La surreale fiera del contagio
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L'area fiera di Madrid é stata convertita in ospedale. Seguirá presto Milano. Dove finisce l'arte e inizia l'emergenza.
Lina Meruane con lo stile; Nona Fernández con la commistione di generi; Patricio Guzmán con immagini suggestive ed eleganti. Due scrittrici e un regista cileni rivisitano il tema della connessione, affidandosi a nuovi linguaggi.
In un’intervista di qualche anno fa Alejandro Zambra, poeta e scrittore cileno tra i più famosi all’estero, mi scrisse che pensava alla letteratura cilena come a una grande famiglia, perché era cresciuto leggendo la letteratura del suo paese. “Sento come se avessi padri e patrigni, un sacco di sorelle e fratelli e lontani cugini.”
Qualcosa di simile accade anche a chi non è di là, ma, per caso o per passione, si è ritrovato a fruire più opere originarie di quell’angolo di mondo. Dopo aver familiarizzato con un paio di storie, che siano romanzi o lungometraggi, si cominciano a intravedere quegli elementi ricorrenti, quei rimandi obliqui o diretti, quella serie di nodi che se all’inizio sembravano più o meno casuali poi si scoprono cruciali. È la storia nazionale ad aver lasciato traumi ineluttabili che trasfigurati continuano a riproporsi nelle opere di ingegno di artisti e intellettuali cileni? È un sentire comune dato dall’orizzonte culturale in cui queste persone hanno passato gli anni formativi delle loro vite? È semplice influenza reciproca? Non saprei, ma il gioco di ricercare punti di contatto tra diverse opere di diversi autori e autrici di provenienza cilena continua a dare grandi soddisfazioni. Qui, nello specifico, si parlerà di due scrittrici vicine per anno di nascita e carriera: Lina Meruane e Nona Fernández che Bolaño annovera tra quella genia di autrici che “promette di mangiarsi il mondo”; e un regista, Patricio Guzmán, appartenente alla generazione precedente, che ha dedicato tutta la sua produzione artistica al racconto del suo paese. In tutte e tre le loro opere incontreremo elementi comuni: l’universo, il Cile, la malattia.
Lina Meruane non è nuova all’ambientazione medica per i suoi romanzi, anzi, si direbbe che Sistema Nervoso, uscito a settembre di quest’anno per La Nuova Frontiera nella traduzione di Elisa Tramontin, sia il terzo elemento di un trittico che esplora l’essere umano in relazione alla malattia.
Il percorso è iniziato con Fruta Podrida, dove una protagonista affetta da diabete si rifiuta di seguire le indicazioni dei medici e periodicamente si lascia morire in un tentativo radicale di riappropriazione del proprio corpo. Accanto alla giovane diabetica c’è la sorella Marìa, esperta in pesticidi e produzione agricola, che cerca di tenere in vita la sorella minore e allo stesso tempo coltivare frutta perfetta. L’ambientazione si presta fin troppo facilmente a fare da sfondo a questa storia in cui glucosio e fruttosio diventano armi per combattere una battaglia di ideali che vede schierati produttività da una parte, indolenza dall’altra, salubrità contro nocività, efficienza contro incapacità, società capitalista contro individuo non conforme.
Segue Sangue Negli Occhi, il secondo romanzo a tema, dove la dimensione collettiva e sociale è poco presente, ma che di nuovo ha come protagonista una donna diabetica, espatriata negli Stati Uniti e costretta a rientrare nel suo paese di origine per curarsi. La malattia si manifesta con degli impedimenti alla vista, da qui ne consegue la decisione dell’autrice di scrivere un romanzo scuro, con poche immagini e molte descrizioni sonore. Se nel primo elemento della trilogia la protagonista si ribella al sistema sanitario, in questo ci si affida completamente e, anzi, sfrutta la sua condizione di malata per richiedere a tutti i membri della famiglia amore incondizionato e totale attenzione. In Sangue negli occhi, Meruane cerca di mostrare l’autoreferenzialità del malato attraverso il paradosso di una donna che perde la vista e diventa cieca ai bisogni degli altri.
Con Sistema Nervoso il paradigma si capovolge: invece di avere una protagonista malata in mezzo a un contesto sano, tutti i personaggi del romanzo soffrono di una qualche malattia. Si comincia con Lei, un’astrofisica che cerca di concludere la sua tesi di dottorato e per trovare tregua dall’insegnamento si auspica un’indisposizione che non tarda a palesarsi. Prosegue con Lui, un antropologo forense che vive con Lei nel paese del futuro e perde parzialmente l’udito a seguito di un incidente sul lavoro. Ci sono, ognuna con il suo capitolo dedicato, anche la malattia del fratello, il Primogenito con il vizio di spaccarsi le ossa che poi si scoprirà avere l’osteoporosi, quella della Madre, paziente oncologica salvata da una gravidanza gemellare, e del Padre, brillante medico in pensione che si fa curare in un ospedale di terz’ordine. La malattia in questo contesto diventa la norma e il dolore non è più un fatto straordinario, ma la modalità con cui il corpo comunica di essere vivo.
Meruane in Sistema Nervoso si avvale della dimostrazione per sovrabbondanza, cioè partendo dal sistema organismo, che comprende il sistema nervoso, il sistema scheletrico, il sistema immunitario e tutti i sistemi malfunzionanti dei membri famiglia al centro della narrazione, lo sovrappone a una serie di altri sistemi che va via via intersecando. Viene infatti rappresentato il sistema famiglia, con tutta la sua complessa rete di relazioni tra i membri. Il sistema di comunicazione, con i messaggi, le telefonate e gli scambi —tra il paese del futuro in cui vive Lei e il paese del passato in cui vive il resto della famiglia— che avvengono anche attraverso internet —sono infatti ricorrenti gli avvisi di errore di sistema, 404: pagina non trovata, 401: non si dispone delle autorizzazioni necessarie per accedere al server, 410: contenuto non più disponibile in rete. Ma la comunicazione è intesa anche nel senso più linguistico del termine poiché nel paese del presente e in quello del passato non si parla la stessa lingua: l’inglese fa spesso incursioni involontarie, per esempio quando Lei si dimentica di cambiare la lingua della tastiera dello smartphone e il suggeritore automatico compone frasi prive di senso che il Padre non riesce a decifrare.
C’è poi il sistema solare, campo di studio della protagonista, con i suoi buchi neri, metaforici e non. E infine c’è il sistema secondo il quale funziona il romanzo, che cerca di riprodurre strutturalmente la rete di connessioni e relazioni che intercorrono nel sistema nervoso e nel sistema famiglia. Per questo motivo la struttura non segue un percorso causa-effetto, ma è composta da frammenti che si muovono nello spazio-tempo e vengono come innescati da connessioni. Il romanzo è in questo modo lui stesso un sistema in cui le azioni e le conversazioni tra personaggi orbitano attorno a un nucleo principale che è la malattia.
Nona Fernández è stata pubblicata nel novembre dell'anno scorso da Gran vía (nella traduzione di Carlo Alberto Montalto), il titolo è Voyager e anche lei parte dalla malattia, nello specifico quella della madre della narratrice, ricoverata a seguito di uno svenimento, per arrivare a parlare di stelle e dittatura:
Nel monitor di una sala d’ospedale osservo l’attività cerebrale di mia madre. Lei è sdraiata su un lettino, ha la testa piena di elettrodi e gli occhi serrati. Ai vari stimoli che il medico le propone, il suo cervello mette in moto delle scariche elettriche. Una rete di centinaia di milioni di neuroni, intrecciati ad altri milioni di assoni e dendriti che si scambiano messaggi attraverso un sistema connettivo di molteplici trasmettitori, è ciò che si dà il caso io stia vedendo riprodotto sullo schermo. […] Un circuito di neuroni che ricorda il più complesso intrico stellare.
A cominciare da quest’immagine, di un elettroencelefalogramma che ricorda una galassia, Fernández inizia a tracciare percorsi tra memoria individuale e memoria collettiva. Se ogni bagliore provocato dall’impulso elettrico correlato all’attività sinaptica della madre corrisponde a un ricordo, allora la sua memoria è un’insieme di costellazioni; ed è proprio con una costellazione che Amnesty International vuole dedicare ai ventisei giustiziati dalla Carovana della Morte a Calama durante la dittatura cilena. La narrazione altalena tra questi due piani principali, tra le rievocazioni di episodi personali: nascita, morte, nascite e morti di diversi membri della famiglia che inevitabilmente si intrecciano con episodi della storia del Cile; e il racconto dell’adesione dell’autrice all’iniziativa constelación de los caìdos, intervallati, a loro volta, dai miti greci che si nascondono dietro ai nomi delle costellazioni e alle relative nozioni di astrologia. Alla maniera di un Sebald galattico Fernández passa con disinvoltura da Giordano Bruno al discorso di suo figlio per la ricorrenza del referendum con cui nel 1988 venne abolita la dittatura, dalla costellazione dei pesci, legati per la coda, alle corde che stringevano i sacchi contenenti i desparecidos gettati dagli aerei. Fernández unisce i puntini fino a disegnare le sonde Voyager che danno il titolo a questo breve romanzo, una novella che è anche un pamphlet sui generis, un invito accorato a non dimenticare, un’esplorazione dell’ingovernabilità dei ricordi che ci consegna l’umanissimo messaggio: nessuno vuole essere dimenticato.
Potrebbe sembrare peculiare che due opere narrative uscite a poche mesi di distanza (sia in originale che in traduzione) abbiano così tanti punti di contatto: i buchi neri dentro cui spariscono le informazioni e le storie, la disconnessione di un qualche sistema operativo, i viaggi non lineari nel tempo, una traccia ricorrente di elettricità, elettroni, sinapsi, black-out, letterali o meno. Eppure queste non sono le uniche cose che accomunano le due autrici delle opere di cui si è scritto. Entrambe nate all’inizio degli anni ’70, entrambe cilene. Probabilmente non è un caso che tutte e due abbiamo così presente un immaginario legato allo spazio e all’osservazione della volta celeste, il Cile infatti possiede quasi la metà degli istituti di osservazione astronomica del globo. Uno dei più famosi si trova nel Deserto di Atacama, il posto più arido del mondo.
Al suo interno l’indice medio di umidità si aggira sul diciotto per cento, il che comporta che ogni processo organico di decomposizione sia lento. L’abbondante presenza di sale contribuisce a mummificare i cadaveri, a conservare per lunghi periodi gli oggetti intatti, immuni al passare degli anni.
È proprio il clima arido a far sì che il cielo nel deserto sia leggero e trasparente. E questa trasparenza è ciò che permette di osservare al meglio il firmamento.
Lì sono stati uccisi e seppelliti i ventisei caìdos che sarebbero dovuti diventare una costellazione di cui parla Fernàndez, lì si trova uno degli osservatori più importanti della nazione ed è sempre lì che il regista Patricio Guzmán fa cominciare due dei suoi documentari: Nostalgia della Luce e La Memoria dell’Acqua.
Nel primo, il deserto diventa il luogo d’incontro tra tre memorie: quella di un Cile che non ha ancora avviato un processo di recupero della memoria storica relativo alla dittatura di Pinochet, quella del passato precolombiano e delle popolazioni indigene che abitavano la zona prima dell’arrivo dei coloni, e quella della terra come pianeta: la sua conformazione geologica, la sua nascita, il suo sviluppo chimico e fisico.
Nel secondo, il deserto è il punto di partenza per una riflessione sulla storia e sulla geografia cilena, a cominciare dal luogo del paese più povero d’acqua. Guzmán concentra la sua attenzione su due gruppi perseguitati, gli indigeni e le vittime della dittatura. L’acqua è l’elemento ricorrente: per le popolazioni che abitavano i fiordi della Patagonia cilena, per i dissidenti gettati nel Pacifico legati a dei binari del treno, per Jemmy Button, l’indigeno convinto ad attraversare l’Atlantico in cambio di un bottone di madreperla.
Tutti e tre questi autori ci parlano di connessioni, ognuno attraverso il proprio linguaggio: Lina Meruane con uno stile sperimentale e sofisticato, impietoso e audace; Nona Fernández attraverso la commistione di generi e una contestualizzazione spiccatamente storico-politica, Patricio Guzmán per mezzo di immagini altamente suggestive ed eleganti giustapposizioni. Ogni storia, le loro e le altre, ci parla di appartenenza, che altro non è se non quella materia più vasta di cui le connessioni sono la particella elementare. E in ogni storia di appartenenza c’è un’istanza singolare e c’è un’istanza collettiva di cui si vuole o non si vuole fare parte. Narrare una storia significa porsi in relazione a questo desiderio di appartenenza, mettersi in contatto. Offrire all’altro un modo per pensare insieme, per creare un reticolato di connessioni, che a loro volta ne generano altre creando una mappa infinita di rimandi che mescola vissuto e immaginato, narrato e ricordato, documentato e inventato, passato e futuro, sanità e malattia, democrazia e dittatura. Voci diverse che in un coro asincrono sembrano cantare la stessa ipnotica melodia.