Uno scambio di battute intorno alla domanda: come rifondare il lavoro culturale?
Sono tempi, questi, in cui si ha voglia di guardare oltre. Materialmente - tornare a spostarsi, viaggiare - e mentalmente, cioè rinnovare e diversificare gli argomenti del discorso. Le crisi producono compattezza, nell'organizzazione, nella collaborazione richiesta dai cittadini, e così avviene a livello narrativo, che sia il prodotto della retorica dei governanti o della schiera omogenea degli operatori culturali.
Scrittori, artisti, poeti, registi dovrebbero lavorare in direzione opposta. Non aggiungere la zavorra di vecchie argomentazioni, ma dilatare questa compattezza, sfaldare il monolite della narrativa. Per fare questo servono punte di diamante, non ferri vecchi.
Matteo Meschiari ha trascorso gli ultimi anni a ragionare "trasversalmente" e, crediamo, rientra nel novero di chi si è dotato degli strumenti adeguati per fare discorso oggi. Tra gli argomenti che propone c'è la necessità di rifondare l'immaginario - appunto guardare oltre - e questo lo si può fare solo tornando a fare i conti con la realtà dei fatti. Non si tratta necessariamente di realismo. É piuttosto lucidità, maturità e responsabilità.
Le riflessioni contenute in questa intervista sono basate su alcuni interventi di Meschiari raccolti in Rete negli ultimi tempi. Al centro della discussione - a dover sceglierne uno soltanto - c'è il lavoro culturale.
Singola - Ci piacerebbe iniziare la nostra conversazione all’insegna di un po’ di sana insofferenza nei confronti del pensiero insufficiente, e cioè di chi continua ad usare un immaginario inutilizzabile e a discernere la realtà secondo vecchie strutture del pensiero. In un post di Facebook hai elencato, in modo giocoso, una sorta di “indice del pensiero insufficiente”, che passa tra gli altri per Marx, Foucault, l’ultimo Agamben (vanno a braccetto), ma anche big data, e “l’antagonismo borghese pseudolibertario”. Hanno qualcosa in comune queste categorie? Quali pensi che possano essere le chiavi di volta su cui edificare un nuovo immaginario?
Matteo Meschiari - Su Facebook uso un linguaggio veloce, provoco, la butto un po’ in vacca, ma la realtà è molto più seria di così e in me genera qualcosa di molto più pungente di un’ovvia insofferenza. Quello che mi sembra di vedere è, in generale e con le fortunate eccezioni, un crollo della capacità analitiche degli intellettuali italiani. Messi di fronte a un problema inedito si affannano a riusare e adattare vecchie categorie spuntate, obsolete, a volte proprio inadeguate fino al ridicolo, per capire ciò che non si può capire in base all’armamentario tradizionale. È come se nel salotto di nonna si fosse materializzato un dinosauro: non posso indicargli la lettiera del gatto perché vada a farci i bisogni. Non posso, oggi, navigare l’Atlantico con una mappa del Cinquecento. Siamo in presenza di una rivoluzione copernicana e tutti i dottor Balanzone del parterre intelligente sventolano pergamene tolemaiche. Insomma, l’indizio certo del collasso di una società è il crollo dei saperi, ma qui siamo proprio nella paralisi da shock cognitivo, con tutti i corollari canonici: negazione, narcisismo, aggressività verbale, confusione epistemologica, tuttologia, stupidità. Da premi Nobel bolliti a filosofi che dovrebbero continuare a occuparsi di filologia politica (sì, filologia), stiamo ascoltando quotidianamente la qualunque, con esternazioni che somigliano a un’incontinenza urinaria. Ma i peggiori sono alcuni scrittori che, capendo di aver perso il palco, tentano in extremis la carta del populismo e vengono a insegnarci che le libertà fondamentali dell’uomo ci sono state scippate dal Leviatano. Tanto che se non la pensi come loro sulla pandemia, se non pensi che le mascherine siano “museruole” ma semplici apparecchi sanitari, in quattro e quattr’otto sei già un “civil servant” dei poteri forti. Ora, la ragione per cui dalla destra e dalla sinistra intellettuale ci vengono serviti solo piatti riscaldati di fagioli e lenticchie, è una sola: mancanza di immaginazione. La Pandemia, l’Antropocene, il Collasso climatico sono realtà troppo complesse per essere analizzate e metabolizzate senza strumenti intellettuali adeguati. Ci vorrebbero anni di letture, competenze specialistiche, e una certa prospettiva lunga nel leggere le notizie di cronaca. Ma di fronte alla complessità, a quelli che Morton chiama “iperoggetti”, non siamo completamente disarmati. Abbiamo l’immaginazione: una cosa troppo complicata e vasta da pensare la possiamo comunque provare a immaginare. A patto di avere un immaginario emancipato, soprattutto dai propri automatismi intellettuali.
S - Altrove, riconosci il bisogno di un radicale cambio di atteggiamento nel lavoro culturale per fare fronte ai gravi problemi del mondo di oggi e a venire. Si tratta di ricucire le maglie della solidarietà, del mutuo appoggio, in opposizione all’individualismo e alla concorrenza. Pensi a delle azioni concrete, conosci tentativi già compiuti in Italia o all‘estero, che vanno in questa direzione?
MM - Un esempio molto concreto lo si trova nelle pratiche dell’abitare illegale, e sto citando ovviamente le ricerche di Andrea Staid, che su queste cose potrebbe rispondere molto meglio di me. Esistono moltissime pratiche dal basso in cui l’antropologia del dono è messa al centro, pratiche che funzionano, che sono modelli di autorganizzazione non gerarchica, non autoritaria, e che sarebbero cellule staminali se solo si volesse ragionare per un reale cambiamento. Ma anche qui è importante non scivolare nel “complottisimo del Leviatano”, pensando che ci siano bande di cattivi che ci imbavagliano e tengono prigionieri in casa. Per me il problema principale è invece la tendenza omertosa, individualista e miope di un po’ tutti, nel senso che prima di lamentarci degli “Illuminati” che stanno governando il mondo dovremmo chiederci a che punto siamo in un doveroso e urgente itinerario di presa di coscienza della realtà dei fatti. A parte qualche imbecille che fa la guerra alle parole, l’Antropocene è una nuova era culturale che sta modificando a livello globale la percezione del pianeta. Tuttavia è un concetto snobbato dalle élite intellettuali, banalizzato dai furbetti degli instant book, misconosciuto dai più. Quindi credo che tra le azioni concrete dovremmo includere, e forse al primo posto, tutti i tentativi di “risveglio” delle coscienze, tentativi che possono e devono passare attraverso l’invenzione di nuove narrative del presente. Per questo per me il ruolo degli scrittori potrebbe oggi essere enorme, se solo si pensasse che, a livello individuale, esistono priorità diverse dal Premio Strega. Il problema è che solidarietà, mutuo appoggio, opposizione all’individualismo dovrebbero essere pratiche comuni nel mondo della cultura, nell’universo del libro. Invece gli ultimi quarant’anni di berlusconismo economico più il neoliberismo all’italiana rafforzato dalla crisi economica del 2008 hanno prodotto una generazione di trentenni e quarantenni che hanno il mito del padre, quello col posto fisso, quello della bolla economica e della competizione aziendale. Scrittori che impostano la propria attività in termini di carriera, di testate giornalistiche da occupare, di premi da vincere, e che sul modello ineludibile della Bocconi hanno frequentato e continuano a sostenere da “docenti” scuole di scrittura che sono delle vere e proprie aziende private a scopo di lucro. Se la classe intellettuale borghese, neoliberista, operaista col culo altrui è di questo tenore, è difficile poter parlare di presa di coscienza collettiva. Ma se sto rispondendo a queste domande è perché credo in una svolta.
S - Nei tuoi scritti emerge spesso un‘immagine, legata al collasso delle civiltà: è il sapere che si dissolve. Soltanto nel mondo europeo, negli ultimi 50 anni, abbiamo assistito al tramonto dei valori di inizio secolo, incarnati dalle generazioni più vecchie, alla fine dell’oralità contadina, per arrivare alla dissoluzione della piccola borghesia con i suoi riferimenti. Siamo ancora in quest‘ultima fase, o ne vedi una nuova?
MM - Siamo vicinissimi a una svolta, appunto. Una svolta determinata da un collasso reale, non da un’azione intellettuale. Per questo sono fiducioso. Lo spiego con un esempio. Inizio Quarantena. Il 7 marzo 2020 esco con un pezzo dove ipotizzo il rapido collasso del sistema editoriale indipendente in Italia. Reazioni: il solito apocalittico, non cambierà nulla, bisogna solo aspettare e riprendere da dove abbiamo lasciato. Tempo venti giorni cominciano a uscire le cifre del calo del fatturato, dei titoli in meno, delle redazioni ferme, dei distributori che interrompono i trasporti e chiudono i rubinetti economici. Tempo trenta giorni associazioni di settore e intellettuali illustri fanno raccolta firme per andare a a piangere dal Governo, e il Governo che fa? Se ne lava le mani riaprendo le librerie: siete aperti? È il libero mercato. Vendete o perite. Nel frattempo cassa integrazione per chi è regolarmente assunto e standby, o la strada, per tutto il sottobosco delle partite IVA e del nero. L’editoria, a parte le major che assorbiranno il colpo o i piccolissimi che lavorano per hobby, è un sistema superfragile, che campa sul debito, che in tempo di “pace economica” era già alla canna del gas, e che ora non sa che pesci pigliare. Nel mio pezzo additavo una via di uscita: il mutuo appoggio, che non significa banalmente “adotto una politica di sostegno verso l’anello più debole della filiera, i librai”, ma cerco di costruire catene solidali tra editori, tra scrittori, tra professionisti culturali che fino a oggi hanno invece ballato da soli in base all’adagio del “vinca il migliore”. Reazioni: tutto tornerà come prima, basta solo aspettare. E questo anche di fronte all’evidenza dei numeri, che sono catastrofici, e che arrivano proprio dai professionisti della filiera. È tristissimo, è doloroso, sia per la cosa in sé sia per l’incapacità di reagire, perché sappiamo benissimo che il “libraio a domicilio” non risolverà un problema strutturale che invece ha a che fare con la gestione finanziaria di tutto il sistema-libro da parte delle catene di distribuzione. Ora, la pandemia, il lockdown, sono solo un piccolo assaggio di quella crisi economica globale che verrà moltiplicata dall’effetto domino degli eventi antropocenici. Intere architetture di beni culturali, immateriali, spirituali, ove affidate al sistema economico corrente, sono destinate a crollare. Ma nei crolli c’è sempre un’implicita svolta creativa. Impossibile dire quale, per il momento. Ma la cosa certa è che nel dopo che ci attende ci saranno ancora degli scrittori che avranno delle cose da dire sul mondo. Questo mondo, non quello dei loro nonni.
S - Hai affermato che durante la scrittura del tuo libro Neghentopia tenevi sulla scrivania la sceneggiatura di Fitzcarraldo di Werner Herzog. Qualche anno fa, il regista ha pubblicato il diario privato di quei mesi di riprese nel Perù amazzonico, poi intitolato La conquista dell’inutile. Esiste anche un’altra opera con lo stesso titolo: Conquistatori dell‘inutile, di Lionel Terray, un gigante dell‘alpinismo. In entrambi c‘è l‘uomo di fronte alla natura estrema, una natura cangiante, ingannatrice, una fatamorgana capace di stordire e di far impazzire. Pensi che questo rapporto, se vuoi mistico, sia ancora possibile al giorno d‘oggi?
MM - In genere chi si pone questo problema vive in città. Ci sono miliardi di persone su questo pianeta che, volenti o nolenti, sono immersi in paesaggi non urbani dove il contatto con un’altra spazialità è la norma. Sia essa incontaminata o duramente inquinata. Personalmente non parlerei di “natura”, o “wilderness”, o “mistica”. Più banalmente, se mi si consente la boutade, parlerei di Cosmo, di cosmologia, qualcosa che cioè include ampiezze, personaggi e narrazioni che sono esattamente ciò che Herzog ha voluto rappresentare andando in Amazzonia, in Antartide o in un remoto villaggio russo. L’Altrove. Ecco, per me questo Altrove è intramontabile, è sempre lì. Il problema è che viviamo in sfere mentali a tenuta stagna che ci tengono scrupolosamente lontani dalle contaminazioni con l’alterità, l’alterità culturale e umana, l’alterità animale e vegetale, l’alterità geologica e atmosferica. Un rapporto possibile, e necessario. Perché, per tornare alla domanda dell’inizio, è impossibile rifondare un immaginario collettivo eludendo la questione cosmologica. Quindi la domanda da farsi è: che cosa ci manca più di tutto? Che cosa manca al nostro immaginario oggi? Dove sono finiti piante e animali e montagne? Qual è la mia cosmologia di riferimento?
S - Vuoi dirci qualcosa dei tuoi progetti in cantiere?
MM - Ho affidato al mio agente due romanzi, uno di popoli che si estinguono in un’era imprecisata, l’altro, per ragazzi, di un fanciullo divino che ricrea il mondo. In cantiere ho un poema narrativo dove personaggi divini, animali e umani fanno un ultimo viaggio su un vecchio treno a vapore che parte dallo Stretto di Bering ed è diretto in Scozia. Poi saggistica varia. Forse un nuovo romanzo.
(1968) è geografo, saggista e scrittore. È professore associato dell'Università di Palermo, dove insegna Geografia e Antropologia. Ha scritto diversi libri, tra cui Artico Nero (2016) e Neghentopia (2017), entrambi pubblicati per Exorma, La Grande Estinzione. Immaginare ai tempi del collasso (Armillaria 2019). Con Antonio Vena ha ideato il progetto TINA-LA GRANDE ESTINZIONE sull’immaginario collettivo nell’Antropocene.