Spettatrice dei tempi
| Copyright: Will Fisher / Flickr
Tra remake ossessivi e promesse
Abbiamo parlato delle inquietudini dei nostri tempi e di quelli che verranno con l'autore di "Essere senza casa". Una cosa, per fortuna, è certa: il futuro è carico di possibilità.
Spettatrice dei tempi
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Intervista a Gianluca Didino di
Redazione Singola
Gianluca Didino
(1985) è nato in Piemonte. Suoi scritti sono apparsi su IL, Studio, Internazionale, Nuovi Argomenti, Esquire, Il Tascabile e altre riviste. Ha curato la rubrica VALIS per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2020 ha pubblicato per minimum fax "Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani". Vive e lavora a Londra.
Siamo entrati in contatto con Gianluca Didino per una sorta di necessità. Vuoi perché negli ultimi mesi siamo incappati nelle numerosissime recensioni del suo recente saggio Essere senza casa (Minimum Fax, 2020) praticamente ogni giorno, condivise da amici e conoscenti. Vuoi perché l'opera tratta con un'impressionante puntualità temi che sono centrali nel nostro lavoro con la rivista, in particolare dove la condizione contemporanea dell'uomo passa per il suo spaesamento di fronte ai cambiamenti sistemici in corso, ma anche nell'impegno dell'autore a non fermarsi a un'analisi del presente, illustrando invece possibili vie di fuga. Da questo contatto è nata un'intervista breve che può funzionare come introduzione a una lettura del libro.
Singola - Riportiamo una tua riflessione scaturita di una frase di Slavoj Žižek che citi nella prima sezione di Essere senza casa: “il carattere inaudito dell’abbattimento delle Torri Gemelle non derivava dal fatto che l’evento fosse impossibile da prevedere – di fatto era stato previsto con inquietante chiarezza in decenni di blockbuster catastrofisti – ma dal fatto che tale avvenimento ampiamente preconizzato dai mass media fosse capitato per davvero, nella realtà.” Mettiamola giù secca: le nostre ossessioni contemporanee derivano più dall’imprevedibile o dalla puntualità delle previsioni?
Gianluca Didino - Penso all’immaginario e alla “vita reale”, qualunque cosa questa sia, come a due vasi comunicanti i cui contenuti si influenzano a vicenda: la fiction immagina il mondo, ma il mondo viene a sua volta plasmato dalla fiction. Un esempio: il cyberpunk. Quanto libri come Neuromante e film come Blade Runner hanno anticipato il futuro e quanto il futuro si è costruito modellandosi sull’immaginario cyberpunk? Lo stesso discorso si può fare per le Torri Gemelle: pensiamo al finale di Fight Club (1999) nel quale vediamo il collasso di due torri che ricordano il WTC; il film ha anticipato gli eventi di due anni dopo o i terroristi hanno preso spunto da questo immaginario? C’è una permeabilità tra interno ed esterno, immaginazione e realtà (o, per dirla con il lessico lacaniano di Žižek, tra Immaginario e Reale). Il fatto che sappiamo che certe cose capiteranno, o persino il fatto che le abbiamo immaginate molte volte, non diminuisce il senso di shock quando esse capitano per davvero, che poi è un po’ quel che Žižek vuole dire parlando dell’11 settembre quando si rifà al concetto di jouissance. Il Covid è un altro esempio di questa dinamica: un libro come Spillover di Quammen, del 2015, parlava in maniera esplicita di questa minaccia – e Quammen è un giornalista, non uno scienziato. Sapevamo che qualcosa di simile sarebbe capitato ma il fatto che sia capitato per davvero è stato ugualmente sconvolgente.
SNG - In un'altra sezione del libro, in cui affronti il tema dell’hauntology, ci conduci a una riflessione di Mark Fisher (tra i punti di partenza della tua ricerca) circa un futuro che nella nostra epoca verrebbe a scomparire, trasformando l’idea di tempo in una sorta di palude in cui siamo costretti a galleggiare. Una palude affollata di fantasmi, per l’appunto. Scrivi: “la mia generazione si trovava schiacciata tra il remake ossessivo di epoche passate e la promessa di un futuro digitale”. Puoi dirci qualcosa di più a riguardo?
GD - Le parti di Essere senza casa sull’hauntology sono piuttosto retrospettive, guardano cioè all’evoluzione del fenomeno tra il 2005 e il 2018 all’incirca, questo anche perché seguono un arco autobiografico che per me ha segnato il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Il libro però si conclude con un appello a immaginare il futuro non solo come buco nero ma anche come possibilità. Banalmente, penso che oggi la teoria fisheriana dell’hauntology sia un po’ sorpassata, o meglio che inquadri molto bene il primo ventennio del XXI secolo ma non si applichi più al presente. È vero che dal punto di vista culturale opere hauntologiche, nostalgiche o interessate agli aspetti dell’hauntologia continuano ad avere successo (penso a serie TV come Stranger Things e Dark, ad esempio), ma la categoria è ormai qualcosa che viene dato per assodato e che ha quindi perso molta della sua carica propulsiva. Penso all’hauntology come al momento di passaggio tra un mondo ancora legato all’analogico, all’autentico e alla spontaneità e un mondo ormai proiettato verso un futuro postumano. La cultura "alta", per così dire, ci è arrivata solo ora, ma ad esempio la musica era già a quel punto nel 2014 o nel 2015, quando l’elettronica futuristica aveva già spazzato via il nostalgico indie. Come dico alla fine del libro, la sfida di questo nostro tempo è immaginare il futuro in chiave non solo negativa, aprendoci al rischio e alla possibilità, più che elaborare il trauma per la perdita del passato, che era il discorso al centro dell’hauntology.
SNG - Attingiamo ancora da Essere senza casa. In due parti distinte del libro affermi: “Nessuno possiede il progresso scientifico” e “Nessuno possiede o controlla le storie” (parlando del populismo ma anche di un generale estremizzarsi della tendenza ipermodernista nel nostro modo di creare narrativa). In entrambi i casi, si tratta di una perdita di contatto con una materia stabile, forse la comprensibilità del reale o la stessa realtà. Intravedi delle pratiche (nel lavoro, nella quotidianità) che possano invertire questa perdita di controllo in modo non traumatico? Pensi insomma che sia possibile ricucire questo delicato rapporto con noi stessi e con la realtà e tornare a rapportarci in modo meno inquietante con il mondo?
GD - Sinceramente non penso sia possibile tornare indietro. Il problema con la modernità è lo stesso che evidenziava già Shakespeare nel Machbeth: ciò che è fatto non può essere dis-fatto. O, meglio ancora, ciò che è stato visto non può essere dis-visto. In altre parole una volta scoperta la complessità del mondo non si può far finta di niente e tornare a modelli più semplici e “rassicuranti”. Come dice Ray Brassier, la ragione lasciata libera da vincoli morali porta al nichilismo e, aggiungo io, alla paralisi, che è un po’ quello che sta capitando. Ma questo non significa che siamo condannati per forza a un futuro distopico: credo che il senso di ansia, persino di terrore che abbiamo vissuto in questi anni derivi anche dal fatto che non eravamo equipaggiati per affrontare sfide come l’accelerazione tecnologica o la minaccia ecologica. Ora, anche se in ritardo, stiamo cominciando a costruire categorie per pensare questi fenomeni, e se vuoi anche il mio libro è un (seppur modesto) tentativo in questa direzione. Quindi penso che il punto non sia tornare a rapportarci con il mondo in maniera meno inquietante, ma avere gli strumenti per fare i conti con questa nuova complessità. Strumenti anche e forse soprattutto psicologici: l’inquietudine fa parte dell’ipermodernità e non andrà via, anche per questo dobbiamo imparare a conviverci senza cadere nella tentazione della chiusura e della semplificazione.
SNG - Negli ultimi mesi si sono moltiplicate in Italia opere saggistiche e letterarie sui temi legati al degrado degli ecosistemi, si tratti di studi sull’Antropocene, saggi sulla psicologia della demondificazione, dell’eco-ansia e dei vari traumi da displacement, e a discendere narrazioni più o meno distopiche. È una fase passeggera o sarà destinata a marchiare i prossimi decenni?
GD - Se c’è una cosa certa dell’incertezza generalizzata che viviamo è che la crisi climatica non andrà via, anzi con ogni probabilità peggiorerà sempre più e in maniera catastrofica. Quindi è sicuramente l’inizio di una lunga, probabilmente lunghissima fase. Per questo trovo utili e interessanti i progetti come La grande estinzione che cercano di ridefinire categorie e concetti (e anche parole, termini, idee-chiave) a livello profondo, perché quello che quest’epoca ci richiede è un completo cambio di paradigma. I piccoli aggiustamenti cognitivi non serviranno a niente, in questo contesto. Il balzo evolutivo che ci è richiesto è ben più importante.
SNG - Sai già a cosa lavorerai dopo questo saggio, in quali direzioni?
GD - Non so a cosa lavorerò nello specifico, ma l’esperienza di Essere senza casa mi ha fatto capire una cosa, e cioè che per me la letteratura è come un prisma, un oggetto sfaccettato che ti permette di guardare al mondo attraverso molte facce diverse. Per questo in Essere senza casa mescolo senza soluzione di continuità autobiografia e critica culturale, filosofia e personal essay e anche un po’ di fiction, perché mi piace che l’esperienza della lettura sia una continua sorpresa, un aprirsi e chiudersi di molti mondi. Continuerò di sicuro a esplorare questa dimensione e a sperimentare in direzioni simili.
(1985) è nato in Piemonte. Suoi scritti sono apparsi su IL, Studio, Internazionale, Nuovi Argomenti, Esquire, Il Tascabile e altre riviste. Ha curato la rubrica VALIS per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2020 ha pubblicato per minimum fax "Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani". Vive e lavora a Londra.
Redazione Singola
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Pubblicato: 09-09-2020
Ultima modifica: 11-09-2020
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