds (collega e critico musicale più famoso al mondo) scrive che il gigantesco edificio di pensiero creato negli anni dall’amico è “un’opera rigorosa e profondamente colta, non risultava accademica. L’urgenza della sua prosa nasceva dalla convinzione che le parole potessero veramente cambiare le cose.” Personalmente penso che Fisher non fosse rigoroso, non interessa granché nemmeno se fosse colto in modo esponenziale. Dì Fisher rimane evidente, ad ogni scritto, quell’incredibile volontà di voler guardare oltre la crisi (generazionale, storica, individuale, personale), di saper raccogliere il significato della storia dietro gli oggetti che archiviava sul suo blog. C’è questo elemento urgente in Fisher: voler restituire al possibile le visioni di un’alternativa nascosta tra gli interstizi della cultura popolare.