Per Ruthie Fear - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Per Ruthie Fear

Una lettura del libro dell'autore statunitense Maxim Loskutoff sulla natura e il selvatico, all'insegna del lupo.

Francesca Matteoni

è studiosa di folklore e scrittrice. Conduce laboratori di tarocchi, scrittura e immaginazione. Tra le sue pubblicazioni le raccolte poetiche Artico (Crocetti, 2005), Tarn Un e altre poesie (Transeuropa, 2010), Acquabuia (Aragno, 2014), il romanzo Tutti gli altri (Tunué, 2014), il saggio Il famiglio della strega (Aras edizioni, 2014). Scrive di storia e folklore ed è redattrice di Nazione Indiana.

Nella nostra storia di lettori ci sono libri che diventano parte di noi, parlano direttamente al segreto della nostra esistenza, ci fanno immergere in loro come in una nuova infanzia per abitare la storia il più a lungo possibile. Un libro così è un amuleto che porteremo con noi come fosse una piccola persona dentro la borsa, un suggeritore, una riserva di coraggio o di sapere.  E chiama altre storie a raccolta per creare una comunità in cui ci aggiriamo come fra vecchi e nuovi compagni che hanno forma umana e animale. Queste storie tracciano per noi una mappa dove lo spostamento più arduo conduce alla radice delle nostre relazioni come della nostra solitudine, intesa quale dimensione in cui siamo più attenti alle voci del mondo, non distratti dalle maschere che indossiamo per renderci socialmente accettabili. Potremmo definirla una mappa della nostra selvaticità che si definisce di volta in volta avvicinandosi al linguaggio degli altri abitanti del pianeta, ricco ma solo in parte decifrabile, e al nostro bisogno di un’umanità solidale, da comprendere nelle sue molteplici imperfezioni. Selvatico è quel momento in cui ogni convinzione raggiunta si sgretola, mentre resiste la tensione emotiva verso il mondo: interiore ed esteriore. Selvatiche sono quelle storie che sfuggono allo schema più noto, a un finale positivo o disperante, per sospenderci nell’attesa di quello che verrà dopo, comunque. Perché ci sarà sempre un dopo. Dopo di noi, dopo l’umano, dopo l’animale, dopo la comprensione, dopo l’oblio. Mi avventuro in questo territorio grazie all’ultimo incontro, avvenuto leggendo Ruthie Fear di Maxim Loskutoff. Ruthie Fear, la protagonista del romanzo, cresce nella Bitterrot Valley in Montana, dentro una comunità sottoproletaria e marginale. Intorno a lei un luogo di struggente bellezza dove incombono il disastro ecologico e gli interessi economici di chi detiene ricchezza e potere. Non incontriamo mai questi padroni oscuri, mentre conosciamo gli abitanti della comunità, in maggioranza personaggi maschili, che conducono un’esistenza monotona e precaria, inventandosi lavori per la mera sopravvivenza, andando a caccia, senza mostrare particolare rispetto per le prede animali, eppure più vicini a loro di qualsiasi altro umano. Sono gli ultimi fra gli ultimi, quelli per cui non si aprono nemmeno le pagine del folklore etnografico, quelli esclusi, alcolizzati, violenti, incoscienti perché pensare diventa un lusso o un’ulteriore frustrazione; quelli da dimenticare, da epurare nelle cartoline che esaltano gli scenari selvaggi del pianeta. Eppure quei paesaggi li ospitano come fanno con le altre bestie. Li riconoscono con un muto assenso privo di perdono, pieno di grazia.

Ruthie sembra non temere nessun giudizio, forse perché la paura (fear) se la porta nel nome come un’essenza da osservare mentre si impara a vivere. Abbandonata dalla madre nella prima infanzia, cresce con il padre Rutherford, cacciatore e conoscitore delle foreste, che ha steso nella loro casa mobile la pelle della sua preda più notevole: un enorme lupo bianco. Ruthie può addormentarsi solo su quella pelle. Quando a scuola le viene chiesto cosa diventerà da grande lei risponde: “Un lupo”. Nel paesaggio si riconosce più prossima agli animali e alle presenze nascoste fra gli alberi, che non ai suoi simili.

Ruthie Fear avvertiva la vicinanza di esseri invisibili. Li cercava nei cespugli tra gli alberi durante le incursioni autunnali che faceva col padre nella foresta protetta per procurarsi illegalmente della legna da ardere. Chiazze di larici fiammeggiavano nel cuore color ocra del bosco di sempreverdi. Il profumo di caramello esalava dalla corteccia del pino giallo. Ruthie camminava, circospetta, evitando i rami caduti. Sembrava che gli esseri la seguissero, come lo scheletro alato, ma quando si voltava di loro restava soltanto l’ombra.  

Mentre leggevo ho pensato ad alcuni altri libri usciti in tempi diversi, ma con una stessa matrice selvatica tornata prepotentemente attuale nel panorama letterario contemporaneo. Il classico dei classici, Il Richiamo della Foresta di Jack London; il recente Credere allo spirito selvaggio di Nastassja Martin (di cui ho scritto qui); il capolavoro Io e Mabel di Helen Macdonald. Li ho contemplati per l’impatto che hanno avuto e hanno sulla mia vita, quasi punti cardinali di una mappa morale.

Nord, la stella polare: l’avventura del cane Buck e la sua liberazione verso l’origine e il lupo nascosto nella sua pelle, una storia commovente di smarrimento, amore per gli umani, esilio e riconoscimento di sé nel coro della terra, così da poter emettere il proprio definitivo ululato.

Est: l’inquietudine umana e la sorellanza feroce con la bestia, che segna il destino di una giovane antropologa nell’Asia estrema della Kamchatka, attraverso il bacio (morso) quasi mortale con un orso e la conseguente rinascita personale.

Sud: il calore bruciante del lutto, dell’esposizione a cui ci consegna la perdita, nella storia di un’amicizia quasi simbiotica fra la protagonista e autrice, una naturalista inglese, e Mabel, l’astore che decide di allevare dopo la morte improvvisa del padre.

Ovest: la geografia sentimentale e fisica di Ruthie, il piccolo cosmo a cui ritorniamo, la forza di un declino che è anche una forma lucida di appartenenza.   

In tutti e quattro i libri si incontrano animali e umani. Umani che hanno bisogno di altri animali per ritrovarsi o perdersi, animali che fuggono verso la sparizione o che si manifestano nel loro essere istintuale, primitivo, dettato da necessità e dimenticanza contro ogni certezza del nostro linguaggio. Umani il cui amore non è sufficiente a placare la propria vocazione (Buck); animali che delimitano un territorio (orso); donne che devono allenarsi al volo e alla caccia per ritrovare pace (Helen con Mabel); donne che sentono gli animali e impareranno a tradirli per l’umano, senza piegarsi mai nella volontà (Ruthie). Queste storie hanno in comune la parola spirito, questo reietto della vita moderna, che scalcia e ringhia per non essere soppresso e riaccendere una scintilla primigenia, come accade nel capolavoro di London:

Le generazioni domestiche scomparivano via via dal suo ricordo. In modo confuso egli riandava con la memoria alla gioventù del mondo, ai tempi in cui i cani selvaggi si riunivano in branchi nelle foreste primordiali e uccidevano la loro preda facendo scorrerie. Non fu faticoso per lui imparare a combattere lacerando e azzannando al modo dei lupi, perché così avevano combattuto i suoi avi dimenticati. Essi ravvivavano in lui l'antica vita, e le antiche astuzie da loro lasciate in eredità all'esistenza erano le sue stesse astuzie.

Ma in Ruthie Fear lo spirito diventa qualcosa di più, un presagio mortifero o un enigma di riconciliazione. È forse la creatura sgraziata e senza testa che la bambina crede di vedere in fondo a un canyon e che potrebbe essere il simbolo della sua diversità, di un nemico invisibile e sempre presente, della crisi ecologica che si sta per manifestare nei rapporti come negli sconvolgimenti climatici, nel futuro in cui forse diventerà davvero un lupo.   

Lottava per trovare uno scopo all’esistenza. Non si capacitava che il cielo e i monti oscuri riuscissero a farla sentire enorme e al contempo infinitamente piccola. Si chiedeva perché fosse capace di vedere la propria ombra allungarsi a terra come un nero dito di Dio, ma all’udire un ramo spezzarsi a cento passi di distanza corresse a nascondersi nel suo roccolo. Si sentiva parte di un mondo intero e vivo, eppure era completamente sola.

Dov’è finito il mio spirito?

Da bambina coltivavo il mio spirito come qualcosa che poteva essere davvero visto o compreso solo dagli altri animali, fossero passeri, gatti, cani, anatre in uno stagno o i cavalli che andavo a vedere di sera, nelle stalle del paese di montagna. Bisbigliavo al mio spirito che da qualche parte doveva pur esserci un’umanità affine. Nel mentre crescevo, studiavo, scrivevo, giocavo in mezzo all’umanità di sempre, ai volti conosciuti, a quelli tollerati, a quelli perfino temuti. C’era un io e un loro, c’era un noi (di zampe, di grugniti e cinguettii, di ali e zoccoli) e un loro e un sospiro per ogni mancato allineamento. C’era l’idea di fare meno male possibile fra gli umani, perché loro non ne facessero agli altri animali. C’era la paura che gli altri animali se ne andassero tutti, come prima di loro dovevano aver fatto gli esseri magici guardiani dei luoghi, sdegnati dal nostro cuore ottuso. Ma c’era anche il desiderio, rabbioso, impaurito, forte per gli altri esseri umani. Non per essere come loro: mai come loro!, ma per raggiungere un posto fra loro, perché la parola loro diventasse un insieme di tu riconoscibili e cari. O, anche, se ne manifestasse infine almeno uno solo, di tu.

Mi sono ricordata di tutto questo leggendo l’infanzia di Ruthie e poi proseguendo con riluttanza nel crescere della ragazza, nel suo allontanarsi da quella meraviglia animale di intensa estraneità al quotidiano della nostra specie. Ruthie ha una sola amica, Pip, orfana, testarda e pura. Ruthie però ha anche un padre che la ama, sebbene lei non lo capisca. E gli amici del padre che la trattano come famiglia. Da adolescente conosce il sentimento misto di amore e repulsione per l’altro sesso, accoglie fra le sue braccia la prima spoliazione e l’assurdità del male inflitto e subito, nella morte di un ragazzo, ucciso per furto in un supermercato. Se ne va altrove, cammina nel deserto, rientra nella valle, inizia a lavorare come cameriera, si innamora di un giocatore di football americano, minato dalle conseguenze della sua attività sportiva, che lo ha arricchito economicamente provocando tuttavia danni irreversibili al cervello. Seppellisce il cane dell’infanzia, ne accoglie un altro, vive da sola, vive nella comunità. Forse quasi dimentica com’era guardare gli animali. Forse sta imparando qualcosa a cui non riesce a dare un nome e che porta una lettrice come me fuori dalla zona di conforto, dentro quella della realtà.  

Dallo studio di Maxim Loskutoff, USA, 2021.

Dallo studio di Maxim Loskutoff, USA, 2021.

Quasi al termine del libro Ruthie ha la sua visione più commovente: gli spiriti (o lo spirito) di un branco di alci barbaramente massacrato durante una spedizione di caccia, a cui lei stessa ha preso parte da ragazza.

Quando rialzò lo sguardo dietro Pharaoh vide un branco di alci nella radura. Le groppe semitrasparenti erano crivellate di proiettili. Riconobbe la femmina con lo sguardo perso e il piccolo che era rimasto impigliato nella recinzione, con un pezzo di filo spinato ancora attaccato alla zampa di dietro. Il grosso maschio restava in disparte col sangue incrostato intorno al collo, le corna ritte verso il cielo. Era la mandria che lei e Badger avevano contribuito a massacrare. La lunga e impietosa memoria della valle. Spiriti nella penombra del mondo visibile. Il maschio la guardò negli occhi. Il suo palco si stagliava contro la parete del canyon, e l’ombra di ogni punta si allungava all’infinito verso l’alto.
Quelle corna, come mani giunte a coppa, sembravano poter sostenere un piccolo pianeta, e Ruthie rivide in esse tutto ciò che aveva perso: Sitka, sua madre, la sua infanzia, la natura in cui si sentiva a casa. I fardelli che gli altri l’avevano aiutata a portare fino a quando era stata in grado di sostenerne il peso.
“Mi dispiace” disse.

 

Perché questo male? Perché non astenersene e non ripudiarlo? Mi chiedevo, leggendo. Perché Ruthie non rifiuta niente della sua animalità e dunque della sua umanità: è umana fra umani per cui non esiste riscatto. Forse la creatura senza testa, che ricomparirà nelle pagine conclusive quale rivelazione – apocalisse – del destino della comunità, chiede di essere interpretata figurandoci in lei i volti in dissolvenza dei simili, il legame che ci tiene a coloro che ci amano e da cui siamo amati, in modo imperfetto, sbagliato, senza alcuna comprensione, mentre cerchiamo di proteggerci gli uni con gli altri. Cosa e chi può salvare Ruthie che vede spettri, che conosce la sete vitale dei suoi compagni di esistenza e la loro sventura ineluttabile? Perché c’è la salvezza in Ruthie. Ma non arriva come la vorremmo o come più comunemente la crediamo. Mi fermo sulla sventura, vocabolo che non uso casualmente: è la sventura di cui tanto ha ragionato Simone Weil a cui penso, questo dramma ben più ampio della sofferenza, così simile alla verità poiché ci denuda e ci determina. E non può essere rimossa o ripudiata. Scrive la Weil in una lettera al poeta Joë Bousquet:

Felici coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro epoca.

E ancora nel suo L’ombra e la grazia:

Non è forse la massima sventura, quando si lotta contro Dio, quella di non essere vinto?

Ruthie conosce intimamente la sventura del suo tempo e non se ne sottrae né il suo sguardo viene reso torbido dal contatto: anzi, è proprio per questa conoscenza che una forma irresistibile di bene la spinge fra tutti coloro che da bambina forse avrebbe voluto fuggire e rifiutare per un qualsiasi stormo di uccelli liberi. E se a “Dio” sostituiamo “destino” o “mondo”, ecco che la vicenda dello spirito in questa terra si mostrerà più chiara: saremo sempre vinti da Dio, dal destino, dal mondo. Ne saremo sempre una parte infinitesimale che soccombe indipendentemente dalla classe sociale, dalle ambizioni, dalle presunte conquiste. Cosa possiamo fare, allora? Ruthie decide di non lottare. Di arrendersi senza rassegnazione, facendo della sua resa l’arte di vedere le persone come cercano costantemente di essere, fallendo e rialzandosi, i luoghi come mantengono la loro bellezza nel congedo finale. Ruthie fa suoi la rabbia, il senso di ingiustizia e il desiderio per rendersi all’amore.

  

Mi sono chiesta quale fosse la domanda di questo libro in cui il selvatico non offre possibilità di liberazione, rinascita, accettazione del lutto, ma al contrario aderisce ai personaggi con dolore, come una pelle spirituale finalmente rovesciata fuori. La domanda fa tremare i polsi, arriva nella lingua sia evocativa che essenziale di Loskutoff: non è come e per cosa vivere, ma con chi alla fine decidere di morire, mentre si rilascia lo spirito. Forse questo spirito è un lupo, un alce, un’oca selvatica, una lontra, una trota, un insetto iridescente. Ma il corpo trattiene l’umano. Lo fa accettando che l’amore non sia elevazione di sé negli altri e viceversa. Lo fa accettando che il male esista e noi ne siamo parte e possiamo scegliere di sapere quelli che abbiamo intorno come coloro per cui provare un’infinita, amara compassione. La stessa che rivolgiamo a noi, mentre lo spirito corre negli alberi. Quando la realtà ci spinge dentro la sua stupefacente forza, possiamo provare a immaginare che non ci siano colpevoli o nemici o soluzioni. Possiamo finalmente provare a guardare i volti di chi abbiamo sempre avuto intorno. Vederli. Avvicinarli. Decidere che non sono i migliori, eppure sono lì con noi sul margine della foresta. Decidere che la fine ha bisogno di pietà, perché qualcosa, qualcuno, altrove ricominci. E nella fine tendere un abbraccio.

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Questo articolo è parte della serie:  Recensioni
USA - 2022
Arti
Francesca Matteoni

è studiosa di folklore e scrittrice. Conduce laboratori di tarocchi, scrittura e immaginazione. Tra le sue pubblicazioni le raccolte poetiche Artico (Crocetti, 2005), Tarn Un e altre poesie (Transeuropa, 2010), Acquabuia (Aragno, 2014), il romanzo Tutti gli altri (Tunué, 2014), il saggio Il famiglio della strega (Aras edizioni, 2014). Scrive di storia e folklore ed è redattrice di Nazione Indiana.

Pubblicato:
23-09-2022
Ultima modifica:
23-09-2022
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