La battaglia degli oggetti - Singola | Storie di scenari e orizzonti
"Tetradekaidecahedral", playground mobile, concetto di Viktor Papanek (1973-1975).
"Tetradekaidecahedral", playground mobile, concetto di Viktor Papanek (1973-1975). | Copyright: Università di Arti Applicate di Vienna, Papanek Foundation

La battaglia degli oggetti

È passato mezzo secolo dal manifesto di Viktor Papanek, il designer che comprese le implicazioni politiche della sua disciplina parlando di emancipazione e di responsabilità. Un messaggio attuale di cui riappropriarsi.

"Tetradekaidecahedral", playground mobile, concetto di Viktor Papanek (1973-1975). | Copyright: Università di Arti Applicate di Vienna, Papanek Foundation
Redazione Singola

Vuoi contribuire con un tuo articolo? É facile, basta un pitch. Scopri come nella pagina delle collaborazioni.

Oggi il design industriale ha messo l'omicidio su una base di produzione di massa, progettando automobili criminalmente insicure che uccidono o mutilano, creando un'intera nuova specie di spazzatura permanente che ingombra il paesaggio, e scegliendo materiali e processi che inquinano l'aria che respiriamo, i designer sono diventati una razza pericolosa.

Questa è l'accusa che Viktor Papanek lanciava dal palco di un happening design-attivista nel 1968. La polemica di Papanek - che il design sia uno strumento politico da strappare alle corporazioni e restituire al pubblico - si concretizza nel suo best-seller del 1971 Design for the Real World: Human Ecology and Social Change. Quest'opera assomiglia nel tono e nella sua "urgenza" all'apocalittico Silent Spring di Rachel Carson e alla bibbia della controcultura dell'epoca Whole Earth Catalog di Stewart Brand.

Viktor Papanek, conosciuto come una delle menti più coraggiose e critiche del design, nasce in Austria nel 1923, studia in Inghilterra ed emigra negli Stati Uniti. Qui, oltre a frequentazioni come Frank Lloyd Wright, entra in contatto con un ambiente completamente diverso. È forse proprio la diversità nordamericana a fare sbocciare in lui una passione per l'antropologia che lo spingerà in ricognizioni in tutto il continente, dove conosce da vicino i popoli nativi, e in una serie di viaggi, il più cruciale dei quali è quello in Indonesia, a Bali. Parallelamente, studia le teorie dell'ecologia disponibili all'epoca, intuisce la grande sfida con cui la disciplina si dovrà confrontare dopo la guerra, quando l'Umanità inizierà ad essere un pericolo non solo per i popoli e le nazioni, ma per la sua stessa sopravvivenza.

Viktor Papanek

Viktor Papanek

È questo il contesto in cui Papanek adotta una visione molto più multidisciplinare: mentre la gran parte dei suoi colleghi vede il grande boom dei consumi come l'eldorado che il design industriale aspettava dalle sue origini, Papanek ne coglie i lati più taglienti, più pericolosi.

Una serie di libri decisivi che il designer pubblicherà contamina la disciplina di dubbi e consapevolezze. Il primo di questi, Design for the Real World, è così dirompente da venire tradotto in oltre venti paesi e diventa immediatamente un riferimento per gli studenti di mezzo mondo. L'entusiasmo per il successo di questo libro spinge Papanek a mettersi di nuovo al lavoro. Insieme al collega James Hennessey il designer scrive un altro libro destinato ad occupare un posto centrale nella letteratura del design, Nomadic Furniture.  

Pubblicato un anno prima di un altro caposaldo del design democratico, Autoprogettazione di Enzo Mari, il libro di Papanek e Hennessey condivide con i lettori "come costruire e dove comprare mobili leggeri che si piegano, si gonfiano, si ripiegano, si impilano, o sono usa e getta e possono essere riciclati". È un libro pieno zeppo di diagrammi di fai da te, di progettualità, di idee, di ispirazioni.

Papanek crede che solo una piccola parte della responsabilità del designer risieda nell'area dell'estetica; piuttosto, il punto è trovare la soluzione pratica e più efficiente per un dato problema anche a scapito della bellezza (è la linea seguita da molti iper-funzionalisti, un nome tra tutti Bruno Munari, che arriva a sacrificare addirittura lo stile del designer). Non è quindi un caso che una delle sue maggiori "rotture" sia una radio progettata per i paesi in via di sviluppo, fatta con una lattina: acusticamente rozza, ma funzionante; oggettivamente brutta, ma di design: la "Tin Can Radio". 

La

La "Tin Can Radio", progettata da Papanek con uno studente, 1962. | Papanek Foundation

Oggi il lavoro di Papanek, oltre a rimanere un riferimento ancora studiato e praticato nel design, viene fagocitato anche e soprattutto dalle industrie che rappresentano il suo primo bersaglio. Tra queste si può certamente includere l'industria più dirompente del business dell'arredamento, Ikea.

Per comprendere come, bisogna ripercorrere brevemente la sua storia. Il "Do It Yourself" di Ikea nasce nel 1953 per una "folgorazione" di Ingvar Kamprad, a cui viene in mente l'idea di fare assemblare il mobile al cliente e risolvere cosí in un colpo solo il problema interno degli spazi di stoccaggio e dei costi di produzione. A Kamprad, l'unico valore aggiunto che interessa vendere al cliente è la sua capacità di acquisto: non la creatività e non una maggiore funzionalità (che Ikea non inventa, al massimo prende in prestito da secoli di design scandinavo ed europeo).

Tutto ciò è sufficiente a far sì che Ikea potesse trasmettere un'idea di maggiore democraticità rispetto alla concorrenza?
Anche qui bisogna fare un chiarimento: la democraticità di cui parliamo è una cosa molto diversa da quella teorizzata da Papanek. Lo spiega bene un articolo di Zeithistorische Vorschungen, che ricorda come nella visione di Nomadic furniture:  

materiali semplici e "strategie fai-da-te" erano deliberatamente contrapposti alla superiorità delle strutture del potere capitalista, la patina dell'uso contro le superfici anonime e lisce delle forme standardizzate, la creatività creativa dell'individuo contro l'anonimato del design industriale, le improvvisazioni spontanee della vita quotidiana contro la mancanza di idee del design di sistema.

mentre in Ikea:

1) si ricerca la standardizzazione a priori e a posteriori (a riguardo è utile fare un paragone con altro gigante dell'assemblaggio, la Lego, anche scandinavo, dove la standardizzazione è solo a priori. I pezzi sono fortemente standardizzati ma solo per rendere possibile il massimo numero di combinazioni, dunque la massima potenzialità creativa) 
2) da cui deriva che lo schema di montaggio non serve a far fiorire le varianti: serve a eliminarle
3) e quindi implica una costruzione obbligatoria, senza quale verrebbe meno l'utilità dell'oggetto.

Eppure Ikea vende il potere d'acquisto (e una certa hygge) per democraticità, mentre realmente l'azienda non è ancora presente in quasi nessun paese in via di sviluppo. E visto che il suo compito non è demolire il capitalismo ma piuttosto interpretarlo, fa questo: utilizza le idee alla base di Nomadic furniture come esoscheletro del proprio brand, come collante.

In altre parole, senza DIY, Ikea non sarebbe Ikea. E lo sarebbe ancora meno se attraverso questo non passasse il suo messaggio politico, la sua carica attivatrice. Billy non è una semplice libreria: è la possibilità stessa di andare via di casa, di creare un ufficio, di emanciparsi. Ikea si traveste da Papanek e si mette dalla parte di uno studente squattrinato e in rivolta: il suo avaro fondatore predicava risparmio e austerità e ovviamente aveva in casa i mobili che produceva (come Agnelli arrivava al Lingotto su una Fiat 500 [1]).  

Ikea vs Lego - la differenza sostanziale dello standard a posteriori e a priori

Ikea vs Lego - la differenza sostanziale dello standard a posteriori e a priori | Woodleywonderworks / Flickr

Nel 1988, qualche anno prima della sua morte, Papanek viene insignito del premio della Fondazione Ikea, fondazione che lo stesso Kamprad crea a ulteriore riprova della sua attenzione per l'immagine dell'azienda. Il soft power del capitalismo "ingloba" un altro dei suoi oppositori. È l'ultimo capitolo?

Non si direbbe. Nei tempi di crisi sistemica, la deperibilità e l'obsolescenza programmata dei prodotti iniziano ad apparire disumane e immorali anche per chi prova a mascherarle a colpi di marketing: le pratiche che riportano in auge il messaggio di Papanek tornano a essere centrali. Un messaggio che mantiene la sua carica provocatrice, critica, ma anche costruttiva e fantasiosa. L'hacking è una di queste (non è un caso che proprio l'Ikea-hacking sia tra le più conosciute, vista l'enorme abbondanza di materia prima - leggi pezzi di mobili Ikea recuperati su eBay o dalle discariche), ma possiamo contare nel novero ogni pratica di upcycling, che nel ramo del design trova una delle sue maggiori applicazioni. 

Gary Chan, inventore di biciclette create con materiali di scarto, Hong Kong.

Gary Chan, inventore di biciclette create con materiali di scarto, Hong Kong. | Paddyng / Wikimedia

Recinto per bambini DIY in una scena del film

Recinto per bambini DIY in una scena del film "High Life" di Claire Denis (2018)

È nell'ultima opera, The green imperative, Natural design for the Real World (sottotitolo che a volte compare come Ecology and Ethics in Design and Architecture, 1995) che la visione di Papanek si fa completamente circolare e la consapevolezza sulle materie prime e sulla reale accessibilità dei prodotti finali diventano focali; il design abbraccia la sfida della responsabilità, a tratti si fonde con caratteri di natura spirituale. 

Di nuovo, l'anatema è rivolto soprattutto ai suoi colleghi e alla disciplina. Papanek riporta esempi della complicità dei designer nella produzione di oggetti di consumo inutili e dispendiosi, del loro asservimento ai capricci delle professioni della pubblicità e del marketing. Si tratta di una professione che "conforma, esegue, deforma e disinforma" piuttosto che "informa, riforma e dà forma". È particolarmente critico nei confronti della produzione centralizzata, su larga scala: auspica invece un'alternativa su piccola scala e decentralizzata. Passa a considerare gli effetti ambientali di vari materiali, di tecniche e processi di uso comune, prima di suggerire alternative pratiche.

La sfida personale di Papanek si conclude nel 1998, con la sua morte, ma i suoi mobili nomadi proseguono la battaglia iniziata mezzo secolo fa. E la sensazione oggi è che il loro successo si leghi a doppio filo alle sorti del mondo, e che gli strumenti critici che la sua teoria ha da offrire possano risultare utili nei momenti di crisi.


Note

[1] La Fiat 500 di Agnelli era ovviamente custom, bellezza

Hai letto:  La battaglia degli oggetti
Questo articolo è scritto in collaborazione con:
Globale - 1971-2021
Arti
Redazione Singola

Vuoi contribuire con un tuo articolo? É facile, basta un pitch. Scopri come nella pagina delle collaborazioni.

Questo articolo è scritto in collaborazione con:
Pubblicato:
04-02-2021
Ultima modifica:
04-02-2021
;