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Appunti per una cartografia del paesaggio italiano nel cinema americano contemporaneo, da "Luca" a "Chiamami col tuo nome".
Un calderone paradossale di teorie aliene e geometrie esoteriche. Un luogo abitato da "scrittori, cosmonauti, fanatici e semidei". Tutto questo è "A Machine to live in" (2020) documentario sperimentale di Yoni Goldstein e Meredith Ziekle.
La definizione del termine documentario, senza dilungarci in termini tecnici, si può riassumere in questo modo: ‘un film che mostra gli avvenimenti senza alterare la realtà dei fatti, dove il documentarista proietta la propria visione soggettiva e si concentra su uno o più aspetti di essa’.
A Machine to live in (2020) è un film che veste gli abiti di un documentario. Volendo creare un momentaneo neologismo, questo film è una gallery-in-motion informativa che espone la realtà sfruttando gli elementi grammaticali del genere documentaristico per rivelare una condizione appena percepibile, esso nasconde dietro a veli di CGI (effetti visivi) il vero volto del soggetto preso in esame. A Machine to live in non parla in chiaro come avrebbe fatto un qualsiasi documentario, ma colloca ogni informazione espressa dalle immagini su una gogna di costante ambiguità. Nel film ciò che percepiamo a livello sensoriale, uditivo e visivo non sembra aderire con l’immagine narrata, ecco perché si delinea una frattura costante tra la verità esposta e la verità percepita durante la visione. A Machine to live in non accompagna lo spettatore verso un’opinione precisa e sembra proprio questo lo scopo dell’esperimento dei due registi Yoni Goldstein e Meredith Zielke. A questo punto, ci possiamo fidare solo delle parole pronunciate dal regista israeliano al festival di Torino per comprendere lo scopo di questo nuovo modo di fare documentaristica:
«In una cultura in rapido cambiamento, anche il significato di fare cinema sta cambiando. La nostra generazione vive un'epoca di fratture, di sconvolgimenti politici e sociali, di profonde complessità e contraddizioni. […] ci siamo impegnati a ridicolizzare la relazione tra i sistemi sociali e le classi, la costruzione dei miti e il nazionalismo, lo stato e i suoi poteri simili a un culto. Questo è l'obiettivo del nostro progetto e la ragione del nostro impegno nel cinema documentario: un modo di collaborare unendo discipline, culture e generi cinematografici». [1]
Il film racconta di Brasilia, la città federale capitale del Brasile dal 1960 dopo Rio de Janeiro. Una metropoli costruita in 41 mesi su un’altura di 1000 metri sotto la supervisione dall’architetto Oscar Niemeyer. Il piano urbanistico progettato da Lucio Costa è stato influenzato dalle visioni della scrittrice Clarice Lispector e dalla teoria architettonica di Le Corbusier. La capitale si estende a forma di croce al centro del continente brasiliano e porta il nome di un asteroide obloide scoperto nel 1890 tra i detriti di Marte e Giove da un astronomo francese. Brasilia è una metropoli futuristica, una conquista utopica che racchiude in sé nuovi modelli di vita.
Questo è ciò che racconta in chiaro con un montaggio documentaristico il film dell’israeliano Yoni Goldstein e l’americana Meredith Zielke. I due registi descrivono una città in costante evoluzione con immagini simmetriche e solari, mostrano gli edifici futuristici e le filosofiche geometrie accompagnate da una voce narrante distorta e ci guidano verso una condizione onirica asfissiante. “Per un momento, immaginiamo insieme un sogno…” recita la prima battuta del film, e si è catapultati in un’esplosione di linee vettoriali computerizzate che disegnano lentamente una panoramica dall’alto di questa capitale. Il sogno sembra l’elemento implicito a cui si fa spesso riferimento in questo documentario: mascherato da un cavallo bianco che passeggia tra le strade, oppure dallo skyline cocente senza alcuna zona d’ombra, o ancora quando si viene trasportati nelle stanze-celle dell’affollato hinterland. “Un sogno assemblato partendo dai modelli di dati presenti nei loro (degli abitanti) diari” dice la voce cavernosa mentre si mostrano dei palazzi allineati come se fossero componenti elettronici di un computer.
Brasilia è stata inaugurata durante il boom automobilistico del 1960. La città contava inizialmente una popolazione di 200 mila abitanti ed era pensata e “disegnata attraverso un parabrezza di un’auto” ma “ha perso la sua identità” si lamenta un motociclista ribelle durante l’intervista. L’uomo dai capelli lunghi, leggermente alterato dall’alcol, spiega che attualmente la popolazione conta 2 milioni di abitanti e molti vivono ammassati nelle periferie del tutto abbandonate dal centro. Questo motociclista è l’unico cittadino a essere intervistato nell’intero documentario. La gente comune mostrata nel film resta lontana dalle telecamere, nelle inquadrature la si vede passeggiare distante, schiva, alcuni corrono per nascondersi, altri ancora si voltano sorridenti e ritornano alla propria routine. Le persone sembrano isolate e trasognanti. Ciò che spesso viene inquadrato è il continuo movimento delle auto, delle moto e dei bus che sfrecciano nelle curve e nelle strade da un lato all’altro dei distretti est e ovest della città. Con questo eterno movimento circolare ci viene detto dalla voce narrante che Brasilia costruisce il suo inno all’utopia con monumenti e edifici; tutto è interpretabile in questo luogo: quartieri, strade e geografie. Brasilia è una continua proiezione mistica da analizzare e spiritualizzare. Lo sguardo dei registi si sofferma su queste caratteristiche e ne coglie un frangente, mentre i nostri occhi si perdono davanti alle simmetrie degli edifici costruiti di proposito per ispirare nei cittadini la propria personale visione. Brasilia invoglia i suoi abitanti a costruire l’utopia, li rende liberi di progettare il futuro.
Chi vive in questa città del futuro? La voce robotica asessuata risponde: “… scrittori, cosmonauti, fanatici e semidei”, eppure, questi non sono presenti nel documentario, anzi sono sostituiti da attori. Non siamo nemmeno sicuri che il motociclista dai capelli lunghi, descritto poc’anzi in questo articolo, non sia anch’egli un attore. In questo film, la linea di confine tra ‘ciò che accettiamo di credere’ e ‘ciò che diamo per scontatamente vero’ viene valicata in più punti durante la visione. Lo sguardo dello spettatore è ingannato dal taglio documentaristico, illuso dal preconcetto stilistico con cui è composto l’impianto narrativo. I registi non stanno mentendo, questa città patrimonio dell’UNESCO esiste sul serio per quanto assurda possa apparire nel film. Goldstein & Zielke mostrano solo la verità, provano ad allargare il pensiero di chi guarda utilizzando il massimo della potenza del cinema.
Nel film c’è una scena in cui la sospensione dell’incredulità è messa a dura prova ed è trattenuta solo dalla metafora espressa. In questa scena, l’architetto Oscar Niemeyer (interpretato da un attore, l’architetto è morto nel 2012) ha un confronto verbale con Clarice Lispector (una ragazza indiana interpreta la scrittrice ucraina); l’uomo, durante la lunga risposta articolata, cambia voce e tratti somatici in maniera impercettibile fino a somigliare al politico brasiliano fascistoide Jair Bolsonaro. La scena in questione è così inquietante e inaspettata da mettere in discussione la veridicità di tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento. Spiazzante. Eppure, questo trucco visivo insinua un campanello d’allarme: siamo sicuri di non far parte del sogno di un altro?
“Una volta entrati in Brasilia non è più possibile lasciare la città, tutto comincia ad avere un senso più profondo e si diventa la sua composizione istantanea. Brasilia è l’interno dell’interno” dice l’architetto, “questo è un luogo infestato per le persone sensibili”. Dalle menti di questi creatori ha preso vita un ‘utopia attuabile’. A Machine to live in racconta questa utopia e ci dice che per secoli le persone hanno depositato in edifici-contenitori modernisti - gestiti dalle istituzioni - i loro ideali, le identità, i sogni e i propri diritti. Come proto-computer sotto stretta sorveglianza, alimentiamo la costruzione di questa metropoli interspaziale per divenire ultra-terrestri. Nelle fertili immaginazioni di scrittori e artisti Brasilia è cresciuta come visione, ‘visione’ intesa anche come estasi biblica, o trance spirituale. Infatti, fa parte di questo calderone architettonico di mitologia urbana anche la visione mistica ricevuta da San Giovanni Bosco nel 1883. Dove il santo annuncia in una profezia la nascita della nuova Babele ‘dai frutti giganteschi’ e descrive nel dettaglio le coordinate di dove sarebbe sorta: “… tra il grado 15 e il 20 vi era un seno assai largo e assai lungo (un altopiano) che partiva da un punto ove si forma un lago. Allora una voce disse ripetutamente: quando si verrà a scavare le miniere nascoste in mezzo a questi monti, apparirà qui la terra promessa fluente latte e miele. Sarà una ricchezza inconcepibile.”
Bianca, piena di specchi e superfici piatte, del tutto priva di ombra, Brasilia è la mistica città dalle religioni future abitata da ultra-terrestri in connessione col cosmo. Questi, esposti di continuo a un campo di stimolazione uniforme e non strutturato, sono afflitti da stati alterati di coscienza e percezioni pseudo-allucinatorie di immagini complesse vivide e oniriche. Il documentario mostra la capitale brasiliana dal più alto indice di sviluppo umano del Brasile [2] invasa da una sincrasi mistica. Contenitore di massoneria e new age, kabbalah e nuovo chaos magick. Brasilia è una Babele in lingua Esperanto collegata all’universo. Essa non esclude alcuna mistica, le integra tutte. Sotto la luce violenta del sole, questa utopia architettonica concretizza una dimensione metafisica che Goldstein & Zielke ci mostrano all’insegna della rarefazione.
A Machine to live in è un esperimento riuscito, un documentario atipico che illumina, a modo suo, la città federale presa in considerazione; inoltre, mette in guardia lo spettatore da chi sogna per noi i nostri sogni e mostra le ambigue possibilità di un mondo promesso di ‘latte e miele’. I registi individuano il luogo del desiderio e quello della cruda consapevolezza e li sublimano in inquadrature ricche di spazi utopici e incredibili. Ci mostrano un futuro attuabile che ci conduce in superficie dove gli occhi sono feriti dalla troppa lucentezza. Non è un caso che il documentario inizi proprio dalla questione dell’incidenza di casi di cataratta che affligge la popolazione di Brasilia (si contano 25 interventi al giorno) dovuti alla troppa esposizione solare. La regia di Yoni & Meredith destabilizza, lancia un allarme agli spettatori attenti e avvertono che nel futuro: si promettono sogni e quando si sogna si tengono gli occhi chiusi… ma con gli occhi chiusi siamo più vulnerabili.
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Note
1. Yoni Goldstein, <https://www.torinofilmfest.org/it/ >
2. v. Elenco delle unità federative brasiliane per Indice di sviluppo umano <https://it.upwiki.one/wiki/ >