Forme ibride e zoomorfe compongono il terreno del "terzo paesaggio" e ispirano la ricerca artistica. Storie di uomini e di animali oltre il folklore della festa.
Il carattere indeciso del ‘terzo paesaggio’ corrisponde a un’evoluzione lasciata agli insiemi degli esseri biologici che compongono il territorio in assenza di ogni decisione umana”. Così Gilles Clément nel 2005 introduceva alla lettura del suo Manifesto del Terzo Paesaggio, oltrepassando i confini della trattazione paesaggistica ed ecologica, e avviando un dibattito di carattere intersezionale sull’argomento. I luoghi abbandonati dall’uomo o le grandi aree disabitate del pianeta, qualsiasi luogo dove la produzione di massa antropogenica sia arrivata per poi dismettere la sua funzione d’uso, divengono crepe ontologiche dove rovi e sterpaglie creano una nuova dimensione con un proprio statuto.
Il campo di riflessione che questa teoria ha aperto dalla sua prima pubblicazione, poi ristampata nel 2016, ha sollecitato implicazioni politiche e sociali; continua ad attraversare anche alcune pratiche culturali, creando in apparenza una raccolta dati dal carattere etnografico e folklorico; anima il dibattito sociale, filosofico e culturale della contemporaneità con originali contributi. Le pratiche visuali non vivono di soli spazi espositivi nei centri urbani, alla ricerca di una confortante quanto retorica “bellezza”; tracciano, in alcuni casi, una nuova antropologia dove nessuna centralità è riservata alla specie umana, in cui si ridefiniscono i termini del rapporto uomo natura, attingendo a pratiche e ritualità archetipiche.
Ad un’idea del genere deve aver pensato il fotografo francese Charles Fréger, quando tra 2010 e 2011 ha realizzato Wilder Mann. In questo lavoro i soggetti ritratti sono figuranti zoomorfi di irrintracciabile definizione di specie, accomunati soltanto da una vita ai margini tra luoghi antropizzati e paesaggio incolto, o abbandonato. Provenienti dall’immaginario collettivo di diverse comunità rurali, in 70 fotografie il ritrattista francese esplora il patrimonio immateriale di 19 paesi europei, realizzando ritratti di figure non umane. Il “wilder mann”, si spiega nella pubblicazione, è il frutto dell’unione tra un orso e una donna, divenuto poi fantoccio di paglia, diavolo o mostro dalla mascelle d’acciaio, declinato secondo varianti diverse, di comunità in comunità, ma che rimane entità comune a luoghi e sistemi culturali pur molto distanti tra loro.
«Ho percepito un tocco universale in tutto questo perché molti dei diversi gruppi etnici avevano riti e tradizioni comuni tra loro, senza esserne a conoscenza » spiega lo stesso Fréger.
Non è una datazione precisa della loro comparsa a significarne il valore nel processo di riscrittura, ma la volontà di riconoscerne un senso nel ruolo rinnovato all’interno di una compagine moderna, se pur a margine della zona a cerniera tra luoghi, probabilmente in quella frattura che G. Clement riconosce come terzo paesaggio.
L’ibridazione dimostra la sua perfettibile eternità in figure dove i piani strutturali di una semantica di specie è fratturata, convergendo corpi e membra di capre, cervi, cinghiali, orsi. La contaminazione tra elementi dal valore apotropaico, corna, pelli, campane, bastoni, foglie e corteccia fanno dell’essere rappresentato l’incarnazione di un mito. Come in ogni mito sono implicati dei personaggi che agiscono in un tempo imprecisato, diverso dal tempo e dalle condizioni umane e per questo extra umani. Il personaggio esplorato da Fréger sembra un'interferenza tra il trickster e il signore degli animali. Nella letteratura etnologica e storico-religiosa il primo, personaggio astuto, ingannatore, spesso mostruoso o teriomorfe, agisce in un mondo privo di ordine, o comunque calpestando ogni norma di comportamento valida per la società che narra le loro vicende. A volte crea o fonda le cose, casualmente, perchè inseparabile dalla condizioni caotiche di uno spazio-tempo teogonico da cui sorgerà il mondo ordinato. Il secondo invece, anch’esso zoomorfo, è colui che manda e concede la selvaggina al cacciatore, lo stesso che può decidere anche di trattenerla o nasconderla.
Che siano la trasposizione materica e visuale del “ bene e del male” come le definisce Robert Malian Wilson nel volume di Fréger, puntando tutto ad una manicheistica concezione dell’operazione, o che ambiscano a salvare dall’oblio componenti folkloriche, ciò che ne resta è un apparato che risente fortemente di questa linea di sutura tra antropizzato abbandonato e inselvatichito - da non confondere con il selvatico - proteso a vivificare una ibridazione di generi.
Anche il lavoro di un’artista contemporaneo sembra orientarsi in una direzione simile, quello di Marco Barbieri - in arte DEM. Dal dipingere fabbriche e caseggiati abbandonati, al dedicarsi allo sviluppo illustrato di veri e propri bestiari moderni, la sua ricerca si è ampliata attraverso l’utilizzo di diversi media, in un sincretismo alchemico che lo porta a realizzare installazioni, dipinti e disegni, ceramiche e maschere che lui stesso indossa. Nella ricerca di una dimensione quasi del tutto selvatica, si innesca la relazione con ciò che si riallaccia a forme cultuali connesse ad antenati totemici, attraverso la pratica che l'artista sta indagando attualmente, focalizzata sulla costruzione di maschere ed abiti. Terioformi come quelle di Fréger, ottenute dall’incrocio tra materiali organici deperibili e texture vere e proprie, amplificano una ricerca di totale osmosi con entità altre. Dietro la densità dei tessuti colorati impiegati e indossati come tegumento, che richiama la funzione del tessuto come copertura e protezione, si svolge un’esperienza che si conclude con un rituale.
«Le mie installazioni composte di natura seguono il ciclo di vita e di morte. Brucio le mie costruzioni dopo giorni di lavoro intenso per riscoprire il senso antico del rito del fuoco e della trasformazione. » Si legge a riguardo del suo lavoro ABC/DEM inserito all’interno dell’archivio dell'osservatorio artistico Futuro Arcaico. È la prassi del fuoco, ancestralmente connesso a riti di purificazione o anche di passaggio a concludere il processo, sorpassando del tutto il concetto di opera come significante da osservare, ponendo, invece, il gesto rituale come opera stessa.
All’interno di questa radicale messa in discussione del nostro status biologico e culturale sembra che lo slittamento in un’altra dimensione metamorfica sia uno dei percorsi suggeriti e praticati. Mappare le possibilità di questo shifting ancestrale lungo percorsi di produzione visiva è il lavoro che Futuro Arcaico sta svolgendo, con la cura di Folklore Elettrico (progetto di Jime Ghirlandi e Marco Malasomma). Attraverso la costruzione di un espandibile archivio digitale si sta occupando di raccogliere i contributi multimediali da parte di artisti che svolgono ricerche inerenti il patrimonio culturale e cultuale del territorio nazionale. Non rilevazioni residuali circa ritualità ancora sopravvissute, ma una topografia formulata secondo linguaggi contemporanei. Attraverso un inedito storytelling, l’archivio, che al momento consta al suo interno circa 60 opere su singolari identità territoriali, sta riuscendo anche nell’operazione di svincolare il linguaggio dei luoghi dai cliché fuorvianti di un certo consunto marketing turistico.
In questo solco si colloca l’esplorazione della dimensione celebrativa, carica di elementi remoti e impregnati di realismo magico, che ha dato vita al progetto editoriale indipendente La Festa dei semplici. La pubblicazione, a cura di Atelier bizzarro, progetto a carattere interdisciplinare tra art brut e etnografia e Zic Zic, piccola casa editrice focalizzata sulla narrazione di storie di luoghi e paesaggi, unisce la vocazione del libro d’artista, alla riscrittura e alla vivificazione del patrimonio immateriale.
Non la trascrizione di un oralità riguardante una ricorrenza, quella del Carnevale di Aliano, paesino lucano, ma la restituzione visiva degli accadimenti che lo caratterizzano attraverso le figure fondanti. Ancora una volta maschere cornute, bestie e demoni celebrano in prossemiche simili a danze sfrenate o a combattimenti corpo a corpo, l’osmosi uomo-bestia, che traduce la remota relazione di interdipendenza tra pastori e animali. La paura dei pastori di una possibile ribellione delle bestie dalla loro posizione di subalternità, unico mezzo di sostentamento, viene esorcizzata dall’ esperire per un giorno lo status di non-umano. La transizione non avviene in maniera disciplinata o serena, è paura ed esorcismo di rimanere posseduti dalla bestia da cui ci si fa abitare, non potendo più dominarla.
Libero e svincolato da moralità, il carnevale si svolge come il tempo primordiale in cui nasce, totalmente fuori da compromessi con la civiltà cristiana, nello spazio indeciso e sospeso tra la pietra minerale e biancastra dei Calanchi. E’ la festa dei semplici, antitetica a quella dei ricchi cortigiani signori del carnevale per eccellenza, i veneziani, una rivendicazione dunque dello stato di natura quello che la fanzine sviluppa, « a metà strada tra umanità e bestialità» , come scriveva Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, testo in parte citato all’interno della pubblicazione. «Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancor meno che le bestie ».
Come un piccolo grimorio, la issue è costituita da un apparato iconografico duplice, uno fotografico di Francesco Buccarelli e un altro corredato dalle opere dell’artista Ruggero Asnago, il cui tratto fortemente segnico, sembra attraversato dallo stesso flusso di creatività primordiale che genera la celebrazione. Testimonianza e riscrittura, un binomio ucronico che immagina diversamente la relazione intersoggettiva tra individui e luoghi, portando al centro la memoria eziologica del rapporto tra uomo e animale, tema oggi più che mai urgente nel dibattito etico e antispecista.
Alla pubblicazione si accompagna, in tiratura limitata, una musicassetta contenente una registrazione audio, Uscita delle maschere cornute, effettuata ad Aliano nel 2016 da Canti magnetici, altra realtà di ricerca e indagine.
Il progetto esplora la dimensione sonora, probabilmente quella più immateriale, concentrandosi sul suono naturale, ambientale, oltre l’umano. Attivo dal 2015 vede al suo interno esponenti della scena elettronica pugliese, Donato Epiro, Andrea Penso e Gaspare Sammartano, interessati a sviluppare una riflessione rispetto all’idea del suono e delle anomalie che presenta, specialmente in relazione ai luoghi. Il suono, dunque, non come media per realizzare un prodotto, ma come mezzo per indagare fenomeni insiti nella materia e nell’ambiente. La registrazione di suoni provenienti sia da luoghi naturali sia da non luoghi va a significare la ricerca di una decodifica di linguaggio non umano, dell’altro da sé.
Ogni tape realizzata su supporti materici, oltre che digitali, costituisce un piccolo concept album in cui confluiscono sotto la traccia sonora, paesaggio, geografia e presenze incorporee. Nei progetti fino ad oggi realizzati si vede, infatti, il coinvolgimento di figure più trasversali rispetto al musicista puro. Sono i luoghi dunque i protagonisti, proprio quegli spazi indecisi che ricorrono come costante della ricerca contemporanea, la loro voce quella che, nelle diverse release, il progetto centralizza. Dunque sono i corsi d’acqua del paesaggio della Garfaganana (Devid Ciampalini, Sorgente) o il porto della città di Taranto , o la nebbia interiore (Matthew P. Hopkins , Fog Study) a dare voce a questa hauntologia weird del sonoro (Gaspare Sammartano, Waterfront).
La disgregazione fisica di spazi artificiali e il conseguente avanzare di un'ibridazione tra macerie e natura risulta attraversare lo scenario dei linguaggi contemporanei, che della commistione di riferimenti ed esperienze fa un nuovo immaginario, ma non solo. Sembra indicare una vera modifica della realtà, un passaggio di ere che assomiglia in tutto e per tutto ad un enorme rito di transizione, connotato da una certa eredità tecnologica, come espresso in in L’era sintetica di Cristopher Preston:
«Non stiamo semplicemente lasciando l’Olocene per entrare nell’Antropocene: ci stiamo congedando per sempre dall’epoca in cui il cambiamento del pianeta era solo l’esito inatteso di un’industrializzazione incontrollata. Un mondo progettato da ingegneri e tecnici implica la nascita della prima Era Sintetica del pianeta».