L'esplorazione del nero - Singola | Storie di scenari e orizzonti

L'esplorazione del nero

Che compito può avere oggi una casa editrice universitaria? Fare una breccia nel panorama culturale a partire da opere indispensabili, come quelle di Nick Land e Reza Negarestani.

Intervista a Daniele Rosa
di Andrea Cafarella
Daniele Rosa

è direttore editoriale presso Luiss University Press.

Andrea Cafarella

collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto», «Kobo», «Singola» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria e filosofia. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola Antologia della peste (Ronzani, 2020), curata da Francesco Permunian, con illustrazioni di Roberto Abbiati. Ha curato l’introduzione a Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlon, 2020). Il suo ultimo lavoro è il saggio Il simbolo tace. Il dio fanciullo e l’accordo supremo (DITO publishing, 2021).

C’è stato un libro che mi ha davvero sorpreso, quest’anno. 
Non tanto il libro in sé, quanto l’editore che ne pubblicava la traduzione in lingua italiana. 
E penso che abbia colpito altri come me. 

Parlo di Collasso, la prima raccolta di scritti del filosofo Nick Land arrivata in Italia (qui potete leggere un'intervista rilasciata in esclusiva per il pubblico italiano, per farvene un’idea). Questo libro è stato pubblicato – con introduzione di Robin Mackay e Ray Brassier e con un saggio di Mark Fisher – dalla Luiss University Press, nella collana «Intempo» (che io chiamo e continuerò a chiamare «La nera»). Graficamente ricorda subito i «Saggi pop» di effequ e questa somiglianza mi ha sconvolto ancora di più. 

Cosa ci fa Nick Land, in una collana dalla veste grafica così figa – passatemi il termine ma è quello più preciso – nel catalogo di una casa editrice accademica?

Lì per lì, lo ammetto, ho pensato che fosse l’opera disperata di un professore illuminato – o pazzo – che nel totale isolamento aveva voluto fare questo libro. Perché, diciamocelo, le dinamiche interne degli editori universitari italiani hanno spesso un carattere parecchio autoreferenziale e difficilmente si spingono verso tendenze così estreme e poco legate a un’ortodossia accademica tipica della nostra tradizione universitaria. Non avrei mai potuto immaginare che a Nick Land sarebbero seguiti Eula Bliss, Sadie Plant, Barbara Ehnrenreich e Timothy Morton. Oggi è chiaro che c’è un progetto forte che guida le scelte editoriali della Luiss University Press, in modo appariscente con questa collana, ma anche nel resto del catalogo si nota una direzione quantomeno singolare, che poco ha a che vedere con la modalità di fare editoria che da anni contraddistingue gli editori universitari del nostro paese. Un modello che si ispira alle university press di stampo anglosassone «coniugando la ricerca accademica con la saggistica commerciale di grande divulgazione». (Faccio l’esempio di due libri che ho sotto il naso perché sono di prossima pubblicazione proprio in queste settimane: The Mushroom at the End of the World di Anna Lowenhaupt Tsing è pubblicato dalla Princeton University Press e How Forests Think di Eduardo Kohn che invece è della University of California Press; probabilmente due dei libri più importanti del dibattuto contemporaneo, che usciranno o saranno già usciti quando mi leggerete, rispettivamente per Keller e nottetempo).

Insomma, c’è qualcosa di singolare nelle edizioni della Luiss University Press ma si capisce subito qual è il punto di riferimento. In ogni caso mi sembra un’operazione editoriale preziosa e molto interessante, pertanto ho deciso di fare due chiacchiere con Daniele Rosa, il direttore editoriale.

Andrea Cafarella - In un interessante e approfondito saggio Mario Guerrini e Roberto Ventura provano a fare il punto sui «Problemi dell’editoria universitaria oggi: il ruolo delle university press e il movimento a favore dell’open access». Mi piacerebbe innanzitutto spiegare cos’è una casa editrice universitaria e il contesto nel quale originariamente nasce la Luiss University Press. Cosa vuol dire essere una casa editrice accademica?

Daniele Rosa - È una bella domanda: nel senso che trovo davvero difficile dare una risposta, anche se sul tema mi interrogo implicitamente da anni – da quando mi è capitato di iniziare a fare questo lavoro – e più direttamente da quando una university press australiana, quella di Melbourne, è stata “commissariata” in quanto, a detta della comunità scientifica locale e a seguito di un libro che destò forse attenzioni poco gradite a quell’ateneo, poco rispondente alla mission dell’accademia di riferimento. Tutto ciò, malgrado i risultati economici fossero eccellenti. La qual cosa pone una questione, in fondo la stessa “nascosta” nella tua domanda, che ha molte, diverse, persino contraddittorie implicazioni al tempo stesso: a che serve una university press?

Una casa editrice accademica – ammesso che si riesca a definirla in modo univoco - ha il compito di vendere libri, e perciò deve darsi obiettivi anche commerciali, o questo obiettivo è piuttosto del tutto trascurabile o addirittura esecrabile esistendone uno più “elevato”? A mio giudizio, sì, anche un editore accademico deve vendere libri, nella misura in cui ciò è una condizione esistenziale indispensabile al contesto in cui si è deciso di operare – il mercato editoriale -, ma no, se ciò è inteso come un fine in sé (del tutto lecito, addirittura doveroso forse, nel caso di una qualsiasi altra impresa editoriale.)

Sì, perché il mercato è un contesto sociale, è lì che chi si definisce un lettore cerca e trova la “materia prima” ed è lì che bisogna stare se l’obiettivo è far circolare idee; no, perché questo lo credo sinceramente ma pure riconosco che sia verso solo in teoria e solo in parte, perché una university press ha o dovrebbe avere il compito di veicolare, con lo strumento che le è proprio, la cultura che nasce all’interno degli atenei e che credo sia un irrinunciabile e potente strumento di libertà, emancipazione, crescita (non in senso economico, o non solo), senza che tutto ciò debba essere “validato” in modo implacabile e irrinunciabile da chi si occupa di marketing, promozione, distribuzione – da gente come me, insomma.

D’altro canto, ancora, questo a mio personale giudizio non vuol dire che una university press debba limitarsi a pubblicare ciò che produce la propria comunità accademica: questa, almeno, non è la scelta che ha fatto la nostra università, che certo promuove e favorisce la diffusione e divulgazione dei frutti del lavoro della sua comunità scientifica, ma che anche intende mostrare come il suo discorso faccia parte di un dibattito nazionale e internazionale, ricco di voci e idee diverse, anche contrastanti tra loro, ma tutte legittimate dalla ricerca che c’è dietro.

Il saggio di cui parli, che non mi sembra opportuno commentare in questa sede e che parte da riflessioni simili alle mie per certi aspetti ma giungendo a conclusioni e proposte spesso differenti, mi sembra condividere nella sostanza la constatazione che un mercato non solo accademico (e cioè composto non soltanto da studenti obbligati a comprare i manuali e da centri di ricerca che finanziano direttamente pubblicazioni scarsamente o per nulla distribuite altrimenti, e credo poco altro) è una necessità vitale.

L’open access c’entra solo in parte con questo discorso. Aldilà di quelle che possono essere le politiche nazionali o delle varie università, la mia opinione strettamente personale è che sono d’accordo con l’idea che, ad esempio, pubblicazioni finanziate con soldi pubblici siano disponibili gratuitamente (almeno nel formato elettronico), e singoli progetti può aver senso abbiano diffusione gratuita – nasce così, ad esempio, il nuovo libro di Timothy Morton e Dominic Boyer, Iposoggetti, che pubblicheremo in italiano nei prossimi mesi (so che gradirai l’anteprima!) e la cui versione digitale sarà gratuita.

Detto ciò, sarebbe una ingenuità ritenere che l’accesso libero da solo possa aiutare la diffusione e divulgazione di contenuti complessi – a questo scopo, ritengo molto più utile il lavoro editoriale, che è capace, da un lavoro accademico di spessore ma difficilmente accessibile a un pubblico di non addetti, di arrivare a un libro che, senza banalizzare, riesce a essere fruibile a qualsiasi tipo di lettore. Il tutto ha costi, molto più significativi di quelli di stampa (che pesano relativamente poco su qualsiasi progetto editoriale, e sono davvero ridotti in quei casi – frequenti nell’accademia – in cui, per un libro, la tiratura ammonterebbe a poche centinaia di copie, a volte anche 100 o 200.

Ecco perché, rispondendo indirettamente allo “stupore” di Guerrini e Ventura, realizzare un libro elettronico non ha particolare impatto sulla riduzione dei costi – costa meno al lettore, ma è un tema soprattutto di costi di intermediazione ridotti e non di buon cuore), e ritengo del tutto normale, né giusto né sbagliato, che siano sostenuti attraverso la vendita. Per inciso, inciso che aggiungo forse solo perché ho perso il filo, i libri continuano a essere oggetti che costano relativamente poco anche se paragonati a altri “prodotti di intrattenimento”.

AC - In questo contesto, come si pone la Luiss University Press? 
In che senso sarebbe una university press più che una casa editrice universitaria (volendo usare la differenza linguistica come sinonimo di una distinzione forte tra le due modalità di fare libri)?

DR - Come dici tu, university press traduce soltanto l’espressione italiana, che ha ovviamente lo stesso significato (o la stessa pluralità di significati), ma l’idea di utilizzare la forma inglese – una scelta non soltanto nostra, ma diffusa internazionalmente – è un esplicito richiamo alle grandi case editrici accademiche inglesi e americane, che da tempo utilizzano un modello particolarmente complicato ma anche avvincente – ossia produrre libri che non facciano sconti al rigore che il contesto accademico richiede, ma che al tempo stesso siano venduti sul mercato.

La “università” nel nostro nome è un elemento caratterizzante, che ci connota e dà valore a ciò che facciamo, e non è limitante: quando ho iniziato a fare questo lavoro ho pensato che mi sarebbe piaciuto che la Luiss University Press diventasse la prima o principale casa editrice appunto universitaria italiana che, senza rinunciare a dichiararlo nel nome, non venisse confusa con un’editoria universitaria spesso sinonimo di “manualistica” o, peggio, “libri che non hanno davvero la finalità di essere letti” (equivoco che ho sentito fortemente nella diffidenza che inizialmente ho sentito nei nostri confronti nel circuito della promozione e delle librerie.) Non so se ci siamo arrivati, o a che punto del percorso siamo, ma sono sicuro che stiamo andando lì.

La sede dell'università Luiss Guido Carli, Roma.

La sede dell'università Luiss Guido Carli, Roma.

AC - Credo sia evidente l’impatto che ha avuto la collana «Intempo» straripando effettivamente in un mercato che non è esclusivamente accademico, obiettivo fondativo della Luiss University Press. Che cos’è allora questa collana editoriale e come si è svolto il lavoro che vi ha portato in poco più di un anno a proporre una delle più innovative collane accademiche italiane di filosofia?

DR - Intempo è una collana speciale, non solo in quanto particolarmente apprezzata dal mondo intellettuale normalmente meno allineato con le idee mainstream, ma anche perché – e si tratta, bada bene, di un effetto probabilmente implicito nel progetto stesso quando lo abbiamo messo a punto tempo fa, ma che non avevamo davvero previsto funzionasse così bene – più di tutte le altre mostra il potere di una university press come la immaginiamo noi: non palcoscenico di qualche accademico che non trova sbocchi, non proposta “dall’alto” (dovrei dire: ex cathedra), ma punto di contatto tra l’accademia nel senso alto e nobile, anche in senso tradizionale, del termine e certi territori di confine e di avanguardia.

Il fatto è questo: l’influenza della CCRU, ad esempio, di cui abbiamo pubblicato i fondatori Sadie Plant e Nick Land (in arrivo in autunno il secondo volume dei suoi scritti brevi) e tanti loro seguaci, è nota da tempo e ormai persino quasi trita in certi ambienti, eppure resta sconosciuta alla quasi totalità dei dipartimenti di filosofia, pur essendo quegli scritti in circolazione ormai da trent’anni. Quando abbiamo iniziato a far leggere certi materiali alla nostra comunità accademica, abbiamo raccolto un entusiasmo forse persino superiore alle aspettative, sia da parte di quanti conoscevano già quegli autori (e che, presumo io, avessero qualche difficoltà a inserirne i nomi nei loro paper), sia di quelli che invece non li conoscevano o non li avevano mai studiati approfonditamente.

Penso ad esempio a docenti diventati ormai amici come Sebastiano Maffettone, che nei suoi corsi parla degli accelerazionisti come di Kant e Popper, o Gianfranco Pellegrino (qui in un'intervista per Singola), probabilmente tra i più bravi interpreti al mondo del profondissimo eppure – se letto senza una adeguata contestualizzazione - complicatissimo pensiero di Morton. D’altra parte, chi legge questi libri usufruisce spesso del contributo degli studiosi come i due che ho citato e che hanno arricchito quei lavori di lunghi saggi introduttivi e che aiutano anche i non adepti al culto a fruirne. Perché questo è spesso il problema, uguale e contrario, dell’accademia contrapposta al lavoro intellettuale “non allineato”: nei dipartimenti si studiano le fonti primarie, la letteratura secondaria, si citano e si ricitano gli autori giusti, e un rovescio della medaglia del rigore è che a volte si ha quell’impressione di essere rimasti indietro; altrove, ci sono le idee di rottura, c’è la brillantezza della scrittura, c’è il genio, ci sono persino amore e poesia, ma c’è anche il rischio che tutto ciò resti sterile se rimane confinato ai centri di ricerca diciamo informali, ai blog, a certe riviste, alle chiacchiere prima e dopo un concerto di avanguardia…

Hai presente quando, nella musica di Bruce Springsteen (il classico, ortodosso rock’n’roll americano), ha cominciato a diventare evidente l’influenza dei Suicide? State Trooper è un classico conosciuto da milioni di ascoltatori che è dovuto al 100% al lavoro della band newyorkese, classica a sua volta oggi, ma del tutto all’avanguardia nei primissimi anni Ottanta. Mutatis mutandis e in scala molto inferiore, naturalmente, mi piacerebbe pensare che siamo come il negoziante che forse ha suggerito al Boss di comprare il primo album di Alan Vega e Martin Rev. E pure quello che costringe Vega ad ascoltare Thunder Road.

Non so se siamo riusciti ad aprire una piccolissima breccia, ma quando ho letto Nick Land recensito in toni stupefatti e del tutto positivi sul Sole o sulla Civiltà delle macchine (oppure il contrario: penso ai lavori di serissimi, bravissimi economisti come Saraceno o Gallegati discussi in contesti e su pubblicazioni decisamente poco ortodossi in senso accademico), ho avuto la sensazione che forse sì, qualcosa stiamo riuscendo a fare. Resta una domanda, che ho fatto l’altro giorno in un messaggio che ho mandato a Sadie Plant: che effetto ti fa vedere il tuo lavoro, talmente sfacciato e coraggioso da essere a quel tempo rifiutato dall’accademia, essere ora accolto come un’opera profetica proprio dal mondo universitario? Non mi ha ancora risposto, ma sarai il primo a sapere cosa mi dirà!

AC - Dicevamo: Nick Land, il celebre libro di Sadie Plant, Zero, uno, l’Ecologia oscura di Timothy Morton. C’è sicuramente una direzione politica, sociale e filosofica nella scelta di questi libri. Cosa vogliono dirci e come si legano l’un l’altro questi testi che chiamerei con un’immagine azzardata: «testi grimaldello»?

DR - Tutti questi libri che citi, e altri in arrivo (a luglio pubblicheremo l’attesissimo Cyclonopedia di Negarestani), e – non ce lo scordiamo – gli altri che fanno e faranno parte della stessa collana pur provenendo da tradizioni e contesti molto differenti da quelli CCRU (tra quelli usciti, le visioni sul significato della salute nella nostra società nei libri di due letterate fantastiche, Eula Biss e Barbara Ehrenreich che sarebbero grandi come Woolf se questi fossero i tempi giusti; tra quelli futuri, riprenderemo ad esempio il classico Sexual Personae di Camille Paglia, tra i maggiori lavori di filosofia del Ventesimo secolo, vergognosamente dimenticato e per la prima volta in edizione integrale; il nuovo lavoro di Helga Nowotny sulla divinizzazione dell’IA; la prima trilogia di Bernard Stiegler, assurdamente mai tradotta; e mi mordo la lingua, se no ti svelo tutti i nostri piani dei prossimi due anni!), hanno in comune l’amore – non per i libri in generale, non per il lavoro in sé, tantomeno per me stesso – ma per il senso di apertura e responsabilità che una istituzione importante come una università deve avere nel contesto in cui opera. Pubblichiamo questi libri perché li leggiamo, li amiamo, ne parliamo, sentiamo ci rendono persone migliori e, visto che è il nostro lavoro farlo, cerchiamo di renderli disponibili per tutti. Non so se questa sia politica o filosofia ma per certi versi siamo in missione: captare tutte le idee che ci fanno stare bene, prendendole nelle aule universitarie, nei convegni, sulle riviste ma, in fin dei conti, in qualsiasi contesto ci troviamo professionalmente e personalmente (ma esiste un momento non professionale per un editore?), e metterle a disposizione di quante più persone possibile.

AC - Il catalogo della Luiss University Press comunque è molto vasto e variegato. E nasconde delle perle incredibili vicine a testi sicuramente più accademici e molto meno commerciali. Puoi raccontarci un po’ le altre collane e altri testi importanti che hanno accompagnato il lavoro di questi anni?

DR - Ti ringrazio per la domanda e sì, è così, la nostra proposta è variegata perché riprende in fondo il mondo intellettuale a cui fa riferimento una università particolarmente interessata e curiosa a tutto quello che accade nel mondo e (fatto per noi decisivo) animata da una comunità accademica non connotata ideologicamente (a prescindere naturalmente dalle idee dei singoli) ma sinceramente appassionata a un dibattito, direi, fatto di puro fair play, gioco duro ma leale. È quasi un peccato che resti traccia scritta solo di una minima parte delle discussioni quotidiane con la nostra accademia.

Voglio bene a tutte le nostre collane ed è difficile darti suggerimenti perché, se come è ovvio ho le mie preferenze tra i titoli, su ciascuno ho lavorato e discusso insieme ai miei colleghi e perciò c’è una parte di me in tutti. 
Pensiero libero ospita saggi a grande diffusione, tra i quali i nostri maggiori successi, il notissimo Capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, La conoscenza e i suoi nemici di Tom Nichols (a ottobre arriverà il suo nuovo libro, Il nemico dentro), L’invenzione della natura di Andrea Wulf e, appena uscito, Le nuove leggi della robotica di Frank Pasquale, che sta ricevendo grande attenzione. 

Al suo interno, secondo me, non in tantissimi si sono accorti di Elogio dell’oblio di David Rieff, un saggio meraviglioso, toccante, pubblicato un paio d’anni fa che tenta di dimostrare, in modo convincente devo dire, che la memoria storica sia dannosa; e poi consiglierei Il sentiero per Walden di Michael Sims, una biografia molto particolare di Thoreau che ha il singolare (e dubbio) merito di essere l’unico libro che, nella vita, mi ha fatto letteralmente piangere insieme a Altri libertini. E poi direi Il Naufragio del Mentor di Marta Boneschi, formidabile scrittrice e storica, che qui racconta la vicenda davvero poco nota di come i marmi del Partenone vennero trafugati, perduti in mare e poi recuperati, e come attorno ad essi, nientemeno, si formò l’idea di Europa.
C’è poi Koinè, dedicata al pensiero politico e all’attualità politica, che abbiamo inaugurato con il fondamentale e fin qui inedito in italiano Azione politica di Michael Walzer, piccola ma stratosferica guida all’impegno politico soprattutto nei più giovani (seguiranno negli anni le altre opere perdute di Walzer, a partire da La rivoluzione dei santi, in uscita l’anno prossimo.)

Forward è dedicata al pensiero economico contemporaneo e consiglierei a tutti di leggere Il mercato rende liberi di Mauro Gallegati, tra i più bravi economisti italiani e non solo, che critica il neoliberismo nei suoi presupposti teorici: un libro difficile, ma indispensabile. E consiglio di leggerlo in parallelo a L’impresa eccezionale di Tyler Cowen, che invece mostra perché il “big business” sia una forza positiva della società (giuro, è istruttivo anche per chi non dovesse condividerlo) e, ancora di più, La grande ricchezza di Deirdre McCloskey, che arriverà in ottobre, e che sostiene le ragioni del liberalismo in un modo che non avevo mai letto prima. Sustain è una collana dedicata alla sostenibilità in ogni senso, non solo green (a luglio esce Caldo di Mark Serreze, uno scienziato tra i maggiori esperti di Artico che ha visto con i suoi occhi i ghiacci del Nord sciogliersi; a fine agosto Genere e identità, di due bravissimi autori statunitensi, Laura Erickson-Schroth e Benjamin Davis, tenta di rispondere in modo semplice, chiaro, misurato e soprattutto parlando al più ampio pubblico possibile di tutte le questioni legate a ciò che dice il titolo. Ho enormi aspettative e sono emozionato all’idea di vedere questo testo in libreria.) Bellissima parla del Made In Italy come cultura. Ci sono poi I capitelli, la collana più antica e nata in origine per ospitare contenuti accademici, e che invece ci ha regalato libri stupendi e persino dei bestseller, come i libri dei miei amici Francesco Saraceno (La scienza inutile, dedicato al fatto che nessuno studia l’economia, economisti per primi, e La riconquista, che mostra come sia stato il neoliberismo a svuotare l’euro di significato – il nostro Varoufakis!) e Luigi Laura, straordinario computer scientist della nostra università che nel vendutissimo Breve e universale storia degli algoritmi ha mostrato come, con i computer, gli algoritmi abbiano in realtà a che fare come il nuoto ce l’ha con i sottomarini. 

Infine, un progetto neonato e al quale abbiamo lavorato per anni, Kairòs, e con il quale recupereremo testi incredibilmente perduti, dimenticati o sfuggiti del pensiero umanistico (è appena uscito il primo titolo, La scrittura. Ideologia e rappresentazione di Armando Petrucci – qui un estratto -, uno dei saggi più belli mai scritti nella nostra lingua e che racconta come scrivere, in particolare scrivere su una superficie solida come un muro affinché qualcun altro legga, sia un atto profondamente politico), e che avrà solo due uscite l’anno, ma che saranno davvero irrinunciabili.

AC - Quale potrebbe essere il futuro della Luiss University Press e quali libri ci potremmo aspettare? E inoltre: pensi che altre case editrici accademiche potrebbero seguire il vostro esempio?

DR - Nick Land ha spiegato chiaramente (“chiaramente” quanto può farlo Nick Land) che giorno dopo giorno stiamo contribuendo a realizzare un futuro che esiste già ma che, purtroppo, al momento non ci è noto. Io spero che un futuro in cui la nostra casa editrice sia considerata un modello di quello in cui crediamo molto – ossia che una università e una casa editrice universitaria possano operare come punti di riferimento culturali ancora più importanti per la comunità locale e il proprio Paese – sia già lì da qualche parte, e che stia agendo retroattivamente sulle scelte che stiamo facendo oggi e che, a volte, mi riempiono di dubbi (abbiamo ragione o, come il celebre calabrone con le ali troppo piccole, voliamo solo perché non sappiamo che non è possibile?).

Non voglio svelare troppo di quello su cui stiamo lavorando: mi aspetterei comunque, dal punto di vista editoriale, l’esplorazione di qualche territorio ancora un po’ più in là del consueto; stiamo inoltre riflettendo su una questione, ossia se una casa editrice universitaria debba fare soltanto libri: ne sapremo di più in futuro. Se altri seguiranno il nostro esempio? Non saprei: è davvero difficile immaginarsi come “esempio” quando tutto ciò che si è fatto è stato naturale e ha avuto il vantaggio non indifferente del contesto nel quale è nato – mi riferisco alla libertà e alla fiducia che ci sono sempre state accordate e al fatto di vivere ogni giorno all’interno di una comunità intellettualmente ricchissima di intellettuali, studenti, colleghi, ospiti e amici. Ma spero e in fondo anche credo in un futuro in cui le case editrici universitarie siano protagoniste della vita culturale.

Hai letto:  L'esplorazione del nero
Italia - 2021
Pensiero
Daniele Rosa

è direttore editoriale presso Luiss University Press.

Andrea Cafarella

collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto», «Kobo», «Singola» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria e filosofia. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola Antologia della peste (Ronzani, 2020), curata da Francesco Permunian, con illustrazioni di Roberto Abbiati. Ha curato l’introduzione a Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlon, 2020). Il suo ultimo lavoro è il saggio Il simbolo tace. Il dio fanciullo e l’accordo supremo (DITO publishing, 2021).

Pubblicato:
12-07-2021
Ultima modifica:
12-07-2021
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