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Homo Video-ludens

Pop-filosofia del videogioco. Una lettura di "Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation", di Tommaso Ariemma, recentemente pubblicato da Tlon.

Simone Santamato

è autore per la rivista Scenari di Mimesis Edizioni, scrive per l'Einaudi Blog della Fondazione Einaudi occupandosi dell'etichetta Filosofia. Studia Filosofia presso l'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro".

Che filosofia e videogioco siano affini non ci sorprende più: è una linea di pensiero che ho condiviso e, nel mio piccolo, approfondito. Non si tratta di un accostamento che necessita di grosse rielaborazioni per essere assaporato: lo schema videoludico e l'approccio filosofico hanno tanto da dirsi, così tanto che, come vedremo, il videogioco stesso lo si deve alla filosofia.

Il libro di T. Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation (Tlon, Milano 2023), scrive una storia del videogioco che diventa una nuova storia della filosofia: non solo il videogioco è affare filosofico, ma filosofare significa videogiocare. I filosofi stessi sarebbero dei videogiocatori, addirittura.

Farei un torto ad Ariemma se lo considerassi solo un filosofo perché, come lui stesso si definisce, è un pop-filosofo. La pop-filosofia è una maniera della filosofia che prevede alcune caratteristiche, come l'aderenza ai costumi di massa, per trattare i tipici oggetti di indagine della ricerca filosofica. Insomma, la pop-filosofia è quella branca della filosofia che “usa strategicamente i fenomeni della cosiddetta 'cultura di massa', i fenomeni pop […] non solo come oggetto di analisi, ma anche come strumenti per filosofare” (p. 81). Essa, allora, “non è la filosofia veicolata attraverso televisione o social media, né ovviamente la sua banalizzazione” (ibidem). Io stesso, malgrado mi occupi perlopiù di questioni filosofiche tradizionali se vogliamo, mi lascio ben che volentieri coinvolgere da questa veste della filosofia, e cerco di darle qualche apporto.

Penso che Ariemma sia d'accordo con me: il videogioco può dare inizio a una profonda interrogazione filosofica, a seconda di come il soggetto si dispone nei suoi confronti. Lo credo con convinzione: il momento del videogioco punta il dito al soggetto e per questo diventa un'opportunità di crescita invidiabile. Il videogioco è un'esperienza che, ancor prima che artistica, entusiasma il soggetto, lo ridiscute, cosa possibile proprio in quanto “Un gioco, e ancor di più un videogioco, ci prende” (ivi, p. 12). Il videogioco prende, il videogioco ci prende come soggettività che, col joypad in mano, entrano in sintonia con un mondo pregno di regole precise e ostacoli da superare. Secondo questi parametri la vita stessa è un gioco, un paragone che Ariemma condivide:

“Ognuno di noi, oggi, anche chi non crede di farlo […] sta prendendo parte a un videogame. Nel momento in cui siamo felici (o meno) per il numero dei nostri like o dei nostri follower […]; nel momento in cui ci relazioniamo a un'immagine digitale come a qualcosa con cui possiamo interagire, stiamo prendendo parte a un videogame” (p. 15).

Le logiche videoludiche ricordano così tanto quelle dell'esistenza che l'esistenzialismo è una forma di videogioco, a patto che interroghi attivamente il soggetto. Tutto il libro scorta questa visione, quella per cui il videogioco faccia leva su questioni che hanno sempre riguardato l'umanità. È per questo che il videogioco può essere definito eracliteo, sofistico, platonico, aristotelico, spinoziano, kantiano, hegeliano, marxiano, nietzschiano. Il libro di Ariemma presenta tutte queste correnti e i rispettivi autori come modi del videogioco. Ma in che misura è possibile definirli così?

Il videogioco, per come lo vede Ariemma, è soprattutto immersione: cos'altro è se non la costruzione di un mondo in cui ci si immerge? Se stanno così le cose, la filosofia – almeno quella Occidentale – poggia sul medesimo presupposto: “La nascita della filosofia è legata al desiderio di comprendere il mondo attraverso la sua ricostruzione mentale” (p. 23). Insomma, il sistema filosofico funziona come un videogioco: ordina la realtà in schemi specifici, e ne impacchetta la complessità in un'organizzazione coinvolgente. L'operazione di sistemare la realtà nei canoni della filosofia è la stessa che un game designer compie quando deve organizzare il mondo di gioco: Platone è allora il massimo game designer (cfr. pp. 33-38). Il software videoludico non è un semplice programma con comandi e algoritmi, ma è ben di più: è una nuova realtà che vede il soggetto protagonista alla pari di come la quotidianità ha per protagonista ognuno di noi nella sua irripetibilità. Il videogioco lo vivo io con le mie categorie e, grazie all'immersione, l'esperienza videoludica può discuterle potenziandomi come soggettività.

Il lavoro di Ariemma ruota su questo concetto, soffermandosi in particolare sul prefisso “video” della parola “videogioco”, e sulla sua etimologia. Come riporta,

“Il prefisso 'video' è una traccia indelebile, un marchio che i videogame hanno ereditato dalla cultura greca. […] La nostra visione ricostruisce il mondo. Gli permette di essere, di restare. Abbiamo sempre vissuto, e ancora viviamo, non dentro una simulazione, ma grazie a una simulazione della realtà operata costantemente dalla nostra mente in contatto con le altre” (p. 23).

I mondi del videogioco sono filtrati dalla presenza di un hardware, come la console o il PC, ma soprattutto da noi stessi che diventiamo, quindi, un ulteriore hardware per il videogioco. La visione di cui parla Ariemma permette di immergersi nei mondi immaginati, è quella che ne permette la vivida presentazione alla mente. È in questo senso che la filosofia costituisce il punto di nascita concettuale del videogioco: se “La visione è questa tempesta di mondi”, allora “Sofisti come Protagora e Gorgia utilizzavano quanto di più avanzato ci fosse all'epoca (la parola, la scrittura) per generare visioni” (pp. 24; 26). Ciò che i sofisti – ma anche gli altri autori della filosofia – fanno è generare visioni, e dunque mondi, che nella loro coerenza ordinino la complessità della nostra realtà. Come “I sofisti utilizzavano la parola per mostrare davanti ai loro uditori una realtà ulteriore”, così “I videogame sono la tecnica più potente di mostrare delle immagini, al punto tale da farci interagire con esse” (pp. 26; 27).

Questo spunto lo trovo molto interessante perché dà vita a ciò che chiamerei trascendentalismo videoludico. Per i non addetti, il trascendentalismo è un filosofema kantiano che indica la nostra costituzione umana e come essa ci predisponga al mondo: siamo fatti di cinque sensi e di intelletto, e con questi attrezzi lavoriamo la realtà. In questo modo si deve dire che se fossimo costruiti diversamente, con tre sensi anziché cinque per esempio, il mondo ci apparirebbe in altro modo. È su queste cose che si basa la famosa distinzione fenomeno/noumeno: c'è uno scarto non trascurabile tra quello che appare e ciò che è. Il videogioco, in tutto questo, è quasi un medio: in quanto mondo realizzato ad hoc, scardina il limite della nostra condizione e ci permette “un'esperienza più intensa con noi stessi”, ma soprattutto “Il tuo corpo, il tuo genere, le tue condizioni fisiche non sono più così importanti. Puoi vivere qualsiasi avventura, morire e tornare a vivere continuamente. […] Puoi sapere chi potresti essere, e non solo questo” (pp. 14; 12).

La potenza del videogioco sta tutta nel creare mondi che superano quanto proveremmo per come siamo fatti, grazie all'immersione e l'interazione diretta. Diversamente da un film o un libro, infatti, il videogioco permette di interagire “apticamente” con l'ambiente, tanto da identificarsi con il personaggio controllato. Si possono vivere le sue sensazioni, si possono ascoltare i suoi pensieri, e questo può potenziarci oltremodo come soggettività al di là del momento ludico.

In filosofia non è una novità: Platone sapeva che architettare mondi coinvolgenti fosse la chiave di volta a una crescita soggettiva, i suoi dialoghi ne sono l'evidenza. La messinscena platonica prevede quadretti narrativi che, malgrado sorpassati dalla manualistica, per i Greci costituivano un bel fattore di interesse. La nostra abitudine è di snocciolare Platone nel platonismo, una pratica che perlopiù mira a presentarne le dottrine in modo immediato. In verità, prendendo in mano un qualsiasi dialogo platonico ci si ritrova un testo zeppo di mitologia e contestualizzazioni narrative all'apparenza inutili. Queste pratiche erano usate da Platone proprio perché fattori di immersione: un Greco che riconosceva un mito veniva accalappiato dal dialogo allo stesso modo di come noi veniamo presi da un libro se cita la nostra serie preferita. E dunque

“Quelli di Platone sono livelli della mente: video-livelli. I dialoghi platonici sono pensati come giochi: provocazioni per la mente di chi legge o ascolta, vere e proprie sfide per le nostre convinzioni. Avventure per il pensiero, spesso con dei riferimenti espliciti ai giochi del tempo. E con il migliore character design di tutti i tempi. Platone dà vita mirabilmente al personaggio di Socrate, dotandolo di tratti così singolari e riconoscibili, da renderlo il personaggio meglio caratterizzato della letteratura occidentale” (p. 36).

Il videogioco è, per ciò che abbiamo detto, il compimento dell'immersione platonica ma, ancora meglio, l'evoluzione della sistematizzazione filosofica. L'elaborazione di schemi teoretici riflette la costruzione schematica di mondi videoludici, le cui logiche potenziano la soggettività allo stesso modo di come il sistema inspessisce lo stare al mondo. Per questo, il videogioco deve essere trattato anche come un dispositivo etico. Le scelte simulate dal videogioco, grazie all'immersione, acquistano una serietà che porta il soggetto a domandarsi sull'eticità delle sue azioni. Interrogando la soggettività, il gioco mette in discussione la natura delle scelte morali, soprattutto se le regole prevedono logiche di ruolo: dovendo pilotare la moralità del nostro personaggio con scelte e comportamenti, veniamo posti davanti a ostacoli etici. È comprensibile che questi giochi offrano un solido spunto di riflessione, dato dal rovello etico di scegliere una cosa piuttosto che un'altra.

Ci sono molti videogiochi che offrono queste logiche di ruolo ma, personalmente, uno dei più interessanti credo sia Fable III (2010). Al di là dei diversi giudizi mossi al titolo, Fable III riesce soprattutto nella componente di ruolo. Il gioco si suddivide in due parti: nella prima siamo chiamati, perché principi, a riprenderci il regno dato che nostro fratello lo amministra dispoticamente; nella seconda, un vero e proprio colpo di scena, saremo noi a condurre il regno capendo così i motivi delle scelte scellerate del consanguineo. L'esperienza la credo sensazionale, per quanto giocata su binarismi: dare o non dare, fare o non fare. Il punto è che Fable III vuole rappresentare nettamente l'amministrazione del potere, insegnando che pure le scelte su binari costituiscono un dedalo di moralità. Figuriamoci, allora, quelle sfaccettate.

Ariemma, dal canto suo, propone sul tema altre serie di videogiochi, specialmente quelle dirette da David Cage. Tra i vari, annoveriamo Heavy Rain (2010) e Detroit: Become Human (2018). Ariemma crede che giochi come questi “portano i gamer ad allargare le emozioni abituali davanti a un videogioco, come rabbia, frustrazione, competizione. Sempre più videogame mettono il gamer davanti a empatia, sensi di colpa, tristezza, suscitando non di rado commozione” (p. 57). È così che

“Il giocatore si trasforma sempre di più in un agente morale, se non in un vero e proprio sperimentatore morale, soprattutto dinanzi a videogame che offrono invece un design etico 'chiuso', costringendo di fatto il videogiocatore a prendere decisioni morali contro la propria volontà o a immedesimarsi in personaggi differenti all'interno del gioco, alcuni dei quali percepiti come avversari nelle prime ore di gaming” (pp. 57-58).

Il videogioco, allora, rappresenta una vera e propria chance di superamento di sé stessi: mettendo in dubbio le proprie abilità e le proprie convinzioni, gli ostacoli (anche etici) del videogame dispongono il soggetto a una situazione di crescita. Possiamo trattare i videogiochi come fossero delle “macchine nietzscheane: strumenti attraverso i quali facciamo un esperimento con noi stessi” (p. 77). In senso stretto, il videogioco è un software nietzschiano: la volontà di potenza di superare una situazione dapprima insormontabile; l'eterno ritorno dal game-over e il perfezionamento della propria abilità; la trasvalutazione dei valori quando impersoniamo un protagonista moralmente complesso; insomma, per Nietzsche “lo Übermensch è essenzialmente un Giocatore: i dispositivi che cambiano il nostro modo di giocare contribuiscono, pertanto, a trasformare il nostro modo di essere” (ibidem).

Vogliamo chiudere con una declamazione già fatta, ma non per questo meno potente se ripetuta: il gioco è una cosa seria. Se i lavori di Bittanti, pure citati da Ariemma (cfr. p. 82), tentavano una contestualizzazione più politica – come anche noi abbiamo riportato –, Filosofia del gaming approccia il media come un'opportunità per il soggetto. La filosofia del videogioco – diciamo pure il videogioco della filosofia – è una chance di (ri)pensare l'umano potenzialmente sconfinata, e che ancora deve essere pienamente esplorata. Filosofare il videogioco significa prendere di petto l'orizzonte di un'umanità diversa e soprattutto al passo coi tempi. Io, personalmente, lo credo con una certa sicurezza: se ai giorni nostri occorre diagnosticare di nuovo il soggetto, i videogiochi, come catalizzatori di emozione e sensazioni di senso, rappresentano l’occasione di far venire al pettine i nodi della soggettività.

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Globale - 2023
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Simone Santamato

è autore per la rivista Scenari di Mimesis Edizioni, scrive per l'Einaudi Blog della Fondazione Einaudi occupandosi dell'etichetta Filosofia. Studia Filosofia presso l'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro".

Pubblicato:
20-04-2023
Ultima modifica:
20-04-2023
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