Siamo sicuri di dover essere per forza qualcuno? In "Per farla finita con se stessi", uscito di recente per Edizioni Tlon, Laurent De Sutter formula alcune possibili risposte. Una recensione.
Per farla finita con noi stessi, voglio proporti la foto di un “io”, quella del retro di copertina di un romanzo: la prima edizione de Il giovane Holden dello scrittore americano J. D. Salinger. Prima di guardarla, immagina un viso maschile americano degli anni ’50; ecco, ora osserva la foto – probabilmente immaginavi qualcosa di simile, perché Salinger è l’ipostasi dell’America anche nell’aspetto fisico. Se non hai mai letto qualcosa di suo, o se conosci solo Il giovane Holden, ti suggerisco di leggere Franny e Zooey, anche se Holden non ti è piaciuto per nulla. L’unico romanzo di Salinger infatti non è la sua opera migliore. Intendiamoci, la scrittura è stupenda, ha la plasticità del linguaggio adolescenziale e la profondità di quello letterario, ma – per citare un autore che a Salinger deve molto – Franny e Zooey «non è lo stesso campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport».
La farò breve, perché questo articolo non è su Salinger. Se come dicevo non hai letto questo capolavoro, pensa a una perfetta ragazza americana degli anni cinquanta, seduta in un perfetto diner americano degli anni cinquanta che parla col suo perfetto ragazzo americano degli anni cinquanta. Franny è la regina dell’io e si trova nell’impero dell’ego all’apice dello splendore – eppure vuole farla finita con se stessa.
«Tutto quello che so è che sto diventando matta, - disse Franny. - Sono stufa di tutti questi ego, ego, ego. Del mio e di quello di tutti gli altri. Sono stufa della gente che vuol arrivare da qualche parte, fare qualcosa di notevole eccetera, essere un tipo interessante. È disgustoso, disgustoso e basta. Me ne infischio di quello che dicono.»
Dopo aver combattuto in Europa durante la seconda guerra mondiale, Salinger tornò in patria con quella che oggi si definirebbe una sindrome da stress post traumatico, percepibile sin dal suo primo racconto, Un giorno ideale per i pescibanana, pubblicato sul New Yorker quando l’autore aveva ventotto anni. Superati i trenta uscirono le vicende di Holden, che diventò presto un best seller, dopodiché l’autore si ritirò da New York per vivere in una casa contornata dai boschi del New Hampshire, dove scrisse poco e pubblicò ancora meno. Anche Salinger, come Franny e il filosofo belga Laurent De Sutter (di cui parlerò presto), voleva “farla finita con se stesso”.
Poco dopo la sua curiosa esternazione, la giovane protagonista cerca di spiegarsi davanti all’esterrefatto fidanzato, Lane:
«Non ho timore della competizione. È proprio il contrario, non lo capisci? Ho paura di volerla la competizione, è questo che mi terrorizza. Per questo ho piantato il corso di teatro, perché sono terribilmente disposta ad accettare le valutazioni degli altri. È proprio perché mi piace sentirmi applaudire e acclamare, vuol dire che c'è qualcosa che non va. Me ne vergogno. Ne sono stufa. Sono stufa di non avere il coraggio di essere nessuno e basta. Sono stufa di me e di tutti quelli che vogliono fare colpo, in un modo o nell’altro.»
Per bocca del ragazzo le risponde l’intera società: «Non me ne intendo molto, ma scommetto che un buon psicanalista, uno in gamba davvero, giudicherebbe le tue affermazioni…».
Perdere l’io è un’idea che riceve spesso una cattiva accoglienza, soprattutto nell’Occidente contemporaneo, dove tenere l’individualità ai vertici della gerarchia dei valori è una condizione di sopravvivenza della stessa struttura sociale. Non è così nel buddismo, nell’induismo, nello zen e nel taoismo – ma talvolta non lo è neanche dalle nostre parti, tanto che la “malattia” di Franny nasce dalla sua fissazione con la preghiera di Gesù, che la ragazza ha trovato nei Racconti di un pellegrino russo, un testo mistico-ascetico scritto fra il 1853 e il 1861 da un anonimo russo. Nel libro, il misterioso maestro di esicasmo consiglia la preghiera mentale incessante, protratta fino a sovrapporsi e sostituire ogni pensiero, ogni battito del cuore, respiro. Chi la recita deve coincidere con la preghiera fino a perdere il sé – una tecnica che trova similitudini anche in varie tradizioni musulmane, buddiste e induiste.
La ripetizione fa parte anche delle più comuni tecniche di auto-aiuto, la cui nascita il filosofo Laurent De Sutter riporta a Émile Coué, uno psicologo e farmacista francese celebre per lo sviluppo di un metodo di autosuggestione venduto come mezzo psicoterapico e di miglioramento del sé. In Per farla finita con se stessi, uscito di recente per Edizioni Tlon, De Sutter scrive che:
«Dalla moda del magnetismo alla fine del xviii secolo allo sviluppo della so- frologia o della “programmazione neurolinguistica” negli anni Settanta del xx secolo, passando per la “psicosintesi” di Roberto Assagioli, le terapie religiose nate con il New Thought, o il “training autogeno” di Johannes Schulz, la logica era identica. Si trattava ogni volta di proporre a un soggetto sofferente un repertorio di esercizi semplici e formalizzati, che si basava su una scissione dal mondo, che permetteva, una volta integrata, di riprendere il controllo sul sé, così da permettere al soggetto di poter funzionare di nuovo in modo efficace».
Lo scopo però è l’opposto della preghiera del pellegrino, ovvero non perdere se stessi ma diventare qualcuno, gareggiare (e vincere) la stessa competizione che Franny detesta – o meglio, che detesta desiderare. Nel suo “antimanuale di crescita personale”, De Sutter riscontra i sintomi di calcificazione dell’ego dapprima nel concetto di “persona” ed “esercizio” dell’antica Grecia, poi nel loro sviluppo all’interno della giurisdizione Romana, nel pensiero di Locke e infine nell’autosuggestione e i manuali di autoaiuto. Come scrive Gianluca Didino, «Per farla finita con se stessi ha un duplice pregio: quello di mostrarci come l’idea di sé sia una conquista storica, e non un datum neurologico; e come il sé sia sempre un costrutto politico se non addirittura poliziesco, l’«essere sé stessi» sempre un «dover essere», un uniformarsi alle richieste di un esterno (caso particolarmente evidente proprio nei manuali di autoaiuto, nei quali noi stessi diventiamo la polizia morale di un’evoluzione del nostro sé che si conforma a ciò che la società ritiene «buono», «giusto» o «desiderabile»)».
Per il filosofo belga, nel mondo greco, in quello romano e nel primo cristianesimo, essere se stessi coincideva in una serie di pratiche che copriva quasi l’intero spettro delle azioni umane. È un concetto che si trova anche in Foucault, per cui fin dall’epoca greca la cura di sé consiste proprio nella definizione di leggi che plasmino sia la forma sia l’oggetto delle pratiche atte ad alimentarle. «Prendersi cura di sé», scrive De Sutter, «significa prendersi cura della legge: questa è la lezione essenziale della storia occidentale, ma anche della tradizione islamica, della nozione di persona. Vi è un legame diretto tra il modo in cui qualcosa come il sé è stato configurato alla fine del xvii secolo da tutta una serie di pensatori (primo fra tutti Locke) e il modo in cui è stato concepito un certo ordine di assegnazione dei ruoli, garantito dalla legge». La formula a cui arriva è che «il sé è il supporto della norma che si riflette nell’esercizio» e che «la storia della crescita personale non è altro che la storia della polizia dell’essere».
È una lettura in cui si riconosce il sapore della teoria del diritto che il filosofo insegna presso la Vrije Universiteit di Bruxelles, sopratutto quando scrive che «I giuristi romani parlavano di personam habere, “avere una persona”, come se la personalità stessa fosse una specie di accessorio di cui si poteva disporre o meno. Ciò significa che esistere consiste soprattutto nell’esistere per le autorità che hanno il potere di riconoscere se un individuo è qualcuno o nessuno – o meglio: se un individuo è effettivamente la persona stessa, la persona che dice di essere, ma di cui non si può dire che lo sia veramente».
A differenza di Franny però, lo scarto proposto dal libro è di natura più esotica e si trova in quel che considero il trattato di filosofia più profondo e breve mai scritto, le tre parole “Tat tvam asi” (tu sei quello) della Chândogya Upaniṣad, parole che De Sutter collega anche al “Yad’lon” (c’è dell’Uno) di Lacan. «Come Uddalaka spiegò a Śvetaketu, non ha senso perdere tempo cercando di risolvere l’enigma di ciò che siamo, poiché siamo soltanto quell’enigma – solo l’asi, il “così” che, nella sua semplicità, segna il luogo della nostra impossibilità».
Nel suo libro De Sutter suggerisce che l’io sia una costruzione sociale e giuridica, un termine sottrattivo più che positivo. È dunque inevitabile il gioco di sponda con il buddismo, l’induismo e il taoismo, tutte filosofie che in un modo o nell’altro vogliono “farla finita con se stessi”. Per il filosofo però, prima di essere un velo steso sul vuoto a dargli una forma, l’io è un’imposizione politica e metafisica. Assieme ai maestri taoisti ci invita all’oblio del sé, non alla sua cura: «non c’è altro orizzonte possibile per l’individuo se non quello di essere il divenire tout court – un divenire senza altro contenuto o particolarità che quello del suo movimento impersonale». Dal “tu sei quello” delle Upanishad e il “c’è dell’Uno” di Lacan, De Sutter distilla un “c’è un può-essere chiunque”. Quel che chiamiamo “io” sono di fatto i limiti dell’io; politici, storici, conoscitivi e finanche biologici. Una scatola si definisce da ciò che esclude, oltre che da ciò che contiene – ma in sé non è che pura separazione. È per questo che chiunque ambisca alla libertà, come i mistici indiani, i saggi cinesi, Franny e il pellegrino russo, cerca un’uscita da queste mura trasparenti.
De Sutter si concentra soprattutto sugli aspetti sociali della nostra individualità, ma il discorso si può ampliare ai nostri confini biologici, o persino logici. La nostra finitezza è compressa da forze così potenti da rendersi invisibili. Le pressioni sociali sono sufficientemente efficaci da lasciare solo uno stretto margine di rivolta, ma non reggono il confronto con forze più antiche come l’omeostasi, che il neuroscienziato Antonio Damasio definisce «il processo di mantenimento dei parametri fisiologici di un organismo vivente […] nell’intervallo che meglio promuove la funzione ottimale e la sopravvivenza». Insomma, la volontà di mantenersi in vita. Ogni ente finito ha margini invalicabili, che decretano appunto il suo non essere infinito – l’omeostasi è una forza antica, ma appare inerme in confronto all’equivalente ontologico della più celebre delle leggi della logica, il principio di non contraddizione. Se sono qualcosa, non sono qualcos’altro – nell’alterità trovo i miei limiti, per vasti che siano. È dopo l’impatto con queste mura invisibili che ci si riconosce all’interno della sterminata prigione da cui De Sutter, come Franny, ci chiede di evadere.
Viene voglia di metterli assieme, la ragazza e il filosofo belga, tanto che mi concederò il vezzo di riscrivere la citazione con cui ho iniziato, inserendo una possibile risposta di De Sutter:
Tutto quello che so è che sto diventando matta, – disse Franny. – Sono stufa di tutti questi ego, ego, ego. Del mio e di quello di tutti gli altri. Sono stufa della gente che vuol arrivare da qualche parte, fare qualcosa di notevole eccetera, essere un tipo interessante. È disgustoso, disgustoso e basta. Me ne infischio di quello che dicono.
Laurent inarcò le sopracciglia e s’appoggiò allo schienale per precisare meglio il suo punto di vista. – È per questo che dobbiamo essere chiunque, in modo intercambiabile e indifferente, fino a fonderci nella massa brulicante delle città senza distinguerci, se non in base a quello che scegliamo e agli incontri che facciamo. Dobbiamo scomparire, svanire, dissolverci nei flussi della vita per vivere le sue svolte, invece di cercare di starci in mezzo, come una roccia allo specchio.
Non so se gli autori apprezzerebbero la mia ibridazione, ma ha poca importanza; uno è morto da tempo e l’altro ci invita a farla finita con se stessi.