Come sta la legge di Moore? Riflessioni su tecnica e cultura al tempo del potenziamento costante.
Più di cinquantacinque anni fa Gordon Moore, uno dei fondatori della INTEL, formulò una legge (detta appunto di Moore) secondo cui ogni due anni circa la velocità dei processori e le loro prestazioni di elaborazione sarebbero raddoppiate. Come testimonia il fatto che nel 1956 per archiviare 5 MB ci voleva un computer di una tonnellata mentre oggi 1 TB (ovvero un milione di MB) sta in una pennetta USB, questa intuizione empirica aveva poco da invidiare a una legge della fisica. La regola ha subito vari rimaneggiamenti nel tempo e non è ancora chiaro se e quanto continuerà a funzionare, ma ciò che più mi fa riflettere è l’indiscussa fiducia di Moore nella volontà di potenziamento che avrebbe spinto l’umanità a migliorare le prestazioni degli strumenti informatici.
Parlando del futuro dello sviluppo tecnologico, il giornalista scientifico Michael Simmons scrive:
“Mentre la biologia umana si evolve così lentamente che neanche ce ne accorgiamo, le idee (cultura, strategie, tecnologie, ecc.) si evolvono così rapidamente che non riusciamo a tenere il passo. L’evoluzione delle idee è una sorta di evoluzione biologica sotto steroidi”.
Scrissi qualcosa di analogo nel saggio Gestire la morte, in Trilogia della catastrofe (effequ), quando dicevo che siamo degli animali difettosi, con un’intelligenza sufficiente a surclassare in potenza qualunque altro essere vivente, ma incapaci nel calibrare i nostri scopi e desideri. Costruiamo utensili sempre più potenti, capaci di smuovere e distruggere montagne, ma nel divenire imperatori tra i viventi restiamo schiavi di noi stessi – o della nostra biologia, come direbbe Simmons. La chiamerei “Sindrome di Dragon Ball” e chi conosce questo anime mi avrà già capito, dato che la costante della serie è il potenziamento esponenziale della forza di personaggi e antagonisti, tanto che uno dei primi supercattivi sta all’ultimo un po’ come un Commodore 64 sta a un Macbook Pro.
Tra lo sviluppo di un’ascia manuale di selce scheggiata e un missile nucleare però, non c’è solo uno spazio di secoli e competenze, ma un’intera visione del mondo – che per differenziare dalla tecnica chiamerei scienza. Prima di capire in cosa consiste questa separazione, propongo una definizione di tecnica, o meglio ripropongo quella che diede il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset nelle sue lezioni sul tema, raccolte in Meditazione sulla tecnica e altri saggi su scienza e filosofia (Mimesis). Ortega parla inizialmente di bisogni:
«L’alimentarsi non è dunque necessario di per sé, è necessario per vivere. E sarà dunque tanto necessario quanto è necessario vivere, se dobbiamo vivere. Vivere è, dunque, il bisogno originario di cui tutti gli altri sono mere conseguenze. Ebbene, abbiamo già detto che l’uomo vive perché lo vuole. Il bisogno di vivere non gli viene imposto a forza, come alla materia è imposto di non potersi annullare. La vita – bisogno dei bisogni – è necessaria solo in un senso soggettivo; semplicemente perché l’uomo decide in modo autocratico di vivere».
La tecnica però non è come si potrebbe immaginare semplicemente uno strumento per soddisfare tali bisogni. Prosegue il filosofo:
«… possiamo pertanto definire [la tecnica] come i cambiamenti che l’uomo impone alla natura in vista della soddisfazione dei propri bisogni. Questi, come abbiamo visto, erano imposte all’uomo dalla natura. L’uomo risponde imponendo a sua volta un cambiamento alla natura. La tecnica è dunque una reazione energica contro la natura o la circostanza, che finisce con il creare tra queste ultime e l’uomo una nuova natura, una sovranatura. Si noti, dunque: la tecnica non è ciò che l’uomo fa per soddisfare i propri bisogni. Questa espressione è equivoca e varrebbe anche per il repertorio biologico degli atti animali. La tecnica è la riforma della natura, di quella natura che ci rende poveri e bisognosi. Una riforma tale per cui i bisogni possano venire possibilmente annullati, in modo che la loro soddisfazione smetta di essere un problema».
L’originale posizione del pensatore spagnolo è che la tecnica non sia un mezzo per soddisfare i nostri bisogni elementari, nei confronti dei quali ce la caviamo dignitosamente con poco, ma un metodo per perseguire il benessere. Cito ancora Ortega, perché è molto chiaro ed è di piacevole lettura:
«[…] di fronte ai bisogni che a priori sembrano più elementari e inevitabili – ad esempio cibo e calore – l’uomo possiede un’elasticità incredibile. Egli può ridurre – non solo per costrizione, ma anche per piacere – al limite estremo la quantità di cibo assunta, e può addestrarsi a sopportare un freddo intensissimo. 2) Al contrario, gli costa molta fatica, o più semplicemente non riesce a fare a meno di certe cose superflue e, quando queste gli mancano, preferisce morire. 3) Da ciò si deduce che gli sforzi dell’uomo per vivere, per stare al mondo, sono inseparabili dai suoi sforzi per stare bene. Di più: per lui la vita non significa semplicemente stare, ma stare bene, ed egli sente come bisogni le condizioni oggettive dello stare solo in quanto queste sono il presupposto dello stare bene. […] Lo stare bene, e non il semplice stare, è il bisogno fondamentale dell’uomo, il bisogno dei bisogni».
La tecnica è la produzione di oggetti e funzioni il cui scopo collettivo è aumentare ciò che reputiamo il nostro benessere, da un aspirapolvere a una casa, passando per la televisione, l’aria condizionata e l’automobile.
Con questa tesi in mente, torno adesso alla Sindrome di Dragon Ball di cui parlavo in precedenza. L’idea di benessere, almeno per com’è proposta nella contemporanea società capitalista, porta sempre con sé un elemento quantitativo. In un’abitazione dignitosa si sta bene, ma ancora meglio in un appartamento più grande, più bello, con più comfort, televisioni più grandi, condizionatori più potenti, materassi più comodi, automobili più prestanti… il benessere è un’iperbole senza fine rincorsa dalla tecnica. Intendiamoci, credo che sia opinabile che il benessere consista in quanto ho detto e che più si potenzino certi strumenti più la nostra condizione migliora. Di per certo in strada si dorme peggio che in un appartamento, ma non è detto che questa distanza qualitativa sia identica anche tra la vita in una casa confortevole e quella in una villa di lusso – mi verrebbe da proporre una divisione tra benessere e felicità, ma non ho ancora spiegato quella tra scienza e tecnica e non posso divagare.
Torno dunque all’esempio dell’ascia di pietra e del missile atomico; la differenza più evidente tra i due è la potenza; con l’avanzare della tecnica le armi – come tutti i congegni – aumentano a dismisura la loro forza, offrendo a chi le possiede vantaggi inusitati. La funzione di ascia e missile però non è così lontana, si tratta in ambo i casi di strumenti di sopraffazione fisica; sembrerebbe che la tecnica influisca sulla nostra capacità ma non sui nostri scopi. Possiamo prendere un esempio più pacifico, come la scrittura cuneiforme su una tavoletta d’argilla e i messaggi mandati via smartphone, ma anche qui c’è un’enorme differenza di portata e il medesimo fine, la comunicazione linguistica.
Così, mentre la tecnica avanza esponenzialmente, i nostri desideri restano immutati – ma esistono dei limiti oltre i quali una differenza quantitativa diventa anche qualitativa. Uccidere un avversario grazie alla propria ascia di pietra non è come uccidere milioni di persone premendo un pulsante, sebbene sempre di violenza si parli. Così come non è la stessa cosa scrivere un messaggio destinato a pochi o un tweet con un pubblico di milioni di persone. Ecco dunque che la tecnica, pur restando al servizio dei nostri bisogni, li travalica e trasfigura, con risposte che non solo oltrepassano le richieste umane, ma superano il loro orizzonte di senso – il nostro desiderio non è più una guida, ma una scintilla che avvia processi di cui non riusciamo a cogliere la portata. I nostri bisogni restano su scala umana, la tecnica lavora su scala geologica.
A dividere questi utensili però non c’è solo una gradazione di potenza, ma anche un’immensa mole di conoscenza accumulata, dalla fisica newtoniana a quella einsteiniana e quantistica, con tutto il contorno di una mutata cognizione del mondo, esistenziale e metafisica. Il cambiamento di orizzonte conoscitivo è immenso tanto quanto la mutata potenza tecnologica, eppure proprio come quest’ultima anche questo non sembra avere molta influenza sui nostri fini – il benessere di cui parlava Ortega. L’animismo di un uomo dell’età della pietra e l’attuale visione scientifica, nonostante la grande divergenza, sembra che abbiano influito poco sui desideri umani. Torno ad Ortega, quando dice che
«L’uomo non ha alcun desiderio di stare al mondo. Ciò che invece si sforza di ottenere è lo stare bene».
Lo “stare bene”, che pure socialmente e individualmente vive sfumature diversissime, dall’opulenza all’ascesi, dal ritiro dal mondo alla fama globale, di media non è cambiato così tanto. Ecco, quel che chiamavo scienza è proprio questo l’abissale mutamento delle visioni del mondo, che ci trasportano da un mondo con gli dei a uno con i quanti – quale dei due sia reale – ma che sembrano non incidere un granché sulle nostre prassi quotidiane. Davanti a questa lentezza cognitiva, ad accelerare resta solo la tecnica, ma la frenesia la porta fuori scala, i collegamenti coi desideri si stirano, più che uno strumento diventa un ambiente. Torno ad Ortega, quando diceva che «la tecnica è la riforma della natura, di quella natura che ci rende poveri e bisognosi».
La natura è stata riformata e viviamo nell’antropocene, eppure la maggior parte delle persone non vede soddisfatti i propri bisogni, tutt’altro. Persino le più privilegiate non vedono la soddisfazione dei propri desideri, perché come ha ben indicato il buddismo il desiderio è strutturalmente inestinguibile. Come specie, il monotono asservimento ai nostri desideri ha scambiato l’effetto collaterale della conoscenza (ovvero la tecnica) come il suo scopo, lasciandoci immutati in un ambiente trasfigurato, antropico ma non per queso a misura d’uomo. Non so se esiste una via d'uscita da questo percorso ormai millenario, posso solo aggiungere che l’indagine del mondo non mi sembra che porti a una conoscenza più vera, quanto a una consapevolezza della profondità della nostra ignoranza. Conoscere questo limite però può aiutarci a cambiare il nostro modo di vivere noi stessi – e limitare i danni dei nostri antichi desideri.