Un sentimento scivoloso. La ragione e il populismo. Una disamina attraverso le parole di Benjamin, Dante e Baudelaire sul partecipare al dolore altrui (o al coro dei vincitori).
Accanto a “resilienza” e “inclusività”, una delle parole chiave della nuova koinè progressista è “empatia”.
D’acchitto, sembrerebbe una scelta logica: la capacità di “mettersi nei panni dell’altro” appare una prerogativa essenziale per chi aderisce a una visione sociale e politica fondata sulla solidarietà verso il prossimo e la tensione costante verso il miglioramento della condizione umana.
Eppure, un concetto distorto di empatia sembra essere alla base della più retriva e violenta propaganda populista.
E del suo, apparentemente, inarrestabile successo.
Walter Benjamin, con la sua straordinaria lucidità, aveva già intuito il rischio implicito di uno sguardo “empatico” sulla realtà.
Nelle sue fondamentali tesi Sul concetto di storia del 1940, scritte poco prima il suicidio, che rappresentano una sintesi matura quanto drammatica della decennale riflessione benjaminiana sul tema, il pensatore berlinese accosta l’”empatia” (o “immedesimazione” come talvolta viene tradotto il tedesco Einfühlung) a una forma di sterile accidia.
Non a caso, la VII tesi in cui affronta il tema ha in esergo una citazione da un’opera teatrale di Bertolt Brecht, l’autore che negli stessi anni teorizzava la necessità di un distacco critico, ottenuto grazie al celebre artificio dello “straniamento”, tra spettatore e scena rappresentata.
Si tratta di una tesi di non immediata comprensione, secondo lo sguardo contemporaneo, che merita, dunque, di essere letta e approfondita con attenzione.
Come scrive Massimo Palma, uno dei più attenti esegeti contemporanei dell’opera di Benjamin, nel suo saggio La critica dell’empatia in Walter Benjamin. Acedia, merce, dominio:
La tesi è apparentemente semplice. Lo scrittore di storia ferrato nel materialismo non deve immedesimarsi nell’epoca che indaga. Anzi, spiega la seconda parte della tesi, lo storico immedesimantesi col suo oggetto non fa che mettersi al servizio del vincitore di ogni momento. L’empatia (...) è un sentire di vivere assieme al dominatore, un farsi dettare la condotta da chi ha già dominato, già innovato, già cambiato le regole. Ma Benjamin ha aggiunto un elemento: quando si immedesima nel dominatore, lo storiografo empatico lo fa perché cade nell’antico vizio capitale dell’accidia. Vale a dire, sprofonda nella tristezza senza moto, nell’amore impossibile per le cose che si smarrisce nell’elenco tragico di dati oggettuali inafferrabili che marciscono durante l’elenco.
Pur per vie diverse, lo psicologo canadese Paul Bloom ha espresso un punto di vista non dissimile nel suo saggio più noto, dal titolo autoesplicativo: Contro l’empatia. Una difesa della razionalità.
Anche in questo caso, la tesi è chiara: capovolgendo l’opinione comune che vede l’empatia come condicio sine qua non di una società aperta e accogliente (addirittura il sociologo Jeremy Rifkin la vede come “collante sociale” della civiltà contemporanea), Bloom la accosta a “un riflettore del palcoscenico che riesce a illuminare con forza solo una piccola porzione della scena, facendoci credere che ciò che vediamo sia tutto ciò che c’è lasciando il resto in ombra”.
Ora, intendiamoci, è chiaro che nel senso comune, corrente, convenzionale l’”empatia” è una cosa bellissima: nell’etimo è la capacità di “mettersi nella sofferenza” dell’altro. Come ricordano Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri:
Nell’accezione tardo-ellenistica, “empatia” indica un movimento dell’anima dal suo esterno al suo interno, oppure: la sua particella “en”, nella prima accezione, sottolinea la dimensione patetica che caratterizza la sensibilità psichica; in quanto espressione di una potenza ‘estranea’ che entrando in contatto con l’anima la altera.
Quante volte, davanti alla ondata di liquame rappresentata da commenti razzisti e sessisti sui social (del genere di chi esulta per la morte di un bimbo immigrato o di chi attribuisce alla vittima la colpa dello stupro subito), abbiamo pensato: “il dramma è la mancanza di empatia”?
Proprio per questo, è interessante accogliere, nella sua straniante complessità, la peculiare accezione che Benjamin conferisce al termine.
Anche perché, chiaramente, il pensatore tedesco non sta invitando a una sorta di cinica indifferenza nei confronti del prossimo, ma a uno sguardo distaccato dagli umori cangianti della contemporaneità, la cui distanza rende possibile un’analisi lucida e rigorosa.
Entrare in risonanza, invece, col sentimento dominante della propria epoca impedirebbe, secondo Benjamin, di situarsi fuori “dal coro” e svolgere, dunque, in maniera utile e corretta il proprio compito di storico.
In questo senso, al contrario del suo significato immediato, l’empatia rappresenterebbe un ostacolo a una riflessione lucida in grado di trovare soluzioni efficienti, ad esempio, alle ingiustizie sociali.
Anzi, di fatto, potrebbe essere considerata il carburante incendiario per alimentare la peggiore propaganda xenofoba e razzista, per tornare a Bloom: “L’empatia è faziosa, di parte. Ci spinge verso il campanilismo e il razzismo. E miope, motivando azioni che potrebbero rendere le cose migliori nel breve periodo ma portare a risultati pratici negativi in futuro. E incapace di fare i calcoli, favorendo l’uno rispetto a molti. Può generare violenza perché l’empatia per quelli vicini a noi è una forza potente che può motivare guerre e atrocità verso gli altri”.
Del resto, già Dante Alighieri nel VII dell’Inferno, con la consueta profondità psicologica, mise gli accidiosi nello stesso cerchio degli iracondi.
Buffo è notare come, proprio distorcendo il significato di questo passaggio citato, in Italia il libro sia stato utilizzato dai più sfrontati ierofanti del populismo destrorso come manuale contro il “buonismo”, come giustificazione psicologica dell’ondata crescente di razzismo da essi alimentata e cavalcata.
Questa manipolazione, prevedibile quanto efficace, ci induce ad allargare la riflessione: la pervasività capillare e trionfante della macchina propagandistica di estrema destra che ha dominato i social network negli ultimi anni ha fatto leva precisamente su un distorto concetto di empatia.
O meglio, ha giocato sulla falsa empatia sui cui si fonda la struttura stessa dei social network (ovvero sul desiderio indotto che gli “amici” ti dicano che gli “piace” ciò che pubblichi) per mettere in piedi la propaganda, per alcuni versi, più violenta e deformante del Dopoguerra.
Violenta non tanto per i toni, ma per la distorsione parossistica della realtà.
Si obietterà, che qualsiasi propaganda si nutre di demonizzazione dell'avversario, di false notizie, di manipolazione.
Certo, ma in questo caso si assiste a un salto di qualità, non solo di quantità, la cui ragion d’essere è precisamente la struttura stessa dei social network, che consentono la diffusione virale incontrollata, e costante, di false notizie, all’interno di una rete di “amici” che amplifica il senso di “comunità” e di identità.
Tutti quelli che una volta si lamentavano degli immigrati o incolpavano le donne per gli stupri subiti al bancone del bar, nell’indifferenza generale, ora hanno una loro “casa” virtuale, un luogo dove riconoscersi e fortificare la percezione dei propri luoghi comuni come verità negate dal potere cattivo.
Tra tutte le “bolle” create dai social network quella dei complottisti è senza dubbio la più grande e la più prossima a esplodere.
Tale dinamica ha portato a un progressivo scollamento dalla realtà, come, appunto, nel caso dei complottismi più deliranti (e diffusi).
Se, ad esempio, possiamo giudicare la propaganda anticomunista del Dopoguerra come paranoica e ossessiva, dobbiamo riconoscere almeno che si basava sulla realtà ineccepibile di un impero sovietico che rappresentava una possibile minaccia per le democrazie liberali.
La propaganda attuale dell’alt-right, invece, parte da un’iniziale deformazione della realtà (ad esempio, i dati ridicolmente gonfiati sui flussi migratori e i reati degli immigrati), passa per delle esagerazioni iperboliche di casi reali (pensiamo in Italia all’indegna strumentalizzazione dei fatti di Bibbiano) per approdare nel puro delirio fantascientifico (il Pizza Gate, Q-anon e i rettiliani).
Le eminenze grigie di questa macchina industriale di propaganda hanno compreso, con un anticipo spaventoso e trionfale sui loro omologhi “di sinistra”, come sfruttare le potenzialità dei social network: dare in pasto a un elettorato, in larga parte, sprovveduto fino all’analfabetismo digitale, una serie di fake news confezionate ad arte per confermare e fortificare tutti i loro pregiudizi e conferire loro la dignità di “opinioni”.
L’empatia è precisamente il Cavallo di Troia attraverso il quale i social network si impossessano dei nostri dati, dando vita alla più imponente opera di schedatura e profilazione mai realizzata (poiché su base volontaria), roba da far crepare d’invidia i più solerti funzionari della Stasi o del KGB.
Nicola Zamperini, uno dei più attenti osservatori delle dinamiche mostruose e perverse dei social network da lui considerati centri di potere così estesi da chiamarli “macronazioni”, nel suo interessantissimo Manuale di Disobbedienza Digitale affronta il tema:
Le techno-corporation spingono all’esibizione dei sentimenti. Ogni modulazione delle nostre emozioni deve essere registrata, analiticamente carpita e trasformata in dati. E più la registrazione è meticolosa, più quel dato ha valore. Ecco la ragione dell’introduzione delle cosiddette reazioni su Facebook. La presenza del cuore o della faccia triste è emersa dalla necessità – apparente – di fornire agli utenti la possibilità di esprimere empatia, così la spiegò Zuckerberg. La verità è che più siamo precisi in ciò che vogliamo esprimere, più i dati che ci rappresentano sono vendibili, utilizzabili.
(...) La nostra comunità ci ha chiesto per anni di introdurre il pulsante “non mi piace”, ma in effetti lo chiedeva non perché la gente volesse dire agli amici che un post non gli piaceva. Le persone volevano esprimere empatia. Ecco l’empatia, una specie di denominatore-contenitore delle emozioni che Facebook ha deciso di utilizzare per rendere più preciso l’identikit della nostra personalità.
Il demagogo moderno, il politico populista, stravince le elezioni nonostante le sue evidenti menzogne, spesso anche ammettendole, come fece Farage all’indomani della vittoria del primo referendum sulla Brexit, o come fece Matteo Salvini quando fu costretto a dichiarare dal suo stesso Ministero degli Interni che i dati sui flussi migratori erano stati moltiplicati a caso senza alcuna evidenza a supporto.
Queste pubbliche ammissioni non hanno certo indotto gli elettori a non votare una seconda volta a favore della Brexit o a far crollare i consensi della Lega nei sondaggi.
Questo proprio perché questi leader parlano alla “pancia” del Paese, ovvero utilizzando nella maniera più scorretta e ingannevole la capacità di essere “empatici” col proprio elettorato: parlano come loro, mangiano come loro, si vestono come loro, dicono loro ciò che vogliono sentirsi dire, li fanno sentire “capiti”.
Chiaramente, anche davanti a questi scenari si ripropone un perenne conflitto: quello tra “apocalittici e integrati” individuato da Umberto Eco, esemplificato dalla contrapposizione sull’impatto del progresso tecnologico che vide da un lato l’entusiasmo di Marshall McLuhan per il futuro Villaggio Globale e dall’altro le visioni apocalittiche di Jean Baudrillard sull’avvento della “società dei simulacri”.
Se finora abbiamo passato in rassegna alcuni autori pesantemente critici sul ruolo “empatico” dei social network, il già citato Rifkin vede proprio la pervasività del Web nel nostro quotidiano come occasione di maggiore coesione sociale tramite l’empatia diffusa.
Intervistato nel 2010 da Serena Dandini nella trasmissione Parla con me, il sociologo americano farà riferimento alla solidarietà espressa su internet nei confronti di un’allora recente catastrofe naturale:
Adesso che esiste la generazione di internet dobbiamo ampliare, estendere la nostra famiglia all’intera razza umana, allargando l’empatia. Il Web è l’esempio massimo di empatia. Quando il terremoto ha colpito Haiti, dopo un’ora era tutto su Twitter, dopo due ore su Youtube, dopo tre ore tutti empaticamente andavano a salvare i loro “vicini” di Haiti, questo è il potere di internet.
Il decennio successivo ha mostrato, gradualmente, il volto più disumano del web ma, al di là di ciò, credo che la questione debba essere affrontata su un piano diverso dal solito confronto tra chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi lo vede mezzo vuoto. Ovvero, su un piano di consapevolezza interiore.
Consentitemi di concludere, a riguardo, con una considerazione figlia di una mia passione letteraria, ovvero la lettura (ormai trentennale) dell’opera di Charles Baudelaire.
Come molti sanno, alcuni dei più noti contributi di Walter Benjamin alla storia della filosofia nascono proprio dalla sua lettura approfondita dello Spleen de Paris, i vertiginosi poemi in prosa con cui il poeta francese ha per molti versi dischiuso alcune delle porte principali della letteratura moderna.
Non possiamo ora addentrarci nella vasta ricchezza di spunti che i saggi benjaminiani su Baudelaire potrebbero offrire, limitiamoci però a sfogliare le pagine immediatamente successive al celebre poemetto Perdita dell’aureola che ispirerà al filosofo tedesco, tra l’altro, il concetto fondante del celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Dopo poche pagine troveremo un poemetto breve quanto illuminante, intitolato Prendiamo a botte i poveri!.
In questa pagina, con la sua meravigliosa prosa poetica, Baudelaire racconta come, dopo essersi chiuso in casa per quindici giorni a leggere “tutte le elucubrazioni di tutti quegli impresari della felicità pubblica, di coloro che consigliano a tutti i poveri di farsi schiavi, e di coloro che li convincono di essere tutti dei re spodestati”, decide di uscire, assetato dopo tanta lettura.
Si reca a una locanda, sulla cui soglia incontra un mendicante che gli tende il cappello con uno sguardo commovente.
Qui, con somma ironia, Baudelaire descrive il proprio conflitto interiore, ispirato dal proprio daimon, differente da quello di Socrate in quanto non negatore ma “demone da combattimento”.
Ispirato da questa voce interiore, Baudelaire compie una scelta originale: salta sul mendicante e lo gonfia di botte.
Ora, vi prego di non reagire con un riflesso pavloviano d’indignazione: benché Baudelaire fosse un’incarnazione poetica dello sguardo aristocratico del dandy, come condizione sociale era molto più vicino (per note vicissitudini familiari) alla miseria del clochard che all’agio del borghese. Ricordiamo, inoltre, come il poeta fosse presente sulle barricate rivoluzionarie del 1848 parigino.
Ecco, infatti, come prosegue l’inusuale apologo:
Di colpo, - o miracolo! O gioia del filosofo che verifica l’eccellenza della sua teoria! -, io vidi quella vecchia carcassa avvitarsi su di sé, raddrizzarsi con una forza che avrei mai sospettato in una macchina così bizzarramente malandata, e, con uno sguardo di odio che mi parve di buon augurio, il decrepito malandrino si scagliò su di me, mi gonfiò i due occhi, mi ruppe quattro denti, e con lo stesso ramo mi batté come un tappeto. – Con la mia energica medicina gli avevo restituito l’orgoglio e la vita. (...) Allora mi sforzai di fargli capire che consideravo chiusa la discussione, e rialzandomi con la soddisfazione di un sofista del Portico, gli dissi: «Signore, siete mio eguale! fatemi l'onore di dividere con me il mio portafoglio; e ricordatevi, se siete un vero filantropo, che bisogna applicare a tutti i vostri colleghi, quando vi chiederanno l'elemosina, la teoria che ho avuto il dolore di sperimentare sulle vostre spalle». Mi ha giurato di aver capito molto bene la mia teoria, e che avrebbe messo in pratica i miei consigli.
Il poeta francese, in una lettera giovanile alla madre, indicava tra le cause di tutti i suoi errori “un’invincibile pigrizia” e come prima frase della sua ultima opera, incompiuta, Il mio cuore messo a nudo ci offrirà un’intuizione simile a quella di un mistico orientale: “Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’Io. Tutto è là.”.
Dunque, il violento monito di Baudelaire è rivolto in primo luogo a se stesso.
Ed è un monito più che mai valido nella contemporaneità.
Chiaramente, non sto consigliando di percuotere i mendicanti come via al socialismo: credo, però, che ciò che ci ha indicato Charles Baudelaire, un ex utopista disincantato divenuto un moderno sapiente gnostico, è una via di emancipazione interiore.
Se l’empatia è accidia intellettuale, bisogna scuotersela, anche violentemente, di dosso.
E forse, se si vuole veramente aspirare a una società più giusta, bisogna fidarsi più di Brecht e Benjamin che di Zuckenberg.