Il clan - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Il clan

Le voragini lasciate dalle democrazie morenti verranno riempite dagli interessi dei gruppi privati. È iniziata l'oikocrazia?

Intervista a Fabio Armao
di Filippo Rosso
Fabio Armao

è professore di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio a Torino. È autore di Il sistema mafia (Bollati Boringhieri, 2000), Inside War (De Gruyter, 2015) e L’età dell’oikocrazia: Il nuovo totalitarismo globale dei clan (Meltemi, 2020).

Filippo Rosso

(1980), è autore del primo e forse ultimo ipertesto narrativo italiano, s000t000d (2002). Ha scritto testi e articoli su diverse riviste. Nel 2020 ha fondato Singola, di cui è caporedattore. Vive e lavora a Berlino.

Aspettiamoci un'epoca in cui gli interessi privati avranno la precedenza su quelli pubblici. È questa la teoria avanzata da Fabio Armao, che di recente ha pubblicato il libro "L'età dell'oikocrazia" per Meltemi Editore. 
Al centro di questa trasformazione c'é il clan, il modello organizzativo di appartentenza a un gruppo di interesse privato, che in modo subdolo - spesso violento - si appropria di spazi e funzioni che fino a oggi sono stati appannaggio delle istituzioni democratiche. Come ci riesce, e che scenari sono previsti? 

Filippo Rosso - Le profonde trasformazioni avvenute tra stato e capitalismo, quindi nella società, creano "spazi contesi" o "terre di nessuno". Questo è il territorio in cui si impone il clan che occupa quell'habitat ora liberato. Questo clan, con la sua logica e anche con la sua violenza, offre protezione ai suoi affiliati e riconoscimento, come si trattasse di un branco. D'altro canto, tu stesso scrivi: "il clan è una costruzione sociale, una comunità immaginata al pari dell’idea di nazione." Qual è la sua natura? È un costrutto idealistico avanzato o ancora pre-razionale e istintivo, o un’unione dei due?

Fabio Armao - Facciamo un piccolo passo indietro: il clan, innanzitutto, è la forma di organizzazione sociale più antica che si conosca; di fatto è sempre esistito e risulta, quindi, ben più naturale e più comprensibile persino dello stato moderno. Come ci insegnano gli antropologi, la società si è evoluta lungo due differenti linee di sviluppo: da poche a molte forme di struttura sociale; e da forme più semplici a forme via via più complesse. Oggi, anche come conseguenza della globalizzazione, la struttura sociale ha assunto dimensioni talmente ampie e complesse da restituire al clan una centralità che aveva sostanzialmente perso, superato da quella sorta di santa alleanza tra stato e capitalismo che ha caratterizzato almeno gli ultimi cinque secoli della storia umana. Il clan, in sostanza, viene riscoperto come organizzazione di intermediazione tra l’individuo e le istituzioni – siano esse politiche, economiche e sociali. Da qui anche l’uso del neologismo “oikocrazia”, che deriva dall’unione del termine greco kratos, potere, con oikos, che identifica la casa, ma anche la famiglia, il clan (e, non a caso, è anche la radice della parola “economia”).

Ciò a cui stiamo assistendo, allora, è una trasformazione radicale degli spazi sociali che si concretizza in una rete globale di sistemi complessi (l’inveramento di Internet, per intenderci) che interagiscono tra di loro, operano a diversi livelli, dal locale al globale, e utilizzano risorse differenti (politiche, economiche e civili), creando delle trame fitte e, a volte, indecifrabili di configurazioni territoriali specifiche. In questa prospettiva, per venire alla prima parte della tua domanda, la sovranità cessa di essere una prerogativa assoluta e indivisibile dello stato, per diventare una risorsa ripartita e talvolta condivisa all’interno di specifiche regioni o nelle periferie suburbane. In altre parole, lo stato non è più l’unico possibile referente politico e sociale. Oltre al capo del governo, anche il leader di un gruppo di ribelli o di una gang, il boss di un clan mafioso o di un cartello di narcotrafficanti mirano ad aggiudicarsi la lealtà (o quanto meno l’acquiescenza) degli individui presenti in un determinato territorio.

Per quanto riguarda poi la sua natura, hai ragione a dire che è un’unione dei due elementi che citi: da un lato, rappresenta un’evoluzione, un’innovazione … ma che attinge a legami di tipo ancestrale: la sua forza consiste nell’inventarsi, di volta in volta, una “famiglia immaginata” in grado di alimentare il senso di identità e di appartenenza dei suoi membri (che si tratti di una fazione politica, di un consiglio di amministrazione di una corporation o di una gang giovanile, vedrai sempre un leader carismatico che si circonda di una schiera di seguaci). Tale famiglia, poi, sopravvive e si rafforza grazie alla capacità di controllo sociale dei propri membri (con la violenza, ma prima ancora con il moral shaming nei confronti di chi dovesse assumere atteggiamenti contrari agli interessi del gruppo) e, soprattutto, distribuendo risorse ai propri affiliati: il clan riscopre e valorizza, anche in questo caso, il vecchio patrimonialismo; lo reinterpreta, finendo con l’alimentare a dismisura il clientelismo e la corruzione.

FR - Se appartenere a un clan significa riconoscersi come membro di una nuova "famiglia immaginata", di conseguenza e specularmente ciò significa staccarsi da una famiglia originaria (che probabilmente non assicurava i benefit di quella adottiva). Uno degli argomenti che spesso si ripete, sicuramente in modo semplicistico, per spiegare il controllo territoriale delle mafie, è l'assenza dello Stato. Pensi che le nostre famiglie originarie, le democrazie sociali o lo stato di diritto, siano ancora abitabili nelle forme che conosciamo, o siano destinate a soccombere?

FA - Hai perfettamente ragione: entrare a far parte di un clan vuol dire, a tutti gli effetti, abbandonare il contesto sociale allargato di appartenenza per entrare in un gruppo più ristretto. Nel caso delle mafie, come pure delle gang giovanili, questo passaggio è addirittura segnato da un vero e proprio rito di iniziazione, che sarebbe un errore ridurre a folklore, e che segna proprio la fuoriuscita dall’ambiente sociale di appartenenza e l’ingresso in una élite (seppure criminale). Il loro “successo”, che oggi trova drammaticamente conferma nello stillicidio quotidiano di notizie di cronaca che illustrano la capacità di diffusione di queste organizzazioni anche in contesti territoriali diversi e lontani dai luoghi d’origine, rappresenta a tutti gli effetti una misura anche del fallimento dello stato democratico nel garantire il benessere dei propri cittadini, se non addirittura il significato stesso di cittadinanza. Ma, attenzione: le mafie non sono un anti-stato, ma “uno stato nello stato”. Ciò vuol dire che nascono e si sviluppano grazie alle collusioni con parti delle istituzioni e alla connivenza compiaciuta di alcuni suoi esponenti (come, peraltro, anche di rappresentanti del mondo imprenditoriale e sociale – la cosiddetta “borghesia mafiosa”).

Se non vogliamo rischiare di soccombere, dobbiamo prendere atto che ci troviamo a combattere un “nemico interno” e non un “nemico esterno” da cui possiamo difenderci semplicemente militarizzando le strade delle nostre città o migliorando le tecnologie di videosorveglianza. Al contrario, occorre proprio ripartire dalla riaffermazione dei diritti di cittadinanza e dalle pratiche di inclusione sociale.


FR -
Un clan, come tu e altri studiosi avete affermato, ha sempre bisogno di un territorio di partenza, di una geografia: eppure un clan, come non può la politica - che nella radice ha la città, è quindi locale per definizione - aspira ad essere transnazionale. E spesso ci riesce. Puoi aiutarci a fare luce su questa bivalenza?

FA - Ripartiamo dalla considerazione che i clan si affermano come struttura di intermediazione in una società resa sempre più complessa dai processi di globalizzazione. Essi, in altri termini, agiscono da moltiplicatori del capitale sociale. Ma lo fanno in una forma che, anziché accrescere la coesione dell’intera società, alimenta i processi di “privatizzazione della comunità”, aumentando le diseguaglianze anche in termini di accesso alle risorse. Per far questo hanno bisogno di radicarsi in un determinato territorio che, come osservo nel libro riprendendo le parole di un noto geografo, rappresenta lo “scheletro della vita quotidiana”: il luogo in cui prendono forma le relazioni umane e i rapporti di produzione, in cui circolano lavoro e denaro. Questo, permettimi di insistere, vale certo per le mafie che si appropriano dei quartieri e arrivano a esercitare un controllo totalitario su di essi; ma anche per i clan economici, che si insediano nelle sedi delle grandi banche o negli uffici degli avvocati e dei commercialisti specializzati in transazioni internazionali.

Al tempo stesso, tuttavia, la mobilità spaziale e la capacità di dar vita a reti sociali transnazionali è ciò che consente ai clan di giocare un ruolo da protagonisti nei processi di globalizzazione. I clan danno vita a una nuova forma di colonizzazione, grazie alla capacità di ricreare e alimentare il senso di appartenenza alla propria famiglia immaginata in qualunque nuovo territorio di destinazione, indipendentemente dal numero, cospicuo o viceversa ridotto, dei membri che vi si sono trasferiti. In altri termini, si avvantaggiano dell’abilità nel riprodurre l’homeland nell’hostland, ampliando i confini della propria famiglia fino a ricomprendervi le diaspore come “comunità immaginate transnazionali”.

Sia chiaro: non tutti i clan devono per forza produrre una diaspora; ma il potere di un clan dipende anche dalla sua capacità di dar vita a una comunità immaginata transnazionale: pur non essendo una condizione necessaria, diventa una variabile interveniente significativa.


FR - Nel tuo studio si è riposta molta attenzione sulla società civile, quella "terza corrente" che agisce come raccordo tra la sfera pubblica (politica) e privata (l'economia). Un rapporto che non è privo di attriti: basti vedere la recente guerra scatenata dalla destra xenofoba alle ONG umanitarie o le minacce delle compagnie che operano in Africa e in America Latina ai gruppi ambientalisti. Che spazio di azione potrà avere in futuro la società civile? Pensi che assumerà forme e ruoli nuovi?

FA - L’avvento della globalizzazione ha già da qualche decennio contribuito ad ampliare l’accezione di società civile che viene ormai identificata, di volta in volta, con il mondo del volontariato, con l’ambito di intervento delle norme sociali o con la sfera d’azione e di impegno dei cittadini. Io aggiungo che se la società politica si identifica con la sfera pubblica e la società economica con la sfera privata, la società civile si afferma come un’originale combinazione tra le due. Una sfera pubblica non politica, che anzi, spesso rivendica come peculiare della propria azione collettiva proprio l’autonomia dalla politica; e insieme una sfera privata non dedita alla ricerca del profitto individuale, ma che sa farsi impresa sociale, fonte di reddito per un numero crescente di operatori dei settori del volontariato e del non-profit, come delle organizzazioni non governative.

Queste sue peculiarità le attribuiscono un ruolo di tutto rilievo nel mondo odierno – mi verrebbe da dire, il ruolo di “antidoto” alla diffusione planetaria dei clan. Già oggi abbiamo esempi di organizzazioni non governative che riescono a sfruttare il consenso e la visibilità conquistati a livello internazionale con il proprio operato per agire come gruppi di pressione nel tentativo di condizionare le politiche di governo (movimenti per i diritti civili) e – ben più di rado – le scelte industriali e finanziarie (movimenti ecologisti e antiglobalizzazione). Ma per far questo devono evitare di cadere essi stessi nella tentazione di organizzarsi secondo linee claniche. Penso, in particolare, a quei movimenti sociali (Movimento cinque stelle in Italia, Podemos in Spagna, Syriza in Grecia) che hanno finito con il trasformarsi in partiti per partecipare alla competizione elettorale e magari assumere un ruolo di governo, il che non è certo un male; ma finendo troppo spesso con il riprodurre quelle logiche di appartenenza e di fedeltà a un capo carismatico che rappresentano l’anticamera dell’appartenenza clanica.

Non ho dubbi, comunque, che le organizzazioni della società civile rimangano oggi le uniche in grado di concepire, all’interno degli spazi urbani, la creazione di veri e propri trust network: reti di fiducia, solidali, in grado di opporsi all’offerta di mediazione sociale (denaro e violenza) da parte dei gruppi criminali.


FR - Mi piacerebbe chiudere questo scambio cercando di spingerci oltre l'analisi avanzata nel tuo libro. Nell'ultima parte c'è un approfondito riferimento alla "Società del rischio" di Ulrich Beck, che, nella tua ricostruzione, sarebbe stata ormai superata, determinando l’ingresso in una terza modernità, "regressiva", "in cui la democrazia lascia il posto all'oikocrazia". Hai cercato di indicare delle pratiche capaci di correggere questa tendenza, favorire l'inclusione sociale e l'acquisizione dei diritti di cittadinanza, ma anche il microcredito, la riduzione dell'impronta ecologica, fino allo studio dell'economia sommersa. Credi in una possibilità di una riforma in tal senso, interna ai nostri sistemi di sviluppo?

FA - Mi poni una domanda davvero molto impegnativa. Credo che sia un nostro preciso dovere provare a riformare la società attuale, e in tempi brevissimi, visto i rischi posti oggi alla sopravvivenza stessa dell’intero pianeta (come la pandemia ha reso evidente a tutti noi); e per le responsabilità che abbiamo nei confronti delle generazioni future. Ho appena evidenziato il ruolo imprescindibile della società civile. Ebbene, un compito altrettanto importante spetta anche alle scuole e alle università. Mi rendo conto che può apparire retorico, ma l’educazione alla cittadinanza democratica e alla legalità – un campo nel quale i nostri governi hanno investito troppo poco e sempre meno – rappresenta il presupposto di qualunque strategia finalizzata ad arrestare il dilagare dei clan. Un compito altrettanto importante, poi, spetta alla ricerca nelle scienze sociali, per la quale auspico da tempo un vero e proprio cambio di paradigma: soltanto un approccio interdisciplinare e a più livelli (dal singolo clan, allo stato, alle dimensioni transnazionali) può aiutarci a comprendere a fondo il mondo attuale in tutta la sua complessità e consentirci di prefigurare dei modelli di analisi predittivi e preventivi, che non si accontentino di gettare nuova luce, nella migliore delle ipotesi, su ciò che è stato in passato.

 

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Fabio Armao

è professore di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio a Torino. È autore di Il sistema mafia (Bollati Boringhieri, 2000), Inside War (De Gruyter, 2015) e L’età dell’oikocrazia: Il nuovo totalitarismo globale dei clan (Meltemi, 2020).

Filippo Rosso

(1980), è autore del primo e forse ultimo ipertesto narrativo italiano, s000t000d (2002). Ha scritto testi e articoli su diverse riviste. Nel 2020 ha fondato Singola, di cui è caporedattore. Vive e lavora a Berlino.

Pubblicato:
29-06-2020
Ultima modifica:
29-09-2020
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