Mamma cucina, papà lavora - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Occupazioni femminili, India, 2010.
Occupazioni femminili, India, 2010. | Copyright: Brandon O'Connor / Flickr

Mamma cucina, papà lavora

La lingua contribuisce alla costruzione degli stereotipi di genere, trasmettendoli con la sua stessa struttura. Un'analisi.

Occupazioni femminili, India, 2010. | Copyright: Brandon O'Connor / Flickr
Lucia Tedesco

è una giornalista che collabora con diverse testate. Scrive soprattutto di società, cultura digitale, filosofia e cinema. Ha fondato il blog a tema cinematografico Lost in Cinema.

Nominare le cose è un atto di imperio, dominante e generativo. È stato Walter Benjamin a insegnarci che l'essenza linguistica dell'uomo risiede nel nominare le cose: la lingua di un essere è il medio in cui si comunica il suo essere spirituale e la conoscenza delle cose è fondata nel nome. Dare il nome alle cose e alle persone è una grande responsabilità poiché dai nomi esse dipendono e sono conseguenza del nome che viene dato loro. Dante, nella Vita Nova, asseriva «Nomina sunt consequentia rerum»: i nomi sono conseguenti alle cose e devono somigliare alle cose. Tullio De Mauro, linguista, accademico e saggista italiano, ha spiegato come le parole, le frasi, la lingua abitualmente parlata hanno radici profonde nella nostra vita psicologica, poiché nella lingua si trasferisce il modo di pensare della società e il modo di pensare nei millenni.

“Il linguaggio evoca mondi, costruisce possibilità, apre spazi mentali, incanala il pensiero, dirige l’attenzione, influenza la percezione della realtà e come le persone vedono sé stesse, afferma Chiara Volpato nel suo saggio Psicosociologia del maschilismo; “Il modo in cui uomini e donne sono rappresentati nel discorso può renderli salienti o invisibili”. È evidente che se la società, per tanto tempo, è stata maschilista è inevitabile come questa tendenza si rifletta poi nella lingua. Lingua e società, come anche lingua e cultura, sono legati l'una all'altra perché quando si parla di lingua si parla di comunità di parlanti, si parla di persone, del loro modo di interagire; le parole sono importanti perché quando si usano e si adoperano per comporre una frase esprimono in quell'atto una visione del mondo, una relazione sociale: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», scriveva Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus Logico Philosophicus.

La lingua viene fatta, costruita dai suoi parlanti e anche gli stereotipi, i pregiudizi e le discriminazioni di genere si evincono soprattutto da come una comunità linguistica è stata educata a sostenerli nel tempo; il lessico stereotipico usato a proposito delle donne è evocato e rafforzato dagli usi linguistici. Ma possono – e sono stati in parte – essere ridotti e demoliti. Molte lingue contribuiscono alla costruzione di numerosi stereotipi di genere, dall'italiano al francese, dallo spagnolo passando per l'inglese. I linguisti utilizzano diversi metodi e tecniche di apprendimento per studiare la distribuzione semantica delle parole nel linguaggio, per delinearne il comportamento semantico e rivelare in che modo la struttura di una lingua conferisce significato alle sue parole. Questa ricerca fornisce una struttura per analizzare gli atteggiamenti psicologici, inclusi gli stereotipi di genere che contribuiscono alla sottorappresentazione delle donne in campi scientifici, tecnici, o per quanto riguarda titoli professionali e ruoli istituzionali.

La riflessione sugli usi sessisti del linguaggio ha spinto molti ricercatori e studiosi ad effettuare studi specifici, partendo dal presupposto che esista un legame tra le strutture grammaticali e di come queste si riflettano e si manifestino nella disparità di genere, negli atteggiamenti sessisti e nel modo in cui i sessi sono rappresentati. Le forme linguistiche portatrici di ideologie e pregiudizi contro la donna sono così profondamente radicate nella nostra struttura del sentire che difficilmente le riconosciamo, afferma Paola Columba nel suo saggio “Il femminismo è superato”: Falso!; la lingua italiana, continua l'autrice, come molte altre, è basata su un principio androcentrico: l’uomo è il parametro, l'elemento normativo intorno al quale ruota e si organizza l’universo linguistico. Esempio paradigmatico: la stessa parola «uomo» ha una doppia valenza, perché può riferirsi sia al maschio della specie sia alla specie stessa, mentre la parola «donna» si riferisce soltanto alla femmina della specie. L'autrice trae le sue considerazioni dal testo fondativo di Alma Sabatini, linguista e attivista femminista, Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato nel 1987 per iniziativa della Commissione delle Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Alma Sabatini afferma che nominare le donne e incoraggiare l'uso di forme femminili, rispetto a quelle tradizionali maschili, può cambiare la percezione nei loro confronti, e che la resistenza all'uso del genere grammaticale femminile poggia oltre che su ragioni di tipo linguistico anche e soprattutto su ragioni di tipo culturale.

Marvels & Monsters: Asian Images in US Comics, 1942-1986, New York, 2013.

Marvels & Monsters: Asian Images in US Comics, 1942-1986, New York, 2013. | Neon Tommy / Flickr

Un nuovo studio, realizzato presso la Carnegie Mellon University, ha esaminato 25 lingue per esplorare gli stereotipi di genere nel linguaggio e l'effetto degli stereotipi che minano gli sforzi per sostenere l'uguaglianza nei percorsi di carriera STEM. Questo studio è stato realizzato da Molly Lewis, scienziata cognitiva e membro di una facoltà speciale presso la Carnegie Mellon University, insieme al suo collega Gary Lupyan, dell'Università del Wisconsin-Madison, che hanno deciso di basarsi sulla ricerca degli stereotipi di genere e sui modi in cui le parole trasmettono significati per esplorare quanto siano comuni e radicati questi pregiudizi in tutto il mondo e in diverse lingue. Hanno scoperto e dimostrato, ad esempio nel mondo anglosassone, che la parola "donna" appare spesso vicino a "casa" e "famiglia", mentre "uomo" è spesso associato a "lavoro" e "denaro". Gli studiosi hanno coinvolto oltre 650.000 soggetti, sottoposti a specifici quesiti di associazione implicita e a test psicologici. Secondo quanto affermato dai ricercatori, “le associazioni linguistiche possono essere anche causalmente correlate al giudizio implicito delle persone su ciò che le donne possono o non possono realizzare. Anche senza fare vere e proprie dichiarazioni sessiste, gli stereotipi sono saldamente incorporati nel linguaggio riferito alle donne”. Lo studio ha anche dimostrato che i bambini iniziano a radicare gli stereotipi di genere nella loro cultura all'età di due anni e che l'età media del paese di riferimento influenza i risultati dello studio. L’Italia si piazza al tredicesimo posto dei venticinque paesi inclusi nel report. Al primo posto delle lingue più ricche di stereotipi c’è il danese, al secondo il tedesco, al terzo il norvegese. Seguono il rumeno, l’inglese, l’ebraico, lo svedese, il mandarino, il persiano, il portoghese, l’hindi e l’italiano, all'ultimo posto c'è il malese che risulta essere la lingua meno sessista.

Abbiamo accennato sopra al fatto che esiste un fil rouge che lega la grammatica italiana con la disparità di genere. Partiamo dal presupposto che la nostra lingua è una lingua gendered, in cui ogni sostantivo è di genere grammaticale maschile o femminile. Il neutro, in italiano, non esiste, esisteva in latino e greco antico ma la nostra lingua lo ha perso. Come precisa Vera Gheno, sociolinguista che ha collaborato con l'Accademia della Crusca, non tutte le parole di genere maschile finiscono in -o, per ragioni etimologiche, abbiamo anche parole maschili che finiscono in -e oppure -a. Per motivi storici, continua la sociolinguista, alcuni nomi di professione erano o sono soprattutto maschili (come esattore), altri soprattutto femminili (come ostetrica). Quando un rappresentante del sesso opposto ha iniziato a praticare quella certa professione, si è eventualmente creata la parola del genere corrispondente per designarlo. Il problema però si pone per le cariche istituzionali o per incarichi di livello, come ministra, assessora, ingegnera, sindaca, avvocata, sostantivi spesso respinti, definiti cacofonici, ma che in verità sono forme previste dalle regole della nostra lingua. La questione principale del disuso linguistico di alcuni termini poggia sulla questione dell'inesistenza del ruolo: fino a tempi recenti non erano in uso determinate parole in quanto non esistevano le persone che indicavano. La presenza sempre più evidente di donne in posizioni verticistiche, di potere e nelle cariche istituzionali deve provocare un cambiamento netto: chiamare e definire le donne con il nome con cui sono designate, con il nome che rispecchia il proprio ruolo professionale e di livello è un atto di grande rilevanza; un atteggiamento contrario provoca l'accettazione della gerarchia sociale che c'è dietro.

La questione dei nomi professionali, o nomina agentis declinati al femminile, è un dibattito che è in corso anche a livello internazionale. Secondo il Global Gender Gap Report 2020, pubblicato dal World Economic Forum, che fornisce un quadro su scala mondiale circa l'ampiezza e la portata della divario di genere, mettendo a confronto 153 paesi, ci vorranno 95 anni per colmare il divario di genere nella rappresentanza politica, con le donne nel 2019 che detengono il 25,2% dei seggi parlamentari e il 21,2% delle cariche ministeriali. Inoltre, secondo il gender gap index, su 153 paesi l'Italia è settantaseiesima, ma l'aspetto più critico è il cosiddetto gender pay gap: l'indice medio a livello mondiale per quanto concerne l'equità di salario a parità di lavoro fra maschi e femmine è del 61,3%. In Italia siamo fermi al 52,9%. (125° posto nella classifica del world economic forum). Uno studio, che ha esaminato 111 lingue, ha scoperto che i paesi in cui si parlano linguaggi dotati di genere grammaticale (grammatical gender languages) come il francese, il tedesco, lo spagnolo e l’italiano, presentano maggiore disparità di status tra uomini e donne dei paesi in cui si parlano linguaggi senza genere (genderless languages) come l’ungherese e il finnico, o di genere naturale (natural gender languages) come il danese o l’inglese. L’impiego del maschile generico aggrava la tendenza a pensare che il prototipo sia maschio, contribuendo così al mantenimento degli stereotipi di genere.

Il linguaggio è qualcosa di organico, cambia in base ai suoi parlanti, è un bene comune ma è anche una spia. Come spiega Maria Pia Ercolini ne Il sessismo linguistico a scuola, contenuto all'interno del saggio Che genere di lingua?, “La grammatica dice chiaramente come formare il femminile: Se certi femminili grammaticalmente corretti “suonano male” o sono avvertiti come meno “prestigiosi” dei corrispondenti maschili, il problema non è nella grammatica, bensì nel pensiero (sessista) di cui il linguaggio è veicolo. Solo da pochi decenni le donne occupano posizioni prestigiose, in precedenza esclusivamente riservate agli uomini. L’ambiguità lessicale nel designarle rivela la difficoltà di accettare come normale un fatto che è ancora percepito come anomalo o eccezionale. Se alcuni agentivi femminili sembrano “ridicoli”, ciò non dipende dai vocaboli, ma dai pregiudizi di cui siamo portatori e che quei vocaboli vanno a intaccare. Sembra il nome a suonare strano, ma in realtà è il significato a destare la diffidenza. In tali casi è bene consultare sempre la grammatica e stare attenti: se una parola corretta “suona male”, è la spia di un pregiudizio sessista latente”. Nella lingua si trasferisce il modo di pensare nei millenni e quei preconcetti hanno effetti sui comportamenti umani, per questo sono legati al problema della parità di genere. Come giustamente considera Cecilia Robustelli, scrittrice, linguista e accademica italiana, un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. Il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo.

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Globale - 2020
Pensiero
Lucia Tedesco

è una giornalista che collabora con diverse testate. Scrive soprattutto di società, cultura digitale, filosofia e cinema. Ha fondato il blog a tema cinematografico Lost in Cinema.

Pubblicato:
19-11-2020
Ultima modifica:
25-11-2020
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