Cosa si cela dietro il corpo ibrido? - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Green screen
Green screen | Copyright: Ryan Garry / Unsplash

Cosa si cela dietro il corpo ibrido?

La performance capture nel cinema digitale contemporaneo ha rivoluzionato la maniera di concepire il corpo attoriale. Il focus sulle implicazioni che questo strumento solleva nei confronti del ruolo dell’attore e del suo statuto, tra uncanny e inquietanti resurrezioni.

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Alessio Zuccari

studia scienze dello spettacolo. Collabora attivamente nelle redazioni di Anonima Cinefili e Birdmen Magazine, oltre a ricoprire il ruolo di caporedattore nella webzine universitaria DassCinemag.

Siamo all’inizio del ventunesimo secolo quando Gianni Canova evidenzia nel suo seminale lavoro L’alieno e il pipistrello il rischio di perdita di legame ontologico fra immagine e realtà. Con l’arrivo del nuovo millennio il mondo è riuscito a scampare al Millennium Bug, ma il regime di visione fa il suo ingresso in un’epoca in cui il paradigma tecnologico e culturale intreccia strettamente l’immagine – in particolare quella filmica – a un altro regime, quello della simulazione. Una volta che l’immagine è inserita all’interno di un quadro di elaborazione digitale, che tende ad aumentarla, ridurla, traslarla, questa codificazione binaria di elementi posti su uno schermo rivelano lo statuto di inaffidabilità al quale la rappresentazione del reale è giunta. Il soggetto scopico è quindi spinto a diffidare sempre di più di ciò che i suoi occhi sono in grado di captare, è spinto a mettere in questione il ruolo stesso rivestito dal concetto di verità. Come si può credere, d’altronde, che nell’era in cui il morphing computazionale è in grado di alterare e modellare da zero la fisionomia di un volto siano ancora sufficienti gli strumenti di riconoscimento dell’identità individuale, così come il fare affidamento sui codici scopici tradizionali.

Nelle ultime battute del suo lavoro, Canova giunge quindi alla conclusione di come nell’era di un cinema che s’è fatto e si farà sempre più virtuale, è quello del corpo il concetto che subirà la maggiore trasmigrazione di senso nel palcoscenico artistico-culturale. Da una parte il corpo umano inteso come referente, dall’altra il corpo attoriale nell’accezione di significante. È come se andasse rivelandosi sempre di più la necessità di superare una crescente obsolescenza del corpo sensibile in affanno quando posto nel mezzo dell’amalgama digitale, come se il cinema avvertisse il bisogno di riprogettare daccapo la limitatezza della carne e delle ossa analizzate tramite il registro illusionistico e finzionale. Non è un caso che qualche anno dopo, nel 2009, James Cameron porterà sul grande schermo Avatar, emblema di quello che è il cinema digitale contemporaneo e soprattutto del successo della tecnica della digital performance. Il popolo dei possenti Na’vi è di fatto paradigma di un primo fondamentale tassello del post-umano, che sotto la primitiva pelle blu elettrico delle creature protagoniste del film cela in realtà l’ibridazione tra umanità e tecnologia, in un significativo e progressivo sfumare della demarcazione tra umani e macchine che sempre di più tendono al cyborg. Avatar lavora infatti su un duplice livello di qualificazione del nuovo corpo cinematografico, o meglio di quello che è definibile più propriamente come ultracorpo secondo l’accezione che ne dà Christian Uva nel suo testo fondamentale e omonimo Ultracorpi. Sul piano diegetico c’è il Jake Sully di Sam Worthington, marine paralitico, spezzato nel fisico e assolutamente inadeguato al selvaggio mondo di Pandora, la cui unica possibilità di adattamento è il trasmigrare nel corpo ultra-umano di un Na’vi creato da zero, appositamente per lui.

Però come ricorda ancora Uva, dietro un corpo ibrido rappresentato si cela, quasi sempre, un corpo ibrido rappresentante. Un augmented body, cioè corpo aumentato, intensificato dell’attore che si copre delle più o meno invasive strumentazioni tecnologiche atte a catturarne l’essenza da restituire poi digitalmente tramite la digital performance, scandita nei due momenti della motion capture e della facial capture. In particolare quest’ultima si qualifica come vero e proprio slittamento del fattore umano fluttuante tra la tangibilità dell’interprete e il suo corrispettivo digitale, che attraverso l’atto di indossare caschi con telecamere integrate e marker sulla faccia del performer (non più solo attore come inteso tradizionalmente), rende il volto un territorio da esplorare nuovamente da zero, sede di approfondimento di tutta una serie di atteggiamenti microespressivi che diventano oggetto di scansione e analisi da parte dell’elaborazione computazionale.

Avatar: Neytiri o Zoe Saldana?

Avatar: Neytiri o Zoe Saldana? | Avatar

È certamente vero che a causa dell’ingente utilizzo del digitale nel cinema contemporaneo l’attore diventa così un soggetto «scisso, desoggettivizzato, dislocato, clonato, moltiplicato» su schermo, teso nel fremito di ri-soggettivarsi nel contatto con queste tecnologie di ibridazione sintetica pur sforzandosi di mantenere la tipicità del proprio quid attoriale e divistico. Pensiamo, ad esempio, alla peculiarità distintiva del lavoro del digital performer per eccellenza, Andy Serkis. Proprio in un testo volto ad analizzare gli sforzi di quest’ultimo, Andy Serkis as Actor, Body, and Gorilla: Motion Capture and the Presence of Performance, Scott Balcerzak solleva la questione di come, forse, tramite l’utilizzo delle tecniche di digital performance non ci si stia orientando alla digitalizzazione del corpo umano, bensì alla umanizzazione del corpo digitale. In sostanza Balcerzak ci dice come non sia in atto il tentativo di sopperire alla riconosciuta limitatezza del corpo attoriale nel contesto virtuale contemporaneo aumentandolo con i benefici della post-elaborazione digitale. No, per lo studioso il processo in azione è quello orientato all’estrazione di materiale utile – appunto come dal volto, atlante visibile delle emozioni e dei sentimenti - per andare ad infondere carattere umanizzante su quel doppio computerizzato che viaggia a velocità evolutiva superiore rispetto al soggetto di cui è rappresentazione alterata. Osservato da questa angolazione, quello che si sta consumando sotto i nostri occhi è uno scontro tra rapporti di forza impari. Quello attoriale è un corpo, un volto, per usare le parole di Mario Pezzella ne Il corpo assente, che è troppo fragile, precario e ottuso per rispondere in modo adeguato alle prestazioni raffinate che le macchine richiederebbero. Lo statuto della vita organica pare essere divenuto inferiore e fallace se specchiato nell’efficacia dell’elemento inorganico. L’uomo porta la croce di una sensazione che lo lega a un complesso di inadeguatezza rispetto ai suoi stessi prodotti tecnologici (topos cinematograficamente tipizzato da decenni, su tutti la Skynet di Terminator prima e la Matrice di The Matrix poi).

In Alla ricerca del corpo perduto. Perversione e metamorfosi del cinema, Alessandro Cappabianca si domanda se il corpo dell’attore non sia da sempre qualcos’altro rispetto ai soli carne, sangue, muscoli e ossa. È mai “naturale” questo corpo? Per Cappabianca nel cinema tradizionale, nell’immagine analogica, l’interprete è da sempre trascinato in territori così detti della spettralità, nell’accezione per la quale Derrida considera lo spettro, a differenza del fantasma, come un’entità in grado di mantenere dentro di sé alcune tracce materiali o impronte del soggetto originario. Nel cinema digitale, invece, il corpo spettrale è sostituito proprio dal fantasma, dove l’animazione computerizzata prende lo spazio dell’incarnazione. E di fantasmi il cinema si sta sempre più occupando, nell’impulso a metter mano a un’azione che assume i tratti della necromanzia.

Recentemente, il termine della seconda stagione della serie TV di The Mandalorian, ambientata nell’universo narrativo di Star Wars e distribuita sul finire del 2020 da Disney+, ha sollevato diversi spunti di riflessione nei confronti dell’utilizzo della facial (di rimando, digital) capture. Nell’episodio conclusivo della stagione, al culmine di un climax narrativo che segue una progressiva escalation di intrattenimento, sullo schermo vediamo apparire Luke Skywalker. Il suo volto, nel momento in cui è posto al centro dell’inquadratura, si mostra con le fattezze da trentenne dell’interprete storico Mark Hamill così come i fan della saga lo avevano lasciato al termine de Il ritorno dello Jedi, film uscito nelle sale nel distante 1983. Ma gli anni sono passati, e lo stesso Hamill ora ne conta quasi settanta. Lo stupore per la costruzione narrativa e transmediale finemente giostrata negli ultimi minuti dell’episodio lascia ben presto spazio alla sensazione di uncanny valley. L’espressione è teorizzata dallo studioso di robotica Masahiro Mori nel 1970 e si rifà al concetto secondo il quale più un oggetto artificiale tenta di assumere caratteri umanizzati più è vigile il senso di repulsione nell’occhio umano osservante. Una sorta di meccanismo di difesa del regime scopico che, teorizza sempre Mori, mette in guardia sullo statuto di oggetto riconosciuto come inanimato o senza vita di ciò che si sta osservando.

I presupposti perché l’uncanny valley si attivi nel processo di visione sono principalmente due: primo, avere conoscenza degli elementi extradiegetici che caratterizzano la diegesi (in questo caso chi guarda è consapevole dell'età attuale di Mark Hamill, unito al fatto che The Mandalorian è un prodotto contemporaneo); secondo, lo scarto tra l’elaborazione tecnologica e il reale da rappresentare è ancora marcato (chi guarda deve però possedere un occhio allenato sullo stato di una certa tipologia di rappresentazione digitale). Il volto di Luke/Hamill appare infatti stranamente sfumato, dai contorni che paiono rievocare un tipico effetto flou nella messa a fuoco tra la testa del personaggio e lo sfondo, mentre occhi particolarmente vitrei si uniscono a una sincronia facciale alquanto dubbia, sintomo di un processo evolutivo del digitale ancora in divenire.

Parlavamo però dei fantasmi cinematografici e il caso di The Mandalorian si è rivelato temporalmente il perfetto aggancio per andare a discutere di quanto nel 2016 avvenne con il personaggio del Grand Moff Tarkin di Peter Cushing in Rogue One: A Star Wars Story del regista Gareth Edwards. The Mandalorian presenta differenti punti di contatto con Rogue One e proprio per quanto concerne l’elaborazione del corpo digitale si trovano entrambi in orizzonti di sperimentazione particolarmente interessanti. Nel caso del personaggio di Luke, scannerizzazioni del volto tra presente e passato di Hamill sono state utilizzate per essere applicate secondo un processo di de-aging sopra le fattezze del corpo del performer Max Lloyd Jones così come vediamo nell’episodio citato, ai fini di un impulso che rinuncia al recasting del personaggio in virtù di esigenze più citazionistiche e di risposta al fandom che di reale necessità narrativa. Già questo sarebbe uno spunto sul quale riflettere a lungo.

La questione si rende invece più complessa per quel che riguarda Cushing. L’attore britannico è infatti venuto a mancare nel 1994, più di due decenni prima dell’uscita di Rogue One. La “resurrezione” del personaggio di Tarkin tramite elaborazione virtuale non è il primo caso riscontrabile all’interno del cinema digitale. Abbiamo casistiche precedenti con Il corvo nel 1994, con Il gladiatore nel 2000 e con Fast & Furious 7 nel 2015. È però la prima volta che questo avviene con precisa intenzione produttiva, cioè non obbligata dalle tristi contingenze delle morti degli attori durante le riprese dei film così come avvenuto negli esempi citati. In casa Lucasfilm la presenza di Tarkin è sempre stata giustificata con la senz’altro furba collocazione di Rogue One a livello narrativo nel continuum temporale di Star Wars (il film termina lì dove inizia Una nuova speranza). Ciò che però è certo è come questo placebo della continuità diegetica non possa sopperire alla rottura del primo principio dell’uncanny valley, che si attiva nel momento in cui chi osserva si rende consapevole di veder apparire sullo schermo il fantasma derridiano.

I due Tarkins: Peter Cushing (vivente) in Star Wars (1977) e la sua

I due Tarkins: Peter Cushing (vivente) in Star Wars (1977) e la sua "resurrezione" digitale in Rogue One (2016) | 20th Century Fox / Walt Disney Studios

Peter Cushing non dovrebbe essere lì e noi lo sappiamo, nonostante la tecnica elaborativa sia superiore a quella constatata in The Mandalorian, ma pur sempre distante dal raggiungimento di una perfezione capace di annullare il paradosso di uno scacco che la rappresentazione vuole muovere al reale. Siamo ora nel dominio dell’oltre-corpo, mutuando il termine di Uva, dove lo slittamento concettuale dell’uso della digital performance si cela dietro lo sforzo soverchiante di non configurarsi più come aumento espressivo di un corpo attoriale, bensì come riduzione consapevole di suscitare percezione di un’impossibilità fattuale ma travestita del verosimile. Mirando quindi a privare l’attore virtuale del lavoro della morte, così come lo chiama Cocteau. E siamo anche nel dominio del volto che il morphing a cui accennavamo è andato a cogliere da un passato strappato al corso naturale dell’esistenza, nell’atto sovversivo del digitale che per umanizzarsi si appropria di quell’ovale su cui la pratica del divismo ha fondato la propria ragion d’essere e che è l’anticamera dell’individualità attoriale.

Un digitale che s’è fatto cinema necromante ma non pronto a fare a meno del corpo ibrido rappresentante di cui ci parlava Uva, e che pure nel caso di Tarkin richiede che vi sia un performer a prestare una corporeità dalla quale partire. L’umanizzazione del virtuale sembra dunque non poter ancora coincidere con una totale disincarnazione. In Rogue One il compito di prestare il corpo sul quale innestare le scansioni delle fattezze di Cushing spetta a Guy Henry, che in un’intervista rilasciata nel 2017 al The Hollywood Reporter manifesta un atteggiamento contraddittorio o quantomeno ambivalente nei confronti del ruolo rivestito. Da una parte c’è la confusione nel dover interpretare non un personaggio, ma un attore che a sua volta pretende di essere qualcuno; dall’altra come il portare indietro Peter Cushing dal mondo dei morti sia un’operazione considerabile etica perché aderente a un preciso modello narrativo. E ancora, da un lato la volontà di non alterare o tradire la memoria recitativa di Cushing; dall’altro come sia stata terrificante un’esperienza in cui l’atto interpretativo è vincolato all’ibridazione con una strumentazione tecnica particolarmente invasiva. Il corpo attoriale pare essere divenuto un subalterno, esso stesso un esoscheletro da riconfigurare a piacimento e del quale dubitare. L’individualità, intesa come portato dell’esperienza diretta e personale - in questo caso recitativa e di esclusiva pertinenza del singolo -, cede un po’ di più il passo alla rappresentazione individuale, dove è l’immagine del singolo, anche manipolata, a rendersi richiesta sufficiente. Chiaramente la minaccia di un cinema digitale consustanziato dall’aderenza divistica nell’immaginario collettivo è dietro l’angolo, si pensi solo alla proposta vagante di scrivere nel prossimo futuro un film da zero che ponga come protagonista James Dean, morto nel 1955.

Queste considerazioni offrono il passo per guardare attentamente al cinema digitale contemporaneo, e nello specifico nell’uso che questo si adopera a fare della digital performance così come è stata trattata. Siamo di fronte a un turning point che da un’interna legittimazione tecnico-artistica (qui il nodo indissolubile raggiunto) sposta il peso della propria influenza fino a sfociare nel paradigma culturale che travalica i confini di una già trasmigrata sala cinematografica. Si approda difatti nello sterminato flusso di dati che scorre quotidianamente, ininterrottamente, nei portable devices che hanno reso lo statuto dell’immagine come forma predominante di comunicazione del nuovo millennio. Immagine manipolata, manomessa, che spesso non si accontenta di veder applicato un semplice (si fa per dire) filtro Instagram, ma che ben più spesso subisce una totale re-codifica dei pixel per restituire un risultato finale inaffidabile e volto allo sprigionare un carattere ingannevole e depistante. Pensiamo proprio ai deepfake che intervengono in modo massiccio sugli scambi di volto, in grado di mostrare tutta la propria forza alterante anche nei casi specifici di Cushing/Tarkin e Hamill/Luke, ma che soprattutto sono divenuti fenomeni di pericolosa diffusione di massa attraverso la sterminata pletora di applicazioni a portata di click che permettono di realizzarne di amatoriali.

Non occorre viaggiare molto con la fantasia per rendersi conto di quanto scottante sia il gioco al quale si sta prendendo parte quando di mezzo c’è l’immagine contraffatta, che questa sia frutto del lavoro di una major cinematografica o di un privato cittadino. Resta quindi da chiedersi per quanto ancora l’occhio si manterrà vigile, in attesa dell’inevitabile momento in cui il digitale passerà il proprio test di Turing e si farà non più doppio, ma unico sintetico e indistinguibile dall’umano.

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USA - 2021
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#2 Deep, fake
Alessio Zuccari

studia scienze dello spettacolo. Collabora attivamente nelle redazioni di Anonima Cinefili e Birdmen Magazine, oltre a ricoprire il ruolo di caporedattore nella webzine universitaria DassCinemag.

Pubblicato:
16-02-2021
Ultima modifica:
15-02-2021
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