Un meme per conquistarli? - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Donald & Boris
Donald & Boris | Copyright: Mike Finn / Flickr

Un meme per conquistarli?

Usare il potere ludico dei social per guadagnare consenso politico.

Donald & Boris | Copyright: Mike Finn / Flickr
Intervista a Maria Cristina Antonucci
di Davide Fabi
Maria Cristina Antonucci

è dal 2010 ricercatrice in Scienze Sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ha insegnato materie sociologiche e politologiche in diversi atenei italiani. Ha pubblicato volumi, saggi e articoli su comunicazione politica, lobbying e advocacy, partecipazione politica, gruppi di pressione e terzo settore.

Davide Fabi

(1991) ha studiato Relazioni Economiche Internazionali e Digital Marketing. È comunicatore digitale con particolare predilezione per numeri, statistiche e per le nuove forme di pubblicità online.

Il meme non ha altro fine se non se stesso, la sua propagazione e la sua diffusione. La viralità però non è dettata solamente dalla condivisione negli ambienti digitali bensì dalla sua replicabilità. Il meme, infatti, non è un contenuto statico ma è il classico esempio di UGC, User Generated Content, un contenuto in grado di sapersi reinventare grazie alla creatività degli utenti.

Un qualsiasi Post Millenial, appartenente alla Generazione Z, potrebbe aggiungere che l’importante è l’utilizzo del font Impact rigorosamente in CAPS LOCK con carattere di colore bianco e bordo nero, che il testo sia equamente distribuito tra la parte superiore dell’immagine e quella inferiore e che la “low quality” dell’immagine potrebbe addirittura rappresentare un valore aggiunto.

I “memers”, negli ultimi anni, hanno invaso ogni discussione, compresa quella politica. Negli States le due aree più radicali del paese, quella Trumpiana e quella legata a Bernie Sanders, ricorrono molto spesso a questo strumento su social e forum. Una ricerca redatta da Forbes evidenzia proprio una progressiva (e un’eccessiva) politicizzazione dei meme tanto da titolarla “How Politics Ruined Memes”.

È notizia di marzo 2020 che anche Bloomberg, per insidiare il giovane elettorato di Sanders nelle primarie Dem, abbia coinvolto, in una vera e propria campagna di influencer marketing, numerosi account Instagram noti per l’attività di carattere satirico. Visti i risultati fallimentari possiamo affermare con certezza che la campagna non sia stata di successo nonostante abbia consentito la creazione di un nuovo meme, mutuando l’”OK BOOMER” in “OK BLOOMER”.

Ma in Italia? Cosa succede e cosa succederà?
Negli ultimi mesi si sono succeduti remix di “Io sono Giorgia”, sulle parole di Giorgia Meloni, il lanciafiamme di Vincenzo De Luca e lo scambio di vedute tra Matteo Salvini e Giovanni Floris sull’utilizzo della mascherina durante i selfie.

Ne parliamo con Maria Cristina Antonucci, docente in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università La Sapienza di Roma, esperta di comunicazione politica di dinamiche legate al mondo delle lobby.

Davide Fabi - Prima di addentrarci nel mondo dei meme parliamo di come la comunicazione politica negli ultimi 20 anni, grazie all’avvento della rete, sia cambiata radicalmente e, soprattutto, di come possiamo immaginare che cambierà nei prossimi 10 o 20 anni. Saranno ancora le innovazioni tecnologiche a dettare la linea delle prossime campagne elettorali e della conquista del consenso?

Maria Cristina Antonucci - La comunicazione politica ha affrontato due rivoluzioni significative nel corso degli ultimi venti anni: la prima con l’avvento del web, la seconda con i social network. Nell’ambito della prima rivoluzione, l’avvento di Internet dalla fine degli anni '90 alla metà degli anni 2000, ogni elemento della comunicazione politica, fino ad allora immaginato per lo schermo televisivo, ha dovuto essere ripensato per il contenitore del web, accessibile in modo istantaneo e globale da parte di ogni utente. Ogni messaggio politico, oltre a doversi adattare progressivamente alla grammatica del nuovo sistema della rete, è stato reso eterno nella disponibilità, accessibile ad ogni richiesta, replicabile e condivisibile al di fuori del contesto originario. Nell’ambito della seconda rivoluzione, quella dei social, dalla prima metà degli anni 2000 ad oggi, la comunicazione politica ha dovuto adattarsi alla società – apparentemente – orizzontale dei network social, alla relazionalità e alla conversazionalità dei nuovi strumenti, ponendo il politico in un contesto in cui si trova sullo stesso piano, in termini comunicativi, di ogni altro utente. L’approccio verticale della comunicazione politica, ancora presente nel modello di comunicazione sul web 1.0, ha dovuto cedere il passo ad un modello di relazione paritetico, dialogico, in grado di fornire agli utenti delle sociali narrazioni politiche sempre originali, libero nelle finalità, ma pronto a raccogliere, dal basso, interpretazioni non necessariamente positive del messaggio del politico. Un mondo nuovo, in cui navigare nel mare aperto degli umori espressi dagli utenti, con le incertezze di una non completa comprensione, di un dirottamento del messaggio, di una sua reinterpretazione e reindirizzamento.

È difficile immaginare nuove frontiere tecnologiche verso cui la comunicazione politica on line e sui social possa dirigersi. Sicuramente la frontiera della innovazione circa infrastrutture comunicative e formati diversificati di social avanzerà per tenere sempre di più gli utenti coinvolti e attivi in questo contesto. E la comunicazione politica dovrà reimparare nuovi strumenti, nuove regole e nuovi linguaggi per adattare le proprie azioni di persuasione ai nuovi contesti. Ma è anche possibile immaginare una crescente convergenza tra media tradizionali, moderni e post-moderni e quanto il progresso tecnologico sarà in grado di inventare per informare e comunicare con gli utenti della rete. Un modello di convergenza in cui il medesimo messaggio viene presentato sulla stampa, in televisione, sul web, nei social con modalità diversificate e sensibili allo strumento, ma efficaci nella stessa ricerca del consenso degli utenti. E la sfida per questa convergenza intenzionale di orientamenti della comunicazione politica, declinata in modalità multicanale e multimediale, risiede nell’evitare la replicazione del messaggio, individuando piuttosto, regole di contesto e uso di linguaggi specifici e massimizzanti per gli effetti.


DF -
L’utilizzo di un registro linguistico più colloquiale da parte della classe politica, per adattarsi al linguaggio social, ha causato un generale abbassamento del livello della discussione o ha permesso a un pubblico più ampio di avvicinarsi a tematiche più complesse?

MCA - Entrambe le affermazioni sono vere: l’accessibilità del linguaggio della politica ha reso possibile condividere con un numero di cittadini più ampio idee, concetti e proposte che, in passato, erano di ristretto dominio, richiedendo un percorso di socializzazione politica portato avanti dai partiti di massa. Oggi, in ragione della semplificazione del linguaggio e anche delle idee sottostanti, non è necessario per i cittadini partecipare a riunioni di partito o percorsi di apprendimento necessari alla comprensione dei principali messaggi veicolati sui mass media, per avere una idea sulle proprie scelte elettorali. D’altro canto, questa ipersemplificazione, che non è solo di parole, è anche di modelli di elaborazione di risposte politiche, ha danneggiato la dimensione politica, limitandone il campo di azione ad un eterno presente, restringendo il campo di riflessione allo storytelling, riducendo la spinta verso nuove e impraticate soluzioni politiche, ora sostituite da proposte tecniche a breve effetto.

DF - Parlando di meme, è possibile che questi vengano utilizzati direttamente dai profili ufficiali dei politici, senza fare affidamento a pagine satellite, con il fine di costruire consenso non esclusivamente screditando l’avversario politico di turno?

MCA - I meme assolvono a differenti funzioni e la letteratura internazionale sul tema lo ha dimostrato: secondo Reime (2012) sono strumenti comunicativi per veicolare messaggi politici; Pleverti (2013) ne segnala la dimensione critica verso i politici; Heiskanen (2017) ne sottolinea l’utilità per sollecitare una partecipazione elettorale; Nowak (2016) ne riconduce il significato alla condivisione tra partecipanti con un medesimo orientamento verso politica e politici. Sicuramente la capacità dei meme di diventare essi stessi argomento conversazionale sui social rappresenta un elemento di notorietà anche per il politico considerato, che può beneficiare, per il tempo di un trending topic, della notorietà del meme. Detto questo, immagino che altri e più solidi argomenti siano ancora necessari per conquistare e costruire il consenso, al di là della diffusione dei meme, che, a mio avviso, devono essere relegati alla dimensione ludica dei social, più che annoverati all’apparato di propaganda di un leader o un partito.


DF - Infine, quanto è reale il rischio che vengano assimilate a fake news da parte di un pubblico poco digitalizzato e non in grado di comprendere un certo tipo di ironia caratteristica delle generazioni più giovani?

MCA - Direi che oramai la struttura dei meme risulti abbastanza riconoscibile anche a coloro che rientrano nella categoria, anche essa satirica, della piaga dei sessantenni su FB. Un’immagine reale e nota viene modificata dalla creatività di un testo aggiunto, di modo tale da “dirottare” il senso e il significato iconografico mediante l’aggiunta testuale, parodistica e paradossale. In questo senso, il sorgere di un vero e proprio filone di condivisione di meme strutturati con caratteristiche molto specifiche, quasi una firma d’autore, ha assunto una tale rilevanza mainstream nell’intrattenimento sui social e sul web da far escludere il travisamento da meme a fake news anche in un pubblico meno attento e assiduo.

 
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Globale - 2020
Pensiero
Maria Cristina Antonucci

è dal 2010 ricercatrice in Scienze Sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ha insegnato materie sociologiche e politologiche in diversi atenei italiani. Ha pubblicato volumi, saggi e articoli su comunicazione politica, lobbying e advocacy, partecipazione politica, gruppi di pressione e terzo settore.

Davide Fabi

(1991) ha studiato Relazioni Economiche Internazionali e Digital Marketing. È comunicatore digitale con particolare predilezione per numeri, statistiche e per le nuove forme di pubblicità online.

Pubblicato:
23-06-2020
Ultima modifica:
08-09-2020
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