Uno studio su paesaggi, parchi a tema e metaverso.
Quando nei primi decenni del XX secolo Walter Benjamin raccoglie i frammenti per quella che successivamente diventerà l’antologia delle citazioni per i Passages di Parigi, il filosofo berlinese seleziona accuratamente alcuni temi architettonici, urbanistici, antropologici e narrativi del XIX secolo che, a suo avviso, rivelano retrospettivamente le tendenze politiche e filosofiche del tempo a venire.
Immaginare le forme culturali del futuro, afferma Benjamin, significa innanzitutto indagare le ombre che questo getta sulle sue apparizioni disarticolate nel passato.
“Le esposizioni universali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo all’altezza della merce. Egli si abbandona alle sue manipolazioni, godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri […] Per il privato cittadino lo spazio vitale entra per la prima volta in contrasto col luogo di lavoro […] Il privato cittadino, che tiene conto della realtà nel comptoir [ufficio] esige dall’intérieur [arredamento domestico] di essere cullato nelle proprie illusioni. Questa necessità è tanto più pressante in quanto egli non pensa affatto a estendere le sue considerazioni affaristiche a riflessioni d’ordine sociale. Nel configurare il suo ambiente privato egli rimuove le une e le altre. Di qui hanno origine le fantasmagorie dell’intérieur. Per il privato cittadino, esso rappresenta l’universo. In esso egli raccoglie il lontano e il passato. Il suo salotto è un palco nel teatro universale” (Walter Benjamin, I “Passages” di Parigi)
Seguendo la pista tracciata da Benjamin, ci apprestiamo a delinare un percorso storico ed estetico che ha come suo approdo il concetto-buzzword di metaverso. Benché la parola circoli già dagli anni ’90, come sinonimo sci-fi di realtà virtuale, è stato un articolato longform di Mattew Ball, ex direttore della strategia degli Amazon Studios, a portare hype e una nuova trattazione del concetto. La definizione di Ball è abbastanza prescrittiva: il metaverso non è un social network, una simulazione pervasiva o una versione aggiornata di Internet: è una piattaforma perennemente attiva nella quale le utenti e gli utenti possono creare eventi, strumenti, architetture e giochi. Immerso nell’economia reale, e scollegato da una singola brandizzazione o da una storia unica, il metaverso si esprime nella sua forma più pura in prodotti come Minecraft, che vivono sostanzialmente dei contribuiti delle e dei creators.
Recentemente, Ball è tornato a discutere di metaverso, in relazione ad un oggetto culturale, come dire, antiquato. Cosa significa, infatti, nel 2020, affermare che i parchi a tema saranno il principale investimento delle tech companies nel futuro? Per Ball si tratta di una questione strategica ed economica: i parchi a tema di Disney fatturano più dei suoi studi di produzione cinematografica, e molto di più di qualsiasi MMORPG. Hanno un solo problema: sono estremamente pesanti. Richiedono continua manutenzione e aggiornamento, e hanno bisogno di terreni molto ampi per essere edificati. Per questo il loro futuro risiede nella smaterializzazione digitale. Questa loro natura materiale, concreta e kitsch ha però il vantaggio di elargire ai suoi utenti più piccoli un’esperienza unica: l’incontro diretto con i personaggi delle loro mitologie preferite. E non importa se agli occhi degli adulti questi universi in miniatura si presentano nella forma di lunghi viaggi, succeduti da altrettanto lunghe code, musica assordante, cibo costosissimo e ciondolanti animatronics: il pellegrinaggio ad un parco giochi costituisce per moltissime persone qualcosa di simile ad una secolarizzazione dell’esperienza religiosa.
“In un mondo prossimo alla dissoluzione e alla smaterializzazione [melting into air] il parco a tema ci dice che possiamo avere la completezza [the whole]. Mentre le nostre relazioni sono caratterizzate dalla disgiunzione, e le nostre esperienze sono frammentarie […] il parco a tema istituisce potenti modi di totalizzazione. In un parco a tema, e forse solo in un parco a tema, si può ancora avere la sensazione di essere connessi. Quando ci si sposta da un’attrazione all'altra, in un ristorante e poi in un negozio di souvenir, e persino in un bagno, si può esperire la totalità […] tutto è collegato a tutto il resto attraverso la meraviglia del tema” (Scott Lukas, Theme Park)
Lo studio dei Passages, evidenzia il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ne Il Mondo dentro il Capitale, è stranamente inattuale. Perché soffermarsi così tanto su un’anticaglia marginale quando c’erano già le prime Esposizioni Universali? Lo stesso Benjamin ricorda che l’origine delle Esposizioni è post-rivoluzionaria, si tratta di principalmente di un mezzo per ‘divertire le classi operaie’. I Passages sono elementi dell’architettura urbana parigina nati nella prima metà del XIX secolo, la loro funzione era quella di ospitare negozi di lusso, caffetterie, panorami, teatri e affiches pubblicitari. Tecnicamente, si tratta di dispositivi ottici: le merci sono esposte come in una Wunderkammer, la copertura in ferro e vetro ricrea un’atmosfera ‘domestica’ e un senso d’intimità, le pubblicità introducono nel linguaggio visivo del consumismo una patina surreale e i panorami permettono di viaggiare per l’universo visuale conosciuto senza mai spostarsi dalla metropoli. Le Grandi Esposizioni non farebbero altro che ampliare a dismisura la scala delle merci, delle meraviglie tecnologiche e dello spazio chiuso.
Macchine per distrarre la classe operaia: i passages, le esposizioni, i theme parks, i cinema, gli shopping mall, e oggi, il metaverso. Già, ma distrarla da cosa? Evidentemente dall’alienazione lavorativa, dal furto del plusvalore, precisa Benjamin citando Marx. Tuttavia, la storia dell’estraneazione e dell’auto-allucinazione non comincia con il capitalismo, ma è radicata nella deep history della nostra specie: di ‘paradisi artificiali’ sono piene le mitologie, ma anche le architetture simboliche di ogni luogo ed epoca. E allora, perché i primi anni del ‘900 sono un momento particolare, la cui storia deve più ai decenni precedenti che non ai millenni lontani? La risposta sta nell’aggetto ‘universale’ che si affianca al sostantivo ‘esposizione’. Queste fiere effimere che esaltano l’industria, il progresso, l’automazione e il sublime tecnologico hanno l’ambizione di unificare il mondo conosciuto all’interno della stessa struttura architettonica. Retrospettivamente, i fenomeni studiati separatamente da Benjamin (i passages, gli affiches, l’arredamento d’interni, i panorami, la fotografia, la radio, etc.) risultano essere frammenti di un intero che unificherà e totalizzerà il senso formale di queste esperienze e di questi media nei decenni a venire.
Allo stesso modo, quando Alessandro Baricco ricostruisce la storia della Rivoluzione Digitale in The Game, si concentra su media ed esperienze sconnesse (i flipper, i primi cabinati, il mouse, i lettori CD, etc.) per mostrare che il tratto fondamentale dell’evoluzione tecnologica sia l’unificazione e la rimediazione di artefatti disgiunti in un'unica meta-macchina:
“L’orrendo mobiletto di Space Invaders […] aveva dentro l’infinito […] invece che generare molti mondi belli e diversi, investi il tuo tempo a inventare un unico ambiente in cui si possono versare tutti i mondi che ci sono […] non perdere tempo a mettere appunto cose che non possono avere un grande sviluppo; piuttosto cerca cose il cui sviluppo è infinto perché sono state pensate per contenere tutto” (Alessandro Baricco, The Game)
L’emergenza del metaverso è un fenomeno leggibile attraverso le tracce storiche dei frammenti di architettura simbolica che l’hanno preceduto. Confinando la nostra indagine ad un periodo storico che va dalla metà dell’ ‘800 agli anni ’50 del ‘900 troviamo alcune forme, in particolare, che preannunciano l’unificazione e la totalizzazione del metaverso: l’estetica pittoresca dei landscape gardens, i pleasure gardens, i già citati parchi a tema e gli arcade games.
È interessante osservare che nel titolo dei due action rpg forse più famosi della penultima generazione di videogiochi (Zelda: Breath of the Wild, The Witcher: Wild Hunt) compaia la parola ‘wild’, selvaggio. Se si esamina la cultura visuale e l’ambientazione di questi mondi virtuali, sarà facile capire il perché (Murray, Shinkle). Quello che giochi come Zelda e The Witcher condividono con altri open worlds simili (Red Dead Redemption, Metal Gear Solid: The Phantom Pain) sono l’estensione sterminata del terreno di gioco, la non-linearità delle missioni e l’uso della prospettiva in terza persona.
Ma come può un ambiente simulato esprimere le sensazioni di un’esperienza ‘selvaggia’? Da un punto di vista evoluzionistico ed ecologico (Shepard) il passato venatorio della nostra specie ‘non è mai passato’: la percezione, l’estetica, il simbolismo e le emozioni profonde di homo sapiens sapiens sono state modulate da un’ambiente naturale intricato, da sessioni intensive di caccia e dalla presenza costante di predatori. Anche l’esperienza della domesticazione di piante ed animali ha lasciato delle tracce: l’idea occidentale di Paradiso corrisponde ad uno spazio sicuro chiuso e florido: un microcosmo separato dove l’uomo ha pieno controllo della generazione e della riproduzione naturale. La prospettiva del cacciatore e quella del giardiniere, per quanto incerta sia la loro reale origine evoluzionistica, restano comunque delle forme simboliche storiche – codificano, in altre parole, una certa idea di paesaggio. La game critic Soraya Murray, introducendo un numero monografico dell’Art Journal dedicato allo studio delle ambientazione nei videogiochi, parla di predatory gaze come correlato della visione pittoresca del paesaggio. Nelle parole del teorico dei visual studies W.J.T Mitchell:
“Non importa che la scena sia pittoresca in senso stretto – che sia sublime, pericolosa, etc., il frame è sempre presente come garanzia che si tratta solo di un'immagine, pittoresca, e l'osservatore è al sicuro in un altro luogo al di fuori dell'inquadratura, dietro il binocolo, la macchina fotografica, o il bulbo oculare, nel rifugio buio del suo cranio. Lo spettatore ideale del paesaggio […] connotato dal campo visivo della violenza (caccia, guerra, sorveglianza) è certamente una figura cruciale nell'estetica del pittoresco” (W.J.T. Mitchell, Imperial Landscape)
L’estetica pittoresca non ha rapporti diretti con le pratiche venatorie se si esclude il fatto che i Landscape Gardens inglesi del ‘700 venivano allestiti in versioni molto più vaste di quelli che nei secoli precedenti erano stati territori nobiliari di caccia. Il pittoresco è un forma visuale ed architettonica che nasce dall’esigenza di trasformare il paesaggio sulla base di un’ideale culturale che varia nel tempo. Possono essere l’arcadia di Poussin e Claude Lorrain (Roger), le forme aspre e inumane dei ghiacciai alpini (De Rossi), le vedute iperdettagliate di villaggi di Ruysdael e Bruegel, le rovine e i castelli gotici di Victor Turner, Carl Gustav Carus e Caspar David Friedrich o le ampie vallate del fiume Hudson ritratte dai pittori dell’omonima scuola statunitense (Shepard). Secondo gli autori che difendono l’estetica pittoresca (William Gilpin, Uvedale Price) il compito dell’arte è quello di imitare la natura ed è proprio contro una certa forma di culturalismo che si scaglia Rousseau nel suo elogio del ‘buon selvaggio’. L’impatto di questa costruzione estetica è stato talmente dirompente che oggi, quando pensiamo alla ‘natura’, non possiamo non rievocare quelle stesse strutture visive e percettive, anche se rimediate attraverso altri canali, come la fotografia, il cinema e i videogiochi. L’ambientazione bucolica e gotica di The Witcher 3 ci appare ‘accurata’ perché i modelli alla quale s’ispira sono stati impressi dallo stile pittoresco nel nostro inconscio ottico.
Il punto è che, a differenza di quanto pensavano i teorici del pittoresco, non c’è un’unica natura da imitare o abbellire: c’è invece un caleidoscopio di biomi frammentati, unificati e riorganizzati dallo sguardo artistico. Se si potessero situare i landscape studies in un continuum teso fra due polarità, da un lato avremmo la prospettiva di Alain Roger che sovradetermina il paesaggio come pura forma artificiale, dall’altra si situerebbe Paul Shepard che in Man in the landscape tratteggia i confini di una natura pristina, un’immediata espressione della wilderness solamente riflessa nelle pratiche artistiche. Volendo trovare una mediazione fra l’estremismo di queste due posizioni, potremmo affermare che la storia dell’arte insegna le forme visive e le metamorfosi che hanno portato all’emergere del paesaggio alla fine del XVI secolo: la prospettiva lineare, l’allestimento delle scene teatrali satiriche, la desimbolizzazione della natura, l’estensione delle vedute paesane (prima racchiuse in una piccola finestra laterale) alla totalità del quadro, l’interesse scientifico per la botanica. Tutto questo conduce ad un interesse per le ‘scene naturali’, inquadrate in una sfera o cubo prospettico, tripartite secondo una rigida gradazione cromatica e ornate da rovine di edifici medievali. Eppure, le figure solitarie ritratte di spalle che si stagliano sul ciglio di montagne scoscese o di armoniose campagne evocano in noi un senso più profondo e inconscio di dominio dell’orizzonte visibile. La prospettiva in terza persona (Spadoni, Murray) nasce appunto con le vedute paesaggistiche ma è anche l’elemento caratterizzante di alcuni fra i più noti videogiochi di avventura (Zelda, Tomb Raider) o stealth (Metal Gear Solid, Hitman). Che questi giochi siano connotati da una forte componente esplorativa/predatoria è indubbio, così come lo è il fatto che l’orizzonte che si staglia di fronte alle figure voltate di spalle può essere un’entità o un luogo ostile che suscita stupore solo perché contemplata da una distanza di sicurezza.
Ma c’è un senso più profondo di affinità fra videogiochi ed estetica pittoresca: la volontà di simulare o comporre non tanto delle porzioni specifiche di ‘natura’, ma le regole matematiche, fisiche, geologiche e chimiche che sottendono il suo sviluppo.
«Come [l’architetto] di un giardino pittoresco, il programmatore di [oggetti virtuali naturalistici] non li "crea" ma avvia un processo che segue gli stessi imperativi che generano questi comportamenti e questi oggetti nel mondo reale […] Le simulazioni della natura sono istanziate come espressioni logiche nel mondo del gioco e come complesse incarnazioni nel mondo fisico, oltrepassando continuamente i confini fra i due» (Eugénie Shinkle, Of Particle Systems and Picturesque Ontologies)
La grafica scarna e semplificata dei primi open world, le laconiche descrizioni testuali dei primi adventure (Murray) evidenziano in modo paradigmatico la dialettica fra proiezione immaginativa e ‘realismo’ grafico che ha caratterizzato la storia del medium videoludico sino ad oggi. Nel prima video-installazione della serie Parallel dell’artista tedesco Harun Farocki, sono prese in considerazione le linee evolutive della simulazione digitale dei fenomeni fisici (forma, crescita e movimento dei vegetali, dinamica dei fluidi, delle fiamme e delle nuvole) dalla fine degli anni ’80 ai primi decenni del XXI secolo. Ciò che ci colpisce in queste serie di immagini è che, a fronte di evidenti cesure storiche (il passaggo dal 2D al 3D, le curve di Bézier, gli shaders, gli effetti particellari, l’illuminazione dinamica, etc.) ci siano, a livello di codice, alcune strutture che restano invariate. L’uso di un meccanismo procedurale per la generazione di complessi oggetti, architetture e ambienti a partire da un pacchetto di regole iniziali è già presente in videogiochi come Elite, degli anni ’80.
Il fatto che oggi sia possibile costruire delle ambientazioni visivamente, ecologicamente e fisicamente credibili ed esteticamente piacevoli trasforma gradualmente la funzione del paesaggio videoludico. Giochi come Zelda: Breath of the wild contengono, al loro interno, delle repliche in miniatura di particolari biomi, aree geografiche, formazioni geologiche o architetture reali. Nel recente Death Stranding di Hideo Kojima il paesaggio non solo è forse l’elemento più importante del gameplay, ma rimanda ad una rete iconica di riferimenti, dall’ipotizzato referente fisico (la geomorfologia islandese) a citazioni dall’estetica e dall’ambientazione di Alien Covenant, film girato fra i laghi e le montagne della Nuova Zelanda.
“I videogiochi si ispirano pesantemente a forme precedenti di cultura visuale come la televisione, l'arte e soprattutto il cinema, spesso basandosi su linguaggi visivi preesistenti per dare al giocatore l'idea di usare dei significanti familiari” (Soraya Murray, Horizons Already Here: Video Games and Landscape)
Il passaggio di estetiche, narrazioni, elementi paesaggistici, architettonici e urbanistici da un media all’altro è un caso complesso di rimediazione. Questo avviene anche quando ciò che viene imitato è un riferimento indiretto, un bricolage eteroclito o quando si perdono alcuni elementi nella transizione. Nel momento in cui i paesaggi diventano talmente dettagliati da costituire un vero e proprio ambiente scollegato da dinamiche strumentali, si inseriscono nel gameplay delle forme di accumulazione e contemplazione tipiche delle pratiche di consumo dei luoghi attuate dal turismo. Alla giocatrice e al giocatore viene elargita una macchina fotografica, che serve a catalogare o semplicemente a cristallizzare delle vedute, delle scene particolarmente belle, dei personaggi o degli oggetti. Tecnicamente, la manifestazione del paesaggio è un atto diegetico del gioco, per usare la definizione di Alexander Galloway, ovvero l’animazione del mondo virtuale nel momento in cui l’utente non sta compiendo azioni. I videogiochi sono soggetti a complesse dinamiche di rimediazione: nel caso già citato dell’ultimo Zelda, oltre alle citazioni di ambientazioni geografiche reali, si possono sovrapporre i riferimenti all’esperienza di attraversamento dello spazio urbano (la città di Kyoto), o la copia diretta del parco tematico di Disney World. Che la mappa poco antropizzata di Zelda sia ricalcata sulla struttura architettonica di un parco a tema Disney non dovrebbe stupire: è un caso di rimediazione indiretta – la smaterializzazione di una costruzione fisica in un universo virtuale.
“Ci sono analogie tra pleasure gardens e theme parks contemporanei. Entrambi sono paesaggi commerciali progettati per divertire il pubblico in un mercato competitivo per l'intrattenimento del tempo libero. I theme parks odierni e i pleasure gardens hanno saccheggiato la storia, la cultura popolare e le arti per l'ispirazione tematica. [I pleasure gardens] offrivano fantasia e una fuga dal mondo del lavoro quotidiano. All'apice della loro popolarità, i pleasure gardens erano luoghi affollati e vivaci. Ma, cosa più importante, la critica culturale dei pleasure gardens anticipa la critica dei theme parks contemporanei» (Heath Schenker, Pleasure Gardens, Theme Parks and the Picturesque)
C’è una ricorrente associazione fra parchi a tema e un’atmosfera dissoluta, kitsch, volgare, o, direttamente, pericolosa e catastrofica. Secondo Heath Schenker, professoressa di architettura del paesaggio presso l’UC Devis, questa connotazione negativa risalirebbe al nesso storico che collega i pleasure gardens inglesi e americani di fine Ottocento ai primi parchi a tema novecenteschi. I pleasure gardens, così come le Esposizioni Universali, costituiscono un nuovo tipo di spazio pubblico, un luogo dove le classi sociali si mescolano ed il cui consumo si lega alla nascente organizzazione del tempo libero di stampo capitalista. I pleasure gardens non sono altro che giardini pittoreschi pubblici inseriti nell’ambientazione urbana delle metropoli globali.
La nascita dei primi parchi a tema a Coney Island è stata caratterizzata da un’intensificazione dell’aspetto ludico già presente nei giardini pubblici e negli pleasure gardens. Solamente, come fanno notare Rem Koolhaas e Scott Lukas, gli imprenditori artefici della tecnologia del fantastico dei parchi a tema orientano i loro sforzi alla costruzione di una collezione di esperienze spettacolari al limite della legalità. Inizialmente, i primi parchi tematici di New York sono semplici collezioni di giostre, in seguito le giostre verranno unificate in un contesto tematico – una storia, un universo narrativo coerente. La breve vicenda dei parchi a tema di Coney Island si concluderà con un incendio del Dreamland park, la più recente fra le architetture tematiche, ma le idee che avevano animato questa stagione pionieristica confluiranno nell’organizzazione urbanistica della città di New York.
La "rinascita" dei parchi a tema presenterà una versione infantilizzata e familiare degli stessi concetti-guida: l’allestimento di un mosaico di attrazioni disparate, la presenza di una costruzione narrativa molto forte. A queste caratteristiche si aggiungeranno le peculiarità introdotte da Walt Disney negli anni ’50: l’attenzione maniacale per i dettagli, la simulazione, l’innovazione tecnologica e la velocità dei trasporti, la securizzazione delle attrazioni, e, come vedremo fra poco, l’imagineering.
«Come il cinema, il teatro, il vaudeville e i videogiochi, i theme parks generano un'altra idea di mondo. Permettono di viaggiare concettualmente verso altri luoghi e altri tempi creando orientamenti sensoriali ed emotivi che contrastano con quelli della vita quotidiana. Il potere dell’oltremondo [otherworld], specialmente quello fondato sulla religione, è l’abilità di trascinare a forza un individuo – fisicamente, mentalmente, esteticamente, politicamente, ed esistenzialmente – in un luogo altro e in uno stato d’essere diverso» (Scott Lukas, Theme Parks)
Il parco a tema opera come una macchina del tempo e come un teletrasporto: permette di attraversare istantaneamente una molteplicità di luoghi, edifici ed epoche. Questo può avvenire attraverso una riduzione metaforica, una miniaturizzazione e una stereotipizzazione dei referenti geografici, urbanistici e storici. È un processo particolarmente apprezzato nei parchi a tema cinesi, come Window of the World, ma anche in Europa e Stati Uniti è possibile trovare attrazioni basate sulla riduzione in miniatura di città, edifici iconici e nazioni.
L’esperienza che ha dato avvio a questa mania per la miniaturizzazione è legata alla stagione finale dell’estetica pittoresca: la costruzione dell’immaginario alpino (De Rossi). Le Esposizioni Universali ospitavano, fra le altre cose, delle riproduzioni di villaggi svizzeri, veri e propri simulacri iper-realistici con finti chalets, finte montagne di cartapesta, attrici ed attori vestiti con costumi folklorici e panorami fotografici. Questo processo di trasformazione in simulacro delle Alpi ha inizio precedentemente, nel corso dell’Ottocento, attraverso una progressiva conquista e reinvenzione, prima estetizzante, poi turistica e consumistica, dei paesaggi montani. La riproduzione dei villaggi svizzeri, le cartoline fotografiche e i giochi da tavolo che ritraggono vedute alpine, la costruzione di alberghi e sanatori, di percorsi sicuri, di ferrovie, funivie e impianti sciistici contribuiscono a creare una costellazione immaginaria virale, che farà perdere le tracce dell’iniziale orofobia.
Il delitto perfetto che ha ucciso la realtà sostituendola con una serie infinita di simulacri, per dirla con Baudrillard, è una dinamica innescata da questi rudimentali esperimenti tardo-ottocenteschi: i passages, i panorami, i pleasure gardens e la riorganizzazione del territorio alpino. La potenza metaforica ed evocativa dell’immaginario alpino è talmente diffusa che negli anni Settanta e Ottanta s’impossesserà della cultura dei manga e degli anime in produzioni come Heidi, L’uomo tigre, o Porco Rosso (Tenaglia).
Un frammento importante del metaverso è sepolto negli archivi storici di queste vicende dimenticate. Fra gli anni ’80 e gli anni ’90 i parchi a tema raggiunsero la maturità culturale necessaria ad introdurli in narrazioni letterarie e cinematografiche, come il film Westworld di Michael Crichton o England, England, romanzo di Julian Barnes. Qui i parchi a tema sono di nuovo connotati negativamente: in Westworld gli automi perdono il controllo e diventano cacciatori di uomini, mentre in England, England l’intera Inghilterra si trasferisce nella sua riproduzione consumistica collocata nell’Isola di Wright. Il parco a tema diventa un luogo maledetto dove le pulsioni umane più distruttive (violenza, sopraffazione, ludopatia, dissolutezza) prendono il controllo.
Una ricostruzione genealogica del metaverso non sarebbe completa senza menzionare il gioco d’azzardo e le tecnologie di cattura dell’attenzione. Parte della ‘cattiva fama’ dei pleasure gardens e dei teme parks di Coney Island derivava dalla presenza della working class. Spettacoli pirotecnici e circensi, vendita di alcolici, aperture notturne e prostituzione diffusa connotavano negativamente queste aree agli occhi della critica borghese (Schenker). Quando all’inizio del ‘900 l’impresario George Tilyou diffonde il roller coaster nel primo amusment park di Coney Island ha perfettamente chiaro che questa tecnologia dell’intrattenimento inerisce alle pulsioni inconsce più profonde. L’alternarsi di sentimenti di paura ed eccitazione unita alla vicinanza forzata con sconosciuti sono interpretati come meccanismi per catturare e mesmerizzare le risorse attenzionali degli utenti e delle utenti degli amusment parks. In assenza di un vero e proprio programma tematico, l’attrattività dei parchi è data dalla natura estrema delle passioni scatenate da queste nuove tecnologie d’intrattenimento.
Si potrebbe ipotizzare che lo spazio eterotopico dei pleasure gardens e dei theme parks costituisca l’inverso delle grandi istituzioni disciplinari (scuole, carceri, ospedali, fabbriche): per mezzo della concatenazione uomo-macchina si creano delle esperienze propriamente diseducative, ugualmente estranianti. Mentre il tempo di lavoro della fabbrica è scandito dalla catena di montaggio e dalla segmentazione dei compiti, dei luoghi e degli orari, il tempo dissipativo delle tecnologie dell’intrattenimento si configura come un’alternanza (o compresenza) di istanti euforici e disforici.
Si tratta di una dinamica che ha il suo apogeo nel gioco d’azzardo, come osserva Walter Benjamin in alcune note inedite scritte fra il 1929 e il 1930. Il giocatore è dilaniato dalla dialettica fra rischio ed estasi. La riuscita o il fallimento di una scommessa rappresentano la perfetta coincidenza fra pensiero e mondo (la grazia di controllare il tempo futuro, trasformandolo in denaro presente) o la loro più oscura separazione (lo stigma della perdita, l’aver mancato un’opportunità).
L’automazione del gioco d’azzardo è un’invenzione americana: nel XVIII e XIX secolo furono emanate in Europa una serie di leggi che ne inibivano la diffusione. Le prime slot machines erano poco più che giocattoli. Poste vicino ai registratori di cassa, di cui avevano anche la forma, permettevano ai clienti di vincere piccoli regali scommettendo sulla comparsa di un numero casuale su un quadrate. È stato il meccanico Charles Fey che verso la fine dell’Ottocento inventò la forma archetipica dell’attuale slot, unificando un meccanismo di somministrazione automatica della vincita alle regole del poker.
La slot è la quintessenza di una macchina per la cattura dell’attenzione: gioca sulla presenza di segnali luminosi e sonori e sulla dialettica fra euforia e disforia provocata dalla casualità delle configurazioni di simboli. Un ulteriore fattore che aumenta l’addictivness delle slot machines è la presenza del meccanismo di attivazione manuale: una leva o un pulsante che innesca l’algoritmo di generazione casuale dei simboli.
A questo punto è possibile trovare un nesso logico fra il meccanismo di cattura dell’attenzione sfruttato dai roller coaster dalle slot machines e, oggi, dal sistema pull-to-refresh dei nostri smartphones. Nelle parole di Tristan Harris, ex impiegato di Google, ora feroce critico delle tech industries californiane:
"Il design più seducente [...] sfrutta la stessa suscettibilità psicologica che rende il gioco d'azzardo così compulsivo: ricompense variabili. Quando sfioriamo quelle app con le icone rosse [di notifica], non sappiamo se scopriremo un'e-mail interessante, una valanga di "mi piace", o niente di niente. È la possibilità di fallimento che lo rende così compulsivo [...] Ogni volta che si [esegue un’operazione di swipe] è come [se si stesse azionando] una slot machine" (Paul Lewis, Our minds can be hijacked)
La componente addictive del metaverso non rientra fra le caratteristiche fondamentali elencate da Mattew Ball, eppure, da un punto di vista genealogico e strutturale, questa sarà una parte essenziale dei futuri parchi a tema virtuali. L’accesso al gioco d’azzardo, nella sua versione materiale, è sempre stato regolato da norme di età, o confinato in locali liminari associati ad un atmosfera losca. Oggi non è più così: non solo l’intera industria delle piattaforme di comunicazione e streaming si basa su logiche che favoriscono la ludopatia, ma il gioco d’azzardo è la caratteristica fondamentale della miriade di casual games e carte collezionabili esplicitamente rivolte ad un pubblico preadolescenziale. In gergo tecnico si chiama whales quella percentuale risicata di utenti responsabile della quasi totalità delle entrate dell’aziende videoludiche che producono giochi free-to-play. Meccanismi che ricalcano la struttura dei giochi d’azzardo, denominati gacha, possono esistere a sé stanti (come nel caso di casual games come Battle Royale) o incapsulati all’interno di videogiochi mainstream (come Fifa e Call of Duty).
“Il rapporto tra lavoro, dipendenza e gioco d'azzardo è particolarmente evidente in Genshin Impact. Il gioco trasuda una logica onirica semi-capitalista espressa dai suoi punteggi in rapida ascesa. Le ricompense appaiono spesso durante l’esplorazione le terre selvagge l’uccisione di nemici. [Il gioco ci avvolge] in un vortice di colori, musica ed endorfine. Pur essendo piacevole, si tratta un [cavallo di Troia] per la componente "gacha": il cuore economico operante su probabilità di vittoria estremamente basse” (Lewis Gordon, A new chinese game that makes you pay for love)
Genshin Impact è un open-word gratuito lanciato questo settembre, un MMORPG basato sull’ambientazione e sullo stile grafico di Zelda: Breath of the Wild. Si tratta di un’operazione di cattura dell’attenzione accuratamente ripartita su più fronti: quello paesaggistico (il richiamo all’immaginario pittoresco e arcadico), quello libidinale (la presenza di personaggi femminili sessualizzati) e le sopracitate meccaniche dei giochi d’azzardo. In Genshin Impact le armi, i potenziamenti e la cosmesi dei personaggi si ottengono mediante un sistema di scommesse simile a quello delle slot machines - ma il desiderio di vincere o essere visibili non sono le uniche pulsioni che il gioco mette in campo. Le fantasie di sopraffazione, già sfruttate dal genere Battle Royale, si uniscono alla ricerca dell’intimità in una dinamica che i creatori di Genshin Impact definiscono cinicamente ‘pay for love’. In altre parole, questo nuovo MMORPG cinese unifica, all’interno dello stesso prodotto, dei generi e dei meccanismi precedentemente separati: i romance simulation, la modalità competitiva battle-royale, il fascino per l’esplorazione degli open world e l’appagamento percettivo di una natura pittoresca. Il lato oscuro del metaverso è una conseguenza del processo di unificazione e rimediazione di architetture, estetiche e pratiche che erano rigidamente separate nei secoli precedenti. Le critiche borghesi alla débauche dei pleasure gardens e degli amusment parks, le visioni catastrofiche di Westworld ed England, England ci ricordano che una componente ineliminabile delle simulazioni è l’espressione di pulsioni ingovernabili.
Il problema non sono le passioni, ma la loro canalizzazione in meccanismi di selezione e intensificazione. In Narcocapitalismo il filosofo belga Laurent de Sutter ci fornisce una spiegazione accettabile (ma non del tutto convincente) di questo fenomeno. Quando il capitalismo s’impossessa delle tecnologie di gestione del tempo libero – e Sutter porta l’esempio del primo locale notturno aperto a New York – non è primariamente interessato a reprimere il desiderio eccedente della classe operaia, ma vuole indirizzarlo verso un’occupazione ossessiva, innocua ed economicamente fruttuosa: l’alcolismo. Allo stesso modo, in Westworld stupro ed omicidio sono concessi, purché rivolti contro degli automi. Tuttavia, la questione resta aperta: da dove provengono queste pulsioni? Si tratta di desideri codificati e indotti dalle piattaforme dell’intrattenimento globale, o questi solo il prodotto di dinamiche sociali e psicologiche indipendenti da un determinato modo di produzione?
“L’imagineering è una forma di narrazione materiale che fonde gli interessi di Walt Disney nell'animazione, le ideologie del tempo (la famiglia, la campagna, le piccole città e così via) con l'architettura, la tecnologia (compresi i robot) e l'interior design. [Questo] ha contribuito a trasformare il theme park in una narrazione efficace. Un testo ufficiale della Disney Imagineering afferma che gli edifici non devono essere semplici strutture o facciate, ma interi eventi. Sono come copertine di libri illustrati che introducono le storie che si svolgono al loro interno. Creando un senso del tempo, del luogo e dell'umore, l'architettura imagineered può trasportarvi istantaneamente in territori lontani (Scott Lukas, Theme Parks)
«La distinzione più importante tra theme parks fisici e digitali non è la durata [di gioco], l’infinita [variabilità], o la capacità di eludere la seconda legge della termodinamica. È che i theme parks digitali sono stati progettati per […] permettere a chiunque di essere un “imagineer”. Gli sviluppatori di questi titoli non cercano di fare un "gioco", ma un "motore di gioco" che permetta a tutti di creare e condividere la propria attrazione» (Matthew Ball, Digital Theme Park Platforms: The Most Important Media Businesses of the Future)
Rispondere a queste domande nella cornice del metaverso è ancora più complicato. Per Ball la distinzione principale fra il metaverso e le forme di simulazione che l’hanno preceduto risiede nello spostamento d’interesse dell’industria dell’intrattenimento dall’offerta di un contenuto immaginario precompilato – una storia, un frame narrativo e ambientale - alla concessione di un insieme di tools per creare il proprio universo immaginario. Il metaverso è però anche ‘un’economia reale completa’, indistinguibile dal mercato globale e generata da utenti reali. Se l’invenzione dell’ingegneria dell’immaginazione di Walt Disney aveva un approccio tipicamente top-down come la pubblicità e i mass media novecenteschi, l’ambiente del metaverso sembra apparentemente votato alla promozione della creatività individuale.
L’ambiguità di fondo che permeava i passages, i landscape gardens e i parchi a tema permane anche nel metaverso. È un’ambiguità che deriva dalla pretesa di separare lavoro e tempo libero, lecito ed illecito, reale e virtuale, consumismo e critica dell’ideologia.
Il confine fra realtà e simulazione è stato oltrepassato ben prima del concetto postmoderno d’iperrealtà. Abbiamo visto come l’architettura persuasiva dei theme parks di Coney Island abbia influenzato prima la struttura urbanistica di New York e poi l’ideologia simbolista di Robert Venturi. La stessa cosa avviene con il concetto di imagineering: dopo aver proposto i primi parchi a tema, negli anni ’60 Walt Disney si lancia in un progetto futuristico ed utopico – l’Experimental Prototype Community of Tomorrow – una vera e propria città modellata sui principi regolativi delle sue architetture d’intrattenimento: pulizia, velocità nei trasporti, innovazione tecnologica e gestione del tempo libero. Nonostante gli sforzi finanziari e progettuali la città non verrà mai realizzata, ed al suo posto verrà creato un parco tematico, Tomorrowland.
Il nucleo psicologico dell’attrazione per le simulazione risiede nella realizzazione del desiderio infantile di disporre completamente del mondo circostante. Il gioco d’azzardo promette di risolvere la separazione fra volontà e caso, mentre la perversione di simulazioni come Westworld elimina le limitazioni nell’espressione più violenta delle pulsioni inconsce di possesso e violenza.
I possibili candidati per la realizzazione del metaverso individuati da Ball sono le gradi piattaforme della comunicazione e dell’intrattenimento globale (Epic Games con Fortnite, Facebook con Horizon, Amazon, Disney, Valve, etc.). Nel caso di Horizon, il parco digitale di Facebook, di Fortnite e di Genshin Impact, abbiamo a che fare con un immaginario ludico, infantile, cartoonesco e bucolico. Per quanto questi proto-metaversi possano contenere delle dinamiche addictive, la cornice estetica e narrativa mediante la quale si presentano ad un pubblico mainstream deve necessariamente essere edulcorata, neotenica. Il lato oscuro del metaverso riemerge in un contesto non troppo insolito, che Ball evita di prendere in considerazione: le teorie del complotto.
“QAnon è un tentativo di creare una nuova realtà che può essere agita, vissuta "come se" e manipolata, che non corrisponde alla realtà reale. Perché se possono farlo, allora possono fare tutto quello che vogliono e dare la colpa dei risultati [fallimentari] a qualsiasi nodo della trama fittizia che scelgono [Le conspiracy theories hanno tutte] lo stesso messaggio e lo stessa conclusione. Dubitare della realtà. Creare la confusione della guerra [fog of war] senza la guerra. Creare una realtà collettivamente condivisa che controllano direttamente” (Reed Berkowitz, A Game designer’s analysis of QAnon)
Le strane dinamiche che caratterizzano la proliferazione delle teorie cospirative su internet (accelerate dalla presidenza di Donald Trump e dalla pandemia globale) sono speculari all’idea di un metaverso emergente. La narrazione di QAnon più che una singola storia – la presunta corruzione delle élites democratiche statunitensi implicate in atti rituali di maltrattamento e omicidio infantile – è una meta-narrazione, che assorbe al suo interno antiche cospirazioni antisemite, terrapiattismo, rapimenti alieni, etc. e le unifica giorno per giorno con la proliferazione delle nuove teorie legate all’incertezza sull’origine e l’esito della diffusione del Covid-19.
Sebbene sia probabile che QAnon, più che un insieme selvaggio di narrazioni cospirative, sia in realtà un progetto ben pianificato di propaganda politica, ci sono due elementi specifici che lo avvicinano al metaverso: l’indistinguibilità dalla realtà, e la libertà individuale di sviluppare nuove mitologie. È stato suggerito come le modalità di somministrazione dei messaggi da parte dell’anonimo whistleblower Q siano assimilabili agli alternate reality games o ai giochi di ruolo dal vivo. In altre parole, chi crede in Q deve cercare di risolvere puzzle, collegare notizie, simboli e spiegazioni secondo il suo personale punto di vista. Q fornisce gli strumenti per giocare, ed il mondo reale si trasforma in un playground.
In conclusione, se è vero che il metaverso è un attrattore per nuove forme di ingegneria dell’immaginario e storytelling minimale, sarà necessario indagare criticamente i tools che useremo per modellare le nostre mitologie personali. Interfacce, mitologemi, ed editors che le fabbriche politiche del consenso e le piattaforme d’intrattenimento globale ci noleggeranno come scintillanti e sempre nuovi mattoncini lego.
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