La crisi della realtà - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Federico Campagna
Federico Campagna

La crisi della realtà

Estratto in anteprima di Magia e tecnica di Federico Campagna, in uscita per Tlon Edizioni.

Federico Campagna
Federico Campagna

è filosofo e scrittore. È uno dei fondatori del collettivo milanese di poesia urbana "Eveline". È co-fondatore della piattaforma multilingue di pensiero radicale "Attraverso l'Europa". Oltre a vari articoli per riviste e media come "The Guardian", "Anarchist Studies Journal", "Corriere della Sera" e "Alfabeta2", è editore dell'opera collettiva What We Are Fighting For (Pluto Press, 2012).

 

Ancora oggi, al calar della sera, il clangore di armature di latta risuona attraverso alcune finestre aperte sui centri storici delle città siciliane. L’esercito saraceno sta assediando Parigi, dove Carlo Magno attende il ritorno degli emissari in cerca d’aiuto per la sua disperata resistenza. Nel frattempo, ubriaco di un filtro d’amore, Rinaldo sta inseguendo Angelica attraverso le foreste e le valli, nonostante lei, sotto l’effetto di un filtro opposto, lo detesti più di chiunque altro. In alto sopra di loro, al di là delle nuvole, Astolfo sta guidando il carro infuocato di Elia sopra la bianca superficie della luna, cercando il senno che Orlando ha perduto a causa di uno sfortunato amore. Le voci salgono in un ruggito, mentre lo scontrarsi di sottilissime spade stabilisce il ritmo di duelli in cui le teste dei guerrieri cadono a grappoli sul palcoscenico. Bambini e adulti fissano in silenzio o scoppiano a ridere, accompagnando con i loro applausi l’apertura e la chiusura del sipario.

Sin dal xix secolo, il teatro dell’Opera dei pupi [1] ha portato a generazioni di siciliani storie provenienti dalla reinterpretazione del ciclo carolingio a opera dei poeti rinascimentali Boiardo e Ariosto. [2] Ogni marionetta è un pezzo unico di maestria artigianale, frutto di una scelta accurata del tessuto, del legno, della latta e della vernice da parte del burattinaio. Man mano che la storia si sviluppa, Angelica, Rinaldo, Orlando e i loro leggendari compagni viaggiano attraverso lande conosciute e sconosciute, forse immaginarie, forse reali come ogni cosa che sia risparmiata dallo scetticismo. I loro viaggi per terra, cielo e mare, tuttavia, avvengono sempre in segreto. Alla fine di ogni atto il burattinaio chiude il sipario, mentre i suoi assistenti corrono a rimuovere la scenografia dipinta della scena precedente per rimpiazzarla con una nuova, raffigurante una nuova terra. Magnifiche città fortificate sorgono e rapidamente affondano di nuovo dietro il velluto rosso del sipario, per poi riapparire come spiagge vuote o cime di montagne, castelli galleggianti o scogli solitari, finché il sipario si chiude un’ultima volta e le luci si spengono per la notte. Nell’Opera dei pupi, certe cose hanno licenza di muoversi in piena vista, mentre altre devono farlo con discrezione. I personaggi possono entrare e lasciare il palco a loro piacimento, ma lo scomparire e il riapparire del mondo dietro di loro, fissato alla cornice di legno che sostiene i teli dipinti, deve restare un avvenimento segreto. 

L’unione di fluidità e immobilismo, di pubblico e segreto che è propria dell’Opera dei pupi ritorna nella nostra esperienza del cambiamento dei valori culturali e dei sistemi di realtà nel corso della storia. Come attori su un palco, specifiche nozioni di bellezza, moralità o giustizia sembrano danzare negli anni al ritmo della storia che si dispiega, ingaggiando duelli o inseguendosi l’una con l’altra, entrando o svanendo improvvisamente dalla scena. Dietro di loro, fissata nella cornice di ciò che chiamiamo “realtà”, l’immagine del mondo resta immobile, offrendo lo sfondo necessario alle loro avventure. Nel succedersi degli atti, tuttavia, non c’è nessun burattinaio del mondo che si occupi di manovrare le tende e risparmiarci la visione della catastrofe. Sotto gli occhi di tutti, lo sfondo viene rimosso e un riflesso dell’oscuro vuoto dietro di esso si aggiunge al trauma di un improvviso cambiamento nella nostra comprensione di ciò che costituisce la realtà e il mondo – finché un nuovo sfondo si presenta, misericordiosamente, permettendo l’inizio di un nuovo atto. Quel breve momento apocalittico ci ha rivelato qualcosa di importante: che anche lo sfondo, come un’immobile marionetta, è soltanto un altro personaggio nella storia. Niente resta immobile come datum, come un incrollabile dato di fatto. La realtà stessa è fragile e fluttuante come qualsiasi valore culturale e il suo ciclico crollare e rinascere è l’archetipo della catastrofe, il kata-strophein, il “dimettersi” [3] di ciò che pensavamo fosse la sostanza del mondo, seguito dalla sua discesa nell’oscurità del caos – mentre attendiamo che il vuoto venga riempito, ancora una volta, dal nuovo ordine cosmico di una nuova realtà.

 Con il cambiare della realtà, anche il mondo cambia drammaticamente. Mentre i valori culturali definiscono il nostro modo di leggere e giudicare specifiche cose del mondo, la “realtà”, intesa in se stessa, si riferisce alla nostra generale comprensione di quale tipo di entità componga o meno il nostro mondo. I cambiamenti che coinvolgono lo status stesso della realtà mutano la composizione fondamentale del mondo, e dunque anche il campo delle possibilità di esistenza, di azione e immaginazione al suo interno. Nel corso del tempo, l’umanità è stata ripetutamente testimone di tali catastrofici cambiamenti di realtà: da un mondo animistico brulicante di vita divina, al distante universo platonico delle pure idee; dall’esilio di dèi e spiriti dalla materia, alla loro sostituzione con un remoto fluire di microrganismi e così via. Nella maggior parte dei casi, nel momento in cui il vecchio sfondo comincia a sgretolarsi, uno nuovo è già pronto dietro di esso per prenderne il posto. Il momento del passaggio tra i due è sempre sconcertante, ma di solito il trauma che lo accompagna ha a che fare più con il difficile adattamento di cui hanno bisogno i personaggi, che con la fugace visione del vuoto dietro di essi. Ma cosa accadrebbe se questo vuoto diventasse uno stato permanente? Se a un certo punto, nella serie di catastrofi che accompagnano il passaggio da una forma di realtà all’altra, la sostituzione dello sfondo si congelasse in piena vista nel suo momento più sconvolgente? Come potrebbero i personaggi continuare a recitare e cosa potrebbe salvarli dalla paralisi, se il mondo (e non soltanto il loro mondo) venisse disintegrato?

L’antropologo Ernesto de Martino ha dedicato ampi studi alle conseguenze di una disintegrazione così profonda della realtà all’interno delle cosiddette società primitive e arcaiche. [4] Per tutte quelle società che non credono nel progresso narrativo della storia, non c’è nessuna garanzia che tale catastrofe sia automaticamente seguita dall’emergere di un nuovo, solido sfondo alla vita nel mondo. Senza un intervento che salvi la realtà e la rigeneri ciclicamente, essa potrebbe degenerare in un caos senza fine. Come ha teorizzato de Martino nel libro del 1948 Il mondo magico, le società arcaiche impiegano la magia come strumento sia per difendersi dal rischio di una catastrofe senza fine, sia per ricostruire la realtà nel suo insieme. La magia può intervenire sulla realtà microcosmica di un singolo individuo che stia rischiando una personale disintegrazione (ciò che oggi si classifica come forma di psicopatologia), così come sull’intera realtà del macrocosmo. 

Necessariamente connesso al rischio magico di perdere l’anima sta l’altro rischio magico di perdere il mondo […]. Quando un certo orizzonte sensibile entra in crisi, il rischio è infatti costituito dal franamento di ogni limite: tutto può diventare tutto, che è quanto dire: il nulla avanza. Ma la magia […] interviene al tempo stesso ad arrestare il caos insorgente, a riscattarlo in un ordine. La magia si fa in tal guisa, considerata sotto questo aspetto, restauratrice di orizzonti in crisi. E con la demiurgia che le è propria, essa recupera per l’uomo il mondo che si sta perdendo. [5]

Come osserva de Martino, la disintegrazione della realtà ha a che fare con la dissoluzione dei suoi limiti, vale a dire dei legami interni che costituiscono, non una specifica realtà, ma la realtà in quanto tale. Le diverse possibili disposizioni di tali limiti permettono la formazione di diversi tipi di realtà, ma una loro dissoluzione completa condurrebbe alla disintegrazione della realtà stessa. Più avanti in questo libro [6] discuteremo quali siano questi elementi indissolubili che, insieme, permettono alla realtà di emergere dal caos. Per ora, è sufficiente dire che “realtà” è il nome che assegniamo a uno stato nel quale la dimensione dell’essenza (che cosa qualcosa sia) e la dimensione dell’esistenza (il fatto che essa sia) sono inestricabilmente unite, senza però fondersi l’una nell’altra. [7] Nell’alternarsi di varie forme di essenza ed esistenza e con il cambiare della loro relazione nel tempo, si assiste a un passaggio tra forme di realtà e mondi differenti. Ma quando una delle due sovrasta l’altra, o ne nega la legittimità, o recide i legami che le connettono, oppure, ancora peggio, quando entrambe spariscono, allora anche la realtà stessa scompare. La realtà è un intreccio di essenza ed esistenza, come l’ordito e la trama, e l’evento del suo disfacimento richiede un tessitore (per de Martino, un “mago”) che sia capace di intrecciarle di nuovo insieme, indipendentemente dalle forme specifiche e dal colore che ciascuna di esse può assumere. 

La sensazione di un disfacimento del tessuto della realtà non è estranea alla nostra attuale esperienza del mondo. Sia che la interiorizziamo come psicopatologia, sia che tentiamo di individuarne i sintomi all’interno della cultura contemporanea, una presenza spettrale infesta l’epoca in cui viviamo. Non si tratta più della vecchia forma di nichilismo, “quell’ospite inquietante” che sradica e distrugge determinati valori culturali di bellezza o di moralità. Il suo raggio d’azione non è più il palcoscenico e le sue vittime non sono più solo le marionette che lo attraversano. La nostra è un’epoca di nichilismo metafisico: [8] il nichilismo che incendia lo sfondo dipinto e disfa il tessuto stesso della realtà. Sotto il suo attacco, «tutto può diventare tutto, il che equivale a dire: il nulla avanza». La crescente nullità delle cose e la loro equivalenza emergono come due aspetti di uno stesso fenomeno. [9] L’abolizione della piena e autonoma esistenza delle cose e la loro simultanea trasformazione in numeri seriali equivalenti sono entrambe al cuore del processo contemporaneo di trasformazione del mondo in una nuvola impalpabile di unità finanziarie, dati digitali, catene di informazioni, oggetti di identificazione.

Non sarebbe però sufficiente descrivere gli effetti del nichilismo metafisico come il passaggio da un mondo di cose a un mondo di nomi vuoti. Non è più il caso che “della vecchia rosa nulla rimane se non il nome”, dal momento che i nomi stessi sono divenuti traslucidi nella loro vuotezza e nella loro equivalenza: attraverso di essi brilla solo la forza onnicomprensiva della grammatica. Una volta lasciata libera, la grammatica separa l’essenza dall’esistenza, riducendo la prima a una mera posizione di una serie sintattica e annullando la seconda in quanto inutile e pretestuosa. Che cosa sono oggi le “cose”, se non indicatori della posizione assegnata loro all’interno della sintassi produttiva della tecnologia, dell’economia o delle norme sociali? Come un racconto ridotto a pura grammatica, l’epoca presente elude la domanda sul significato, scartata come un segno di superstizione nostalgica, mentre relega la realtà allo status di concetto obsoleto, che deve essere superato per poter liberare appieno il nostro potenziale produttivo.

La crisi della realtà a cui assistiamo oggi non dovrebbe essere interpretata come un breve, angosciante passaggio fra due differenti epoche o sistemi di realtà. Al contrario, essa è il sintomo di un’epoca che è venuta per restare e che ha fatto del crollo dello sfondo sulla scena il simbolo del proprio regno. Il suo nichilismo metafisico è diretta conseguenza della sua specifica cosmologia, secondo la quale la serialità lineare della produzione – piuttosto che la paradossale complessità del reale – è la condizione necessaria perché il mondo possa “avere luogo”.

Se il particolare statuto della realtà è ciò che definisce una determinata epoca storica, allora possiamo interpretare la disintegrazione della realtà e la paralisi epidemica dell’azione e dell’immaginazione che ne consegue come il sintomo della “forma” del nostro tempo. 

 

Note

[1] Sulla storia e il significato dell’Opera dei pupi, cfr. in particolare A. Pasqualino, L’opera dei pupi, Sellerio, Palermo 2008, compresa la prefazione di A. Buttitta.

[2] M.M. Boiardo, Orlando innamorato, Rizzoli, Milano 2011; L. Ariosto, Orlando furioso, Rizzoli, Milano 2012. 

[3] Cfr. le interessanti considerazioni sulla connotazione del termine kata-strophein, in N. Qader, Narratives of Catastrophe: Boris Diop, ben Jelloun, Khatibi, Fordham University Press, New York 2009, pp. 1-15.

[4] Per un’interessante discussione a proposito della nozione di “rischio antropologico ricorrente”, di “crisi della presenza” di proporzioni apocalittiche – al punto da divenire una vera crisi della realtà – in de Martino (E. de Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 2002, pp. 14-15) cfr. S.F. Berardini, Presenza e negazione: Ernesto de Martino tra filosofia, storia e religione, ets, Pisa 2015, pp. 95-117.

[5] E. de Martino, Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 123. 

[6] Cfr. “Intermezzo. Cos’è la realtà?”, infra, p. 151.

[7] La prima distinzione teorica fra essenza ed esistenza è tradizionalmente attribuita a Ibn Sina (Avicenna). Tuttavia, è stato recentemente affermato che tale distinzione potrebbe forse risalire al lavoro ben più antico del filosofo iracheno del ix secolo Al-Kindi. Cfr. P. Adamson, Before Essence and Existence: Al Kindi’s conception of Being, in «Journal of the History of Philosophy», vol. xl, n. 3, 2002, pp. 297-312. 

[8] Per un dibattito riguardo l’attuale approccio mentale legato a una forma di nichilismo metafisico, cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995 –per quanto l’analisi del problema fatta da Severino differisca dalla mia in diversi punti importanti.

[9] Questi aspetti dell’attuale crisi della realtà sono espressi in maniera poetica da C. Miłosz nella sua poesia Oeconomia divina: «Alle strade su pilastri di cemento, alle città di vetro e ghisa, /agli aeroporti più ampi di Stati tribali / mancò d’improvviso il fondamento e caddero / non in sogno, ma nella realtà, perché da sé stessi recisi / duravano solo come ciò che non dovrebbe durare. / […] Fuggì la materialità […] / L’ovunque era in nessun luogo, e il nessun luogo ovunque. / Le lettere dei libri si inargentavano, vacillavano e svanivano / […] Gli uomini, afflitti da un incomprensibile tormento, / gettavano le vesti sulle piazze perché la loro nudità implorasse / un verdetto. / Ma invano agognavano minaccia, pietà, collera. / Privi di una giustificazione sufficiente / erano il lavoro e il riposo / e il volto […] / e i capelli e i fianchi / e qualunque esistenza» (C. Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano 1983, p. 127). 

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Globale - 2021
Pensiero
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è filosofo e scrittore. È uno dei fondatori del collettivo milanese di poesia urbana "Eveline". È co-fondatore della piattaforma multilingue di pensiero radicale "Attraverso l'Europa". Oltre a vari articoli per riviste e media come "The Guardian", "Anarchist Studies Journal", "Corriere della Sera" e "Alfabeta2", è editore dell'opera collettiva What We Are Fighting For (Pluto Press, 2012).

 

Pubblicato:
22-06-2021
Ultima modifica:
22-06-2021
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