Privato è politico - Singola | Storie di scenari e orizzonti
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Desire | Copyright: Andalucía Andaluía / Unsplash

Privato è politico

Il recente saggio dell'autrice, "Ripartire dal desiderio", offre una disamina attenta delle pulsioni più intime del contemporaneo. Uno scambio di battute.

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Intervista a Elisa Cuter
di Elvira Del Guercio
Elisa Cuter

è dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg. Scrive principalmente di cinema e questioni di genere, i suoi contributi sono apparsi su diverse riviste. Collabora con il Lovers Film Festival di Torino e la Berlin Feminist Film Week.

Elvira Del Guercio

studia Italianistica a Roma Tre e si occupa di cinema e serialità televisiva. Ha collaborato con alcuni festival come giurata e selezionatrice e si interessa di femminismi e studi di genere. Scrive per Cineforum e Point Blank e suoi articoli sono apparsi su Il Tascabile, Nocturno, Cinefilia Ritrovata (Cineteca di Bologna) e sulla rivista di critica cinematografica Fata Morgana Web.

I desideri delle persone che consideriamo come modelli e che stimiamo ci “contagiano”. Siamo portati a desiderare non tanto come loro ma di essere come loro, se la visione della realizzazione, felicità o dell’appagamento dell’altro suscita in noi il desiderio di emularlo per arrivare lì dov’è agisce il modello a cui ci ispiriamo. Girard chiama questo processo, questa struttura non univoca del desiderio, mediazione interna, che agisce sul medesimo piano di realtà del soggetto che desidera, incarnandosi spesso in qualcuno che ammiriamo, nel contempo nostro “rivale”. Cosa succede quando applichiamo questo meccanismo al mondo di oggi, che prolifera di schermi, riproduzioni, di immagini che inevitabilmente definiscono – e condizionano - il nostro modo di desiderare? È ciò su cui riflette Elisa Cuter in Ripartire dal desiderio (Minimum Fax), dove l’autrice, partendo dalla sua esperienza, non concedendo quasi mai tregua al racconto del suo vissuto presente e passato per farne terreno di riflessione anzitutto politica, s’interroga su questioni fondamentali quali la sottigliezza delle relazioni di potere, i femminismi, le questioni di genere.

Elisa Cuter costruisce una disamina intelligente e acuta su che cosa significhi desiderare, desiderare in una prospettiva non solo privata ma universale, che tocca lo spazio della politica e del sociale, in una società che ci impone modelli comportamentali, dogmi e moniti. Inoltre, in Ripartire dal desiderio sono perlopiù la mente e il corpo il campo d’indagine di quanto accade sul piano dell’economia, le cui conseguenze si riversano su ciò che la scrittrice chiama femminilizzazione della società, per cui, riportando le sue parole «il fatto che ora ci troviamo in una fase in cui le qualità femminili sono richieste dal mercato ci parla di una società che ha assunto le caratteristiche che erano state storicamente imposte alla parte di società̀ subordinata: quella femminile. Per questo non necessariamente il processo di femminilizzazione è una buona notizia.»

In un mondo in cui contano non tanto la qualità dell’oggetto del desiderio, ma quanto può essere desiderabile, la sua desiderabilità e il suo appeal, o quanto possa farci sentire a nostro agio, ad esempio, prendere una posizione netta e definitiva sulle cose, Cuter sceglie di abitare la contraddizione e l’ambiguità, esplorandola. Ne abbiamo parlato con l’autrice.



Elvira Del Guercio -
Ripartire dal desiderio mi ricorda il Siti della Trilogia, ma anche di Pagare o non pagare, dove l’autore, partendo dai mutamenti storico-culturali nella percezione del denaro, ci parlava di una realtà in crisi, sempre più simbolizzata, dove il trauma era possibile solo se filtrato da una lente, dall’immagine. In modo molto simile (sarà perché entrambi parlate di desiderio…) “fraternizzando” con le contraddizioni del mondo, tu analizzi le questioni di genere, la sottigliezza delle relazioni di potere, i femminismi contemporanei, e direi anche la fase di transizione che stiamo vivendo oggi. Racconti la società senza puntare il dito verso nessuno, anzi facendoti continuamente domande, ed è forse questa la cosa più stimolante. Partirei in questo senso dalla fine: perché il terrore?

Elisa Cuter - Ci sono una quantità di variabili che possono nascere non soltanto dal contesto ma anche dal desiderio stesso. Non concepisco il desiderio come una cosa pacificata o di naturale, ma anche come una riserva di negatività, un nucleo, direi, di perversione che può avere degli esiti molto belli e promettenti, ma può essere anche pericoloso.


EDG -
Le incursioni personali sono poi molto frequenti. Parti dalla tua esperienza, ma non ti limiti a svelarne aneddoti; invece, è come se non concedessi mai tregua al racconto di certi episodi, del tuo passato e vissuto presente, andando realmente fino in fondo. C’era fin dall’inizio quest’idea di unire autobiografia e saggismo?

EC - All’inizio avrei voluto evitarlo il più possibile. Non ho quasi mai scritto in prima persona; l’unica esperienza che ho avuto era stata quando Violetta Bellocchio mi aveva chiesto un saggio per il suo blog Abbiamo le prove, ed è stata un’esperienza stranissima. Sono sempre stata scettica sulla centralità dell’autobiografia, del memoir, dell’autofiction che c’è in questo periodo, soprattutto perché mi sembrava qualcosa che ci si aspetta dalle donne. Io volevo cercare di fare qualcosa di più universale possibile. In realtà, mi sono resa conto che c’erano dei luoghi in cui non sarei potuta andare se non avessi usato queste considerazioni ed esperienze personali. Quindi è stato per me un processo di messa in discussione di quelle che erano mie forme di scetticismo, o miei limiti, verso una cosa che non capivo e che mi sembrava semplicemente limitante. C’erano cose che a livello teorico non avrei saputo motivare, e per questo dovevo per forza entrare nell’esperienza e in realtà sono proprio le parti con cui la gente si riesce a relazionare e identificare maggiormente. Il fatto che l’esperienza personale possa essere la chiave d’accesso per un discorso più universale e comprensibile, svolga una parte di comunicazione importante, credo sia un bell’esito.

EDG - I social e i media, le influencer, i blogger, le pagine Instagram, e chi ne ha più ne metta, pretendono di rivelarci il modo in cui vivere il nostro desiderio, il piacere sessuale, e addirittura come doverci comportare con i nostri partner. Se da un lato c’è un tentativo di normare determinati argomenti-tabù, per l’appunto parlandone, con una nonchalance e sicurezza a cui tutti “dovremmo” ambire, dall’altro non ci si può non sentire sopraffatti: io scelgo di vivere il sesso in un modo e qualcun altro mi dice che è sbagliato. Cosa ne pensi?

EC - Mi sembra che questa enfasi molto pedagogica sia, da un lato, abbastanza positiva perché finalmente si parla di determinati argomenti; poi, però, essendo un discorso che si rivolge sempre al singolo, in realtà ti fa sentire ancora più solo. Io mi sono trovata in situazioni in cui venivano messe in discussioni relazioni perché, per fare un esempio, da una parte erano state fatte battute sessiste, e questo portava le donne a pensare di aver sbagliato qualcosa, che non erano buone femministe, o non emancipate. Penso che un atteggiamento vigile sia utile, ma non con un approccio fortemente normativo che impedisca di considerare tutta una serie di zone grigie che effettivamente esistono. In questo modo non si capisce prima di tutto per sé stessi cosa è accettabile, quali sono i limiti su cui non si transige o quali sono le cose che poi cambiano. La questione del cambiare è poi centrale. Io stessa sono stata molto vicina a posizioni oltranziste del femminismo mainstream, e devo dire che stavo male; la mia vita non è adesso lontana da quei principi, anzi i due poli si sono avvicinati quando ho smesso di pensare che era una battaglia che dovevo combattere da sola, che doveva esserci questa forma di normatività controllante dei miei rapporti e delle mie relazioni.


EDG -
Anche io all’inizio non capivo perché non riuscissi a identificarmi in tutte quelle posizioni incontrovertibili e in quei mantra.

EC - Sì, infatti. Poi quel meccanismo di costruzione del senso di colpa che tante donne hanno in realtà viene instillato proprio da chi ti dice che te ne devi liberare.

EDG - Nel primo capitolo citi il video Be a lady they said.., accompagnato dalla voce e performance di Cynthia Nixon, abbastanza irritante, direi; pieno di schematismi e retorico, promulga una narrazione cui siamo da sempre abituate: la donna-vittima, sempre e comunque.

EC - Anche lì ti dicono che tutte le alternative sono una gabbia o un modo per opprimerti. È interessante che siano stati fatti una serie di video che facevano una parodia del video, ma da un punto di vista maschile. Alla fine, quei diktat sono una cosa che riguarda tutta la società e dovremo a un certo punto deciderci se siamo dell’idea che smantellare il patriarcato voglia dire togliere un privilegio agli uomini o fargli un favore. A me sembra che queste due vulgate convivano in qualche strano modo all’interno del femminismo mainstream. Io penso che le donne siano vittime di una serie di circostanze, ma non capisco quanto insistere su questo aspetto possa avere delle possibilità per una proposta politica e trasformativa. E non vuol dire che dimentichi quello che ti è successo. Sarebbe interessante non limitarsi a identificarsi con la vittima, avendo costantemente bisogno di un risarcimento, chiedendoti, invece, come vorresti che fosse la società, la tua vita. Ed è tutta una questione di desiderio. In molti casi mi sembra che non sia così, che siamo così concentrati a fare l’elenco dei torti subiti che non riusciamo più a immaginarci niente.

EDG - Infatti, ed è come se le donne non riuscissero più a liberarsi dal trauma. A un certo punto scrivi che per te il desiderio è “quell’esperienza che crea un conflitto, una cesura tra soggetto e oggetto” e non credo ci sia definizione migliore. Mi ha fatto venire in mente i film di Fassbinder, di Schroeder, ma anche il cinema di Rohmer: l’attesa, la frustrazione, il desiderio incompiuto. Tutto al contempo così vivo. Oggi è raro trovare quel genere di conflitto e non c’è quasi più spazio per l’ambiguità, le narrazioni del desiderio sono diventate per lo più monocordi e statiche. C’è un cinema, o ci sono delle serie tv che, per te, oggi conservano ancora la tensione di cui parli?

EC - A me è piaciuta molto We are who we are, la serie tv di Luca Guadagnino, per il discorso che fa sulle identità che non sono fisse ma fluide, ma devo dire che mi è sembrato strano che il coronamento del rapporto tra i due protagonisti sia stato questo bacio molto romantico, e che loro siano principalmente amici, più che amanti. Mi sembra che ci sia tantissimo nelle riflessioni più recenti la presenza di storie terribili di stalking e abusi che diventano horror, come nel caso di L’uomo invisibile di Leigh Whannel, o se pensiamo a Il racconto dell’ancella. Penso poi a Fleabag, soprattutto per quanto riguarda la seconda stagione, in cui la protagonista è così ossessionata dall’amore per il prete, o I Love Dick. Tutte narrazioni da un punto di vista femminile di queste ossessioni erotiche frustrate e frustranti. Mi sembra che parlarne dal punto di vista maschile sia una cosa di cui la gente ha molta paura e a me un po’ dispiace.

Una scena da

Una scena da "I love you, daddy", di Louis C.K.

EDG - A proposito di questo, nel tuo libro fai un’analisi splendida di I Love You, Daddy di Louis C.K; devo dirle di averlo recuperato proprio di recente, trovandolo davvero puntuale e assolutamente non scontato parlando di mascolinità in crisi e rapporti di genere archetipici (come quello della Lolita) inaspettatamente rovesciati, con una regia, come tu giustamente sottolinei, attentissima a non ridurre a feticcio il corpo della protagonista, come tra l’altro fa sempre anche Woody Allen nei suoi film, che tu citi. Perché non si è parlato di questo film?

EC - Molto banalmente perché non si è potuto vedere. Penso a tutto il revisionismo che c’è adesso attorno a Woody Allen e a me la cosa che sconcerta in questi casi è soprattutto la voglia della gente di prendere posizione, di dare un giudizio su una vicenda. Io mi sento particolarmente infastidita dal dover decidere se sono innocentista o colpevolista, è una cosa di cui vorrei non vorrei occuparmi. Oggi c'è questo bisogno di decidere sulla condotta morale delle persone e quindi anche I Love You, Daddy lo puoi leggere come un tentativo di giustificarsi, ma facendo così ti perdi il senso del film e non ti chiedi cosa possa effettivamente darti. Mi sembra che tolga qualcosa agli spettatori. L’idea poi di boicottare e punire questa persona non dandogli soldi perché non vedi il suo film mi sembra vada a ridurre tutto il discorso politico a un discorso in cui ti sei rassegnato al fatto che l’unico tuo ruolo nella società sia quello di consumatore, e come spettatore ti stai privando di un’esperienza che in nessun modo dovrebbe essere confusa con l’essere colluso con ciò che riguarda gli atti di qualcuno.


EDG - A un certo punto parli anche di Hollywood di Ryan Murphy. Operazione falsamente rivoluzionaria e ipocrita che finisce col riprodurre le stesse dinamiche del mondo che cerca di soppiantare.

EC - Mi dispiace molto perché Ryan Murphy aveva fatto delle cose molto belle in precedenza con The assassination of Gianni Versace o Feud, dove pur considerando che le identità che rappresenta siano vivano in un sistema di oppressione, riesce a creare dei personaggi sfaccettati, che sono per l’appunto persone, e non semplicemente portavoce di determinate idee. E questo è un suo grande merito. Anche in Hollywood, in realtà, emerge questa vena, seppure per poco: c’è la scena in cui il personaggio di Henry Wilson, interpretato da Jim Parsons, si veste da odalisca e cerca di sedurre un attore, una scena secondo me molto bella perché inquietante e strana. Noi però siamo portati a vederla dalla parte della vittima, disturbati da questa visione grottesca e, in un qualche modo, anche se abbiamo riso, essendo una scena molto comica, dobbiamo sentirci in colpa, perché non è possibile trovare ridicola e patetica una scena dove sta avvenendo un abuso.

EDG - Volevo farti una domanda relativa all’educazione sessuale. Assente nel dibattito pubblico, nelle scuole, dove davvero si dovrebbe cominciare a fare, insomma, non se ne parla. Qualche volta su Instagram mi capita di incrociare divulgatrici, sessuologhe etc. che affrontano la questione molto apertamente. Posto che, ovviamente, non basta questo e che ci vorrebbe un vero e proprio cambiamento strutturale, che parta dalle famiglie e dai banchi di scuola, credi possa essere un buon punto di partenza? Tanto più se consideriamo che la maggior parte degli adolescenti oggi cresce sui social.

EC - Sì, anche se c’è molta confusione. A me è capitato di sentire educatori sessuali che, pur facendo un lavoro che nessun altro svolge, e quindi fornendo un servizio importante, promulgano una narrazione abbastanza svilente della sessualità sia femminile che maschile, prediligendo quasi sempre la singolarità ed eccezionalità della prima rispetto. Finché è così mi chiedo che utilità abbia. Io ho anche una serie di riserve in merito all’approccio dei sessuologi, sulla psicodinamica, sul comportamentismo, e di tutti questi approcci tecnici che alla fine finiscono per diventare normativi; non ti saprei dire come mi immaginano un’educazione sessuale nelle scuole – senza dubbio sarebbe priva di molti aspetti di sessuofobia che purtroppo ancora serpeggiano dappertutto, e che vedo anche in un approccio così biologista delle questioni sessuali: il sesso è una cosa naturale e bella che continua a dare l’idea che nella vita sia necessario trovare la persona perfetta con cui vivere una sessualità libera e felice, mentre invece il rapporto con la sessualità resta problematico. Mi spiego. Da un punto di vista psicanalitico, c’è un sintomo, ovvero la cosa che ti rende più te stessa di tutte, perché è legato al momento in cui hai incontrato per la prima volta il trauma, la cosa che non riesci a spiegarti tramite il linguaggio e il discorso ma che coinvolge il tuo corpo, che ha a che fare con qualcosa che non è umano nella dimensione in cui è umano il linguaggio. Il sintomo è la modalità con cui ti rapporti con questo momento sconvolgente, un sintomo che cambia e si adatta alle tue esigenze, ma che resta come traccia di questo incontro che è difficile da normare, e che non è riducibile all’idea che siamo tutti animali, o che c’è istinto sessuale. È il contrario: si tratta della relazione con cui l’essere umano ha con questo sottostrato animale ed è ciò che lo rende così interessante attraente e vero, e parte vitale delle persone. Ciò che continua a fare problema nella tua vita.


EDG - L’ansia del “benessere”, del “dover fare la cosa giusta” che inevitabilmente anestetizza il desiderio, la sua carica violenta e politica. Ce ne parli quando racconti di aver dovuto moderare la presentazione di un progetto autogestito sull’educazione sessuale, che poi è diventato un film. Perché, secondo te, quei ragazzi hanno mostrato solo ciò che volevano vedere?

EC - È tutto molto coerente con il fatto che viviamo in un contesto che non abitua a desiderare non mettendo in condizione di porsi certe questioni. È tutto legato alla costruzione dell’immagine di te stesso, la tua identità, che costruisci perché è ciò che ti permetterà di sopravvivere, in un sistema in cui devi sempre proporti come personaggio. Non penso che quei ragazzi siano sprovveduti e magari hanno capito meglio di me come ci si adatta al contesto in cui si vive, però non è un bel contesto e sono un po’ preoccupata.

Kevin Bacon in

Kevin Bacon in "I love dick"

EDG - In un tuo pezzo sulla serie tv I Love Dick (tratta dall’omonimo romanzo di Chris Kraus, che citi nel tuo libro) apparso su Filmidee, scrivi questa cosa bellissima: «I Love Dick sta alle donne come Lolita sta agli uomini». Ti andrebbe di spiegarcela?

EC - Lolita è uno dei miei libri preferiti. E Chris Kraus, come Nabokov, non ha paura di vedere in che luoghi di abiezione la porta l’ossessione. Io ho problematizzato la questione, chiedendomi perché Kraus sì e Nabokov no, e alla fine sono arrivata alla conclusione che sarebbe bene continuare a dire “Nabokov sì”. Quella che racconta Kraus non è un’esperienza felice né per forza necessaria – quando dico che il desiderio è molto più intellettuale che semplicemente fisico è anche per il fatto che quel libro spiega bene quanto quest’esperienza del desiderare la porti fuori da sé stessa facendole scoprire cose che vuole più per sé che per di Dick, e mi sembrava molto interessante. Il processo inverso di Lolita, dove il protagonista dove viene fagocitato da quest’attrazione, uscendone sconfitto e il libro, pur con tutti i piani metaforici che possono esserci, è anche una grande metafora di ciò che è l’America, la testimonianza di un europeo sconvolto rispetto a quanto possa essere fagocitante. Che poi è una grande metafora di quanto sta succedendo oggi. Se prendi i pezzi di Emma Gainsforth Identità, differenze e assemblaggi (Dinamopress) e Claudia Durastanti, Traduzioni, impegno e identità (Internazionale) le autrici dicono la stessa cosa in merito al fatto che il discorso che abbiamo fatto finora provenga dal modello neoliberale contemporaneo, che è totalmente di importazione americana, da cui ci è quasi impossibile districarsi perché ci sembra più inclusivo e giusto, con conseguenze che spero di avere evidenziato nel libro.

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Questo articolo è parte della serie:  Visioni
Italia - 2021
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Elisa Cuter

è dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg. Scrive principalmente di cinema e questioni di genere, i suoi contributi sono apparsi su diverse riviste. Collabora con il Lovers Film Festival di Torino e la Berlin Feminist Film Week.

Elvira Del Guercio

studia Italianistica a Roma Tre e si occupa di cinema e serialità televisiva. Ha collaborato con alcuni festival come giurata e selezionatrice e si interessa di femminismi e studi di genere. Scrive per Cineforum e Point Blank e suoi articoli sono apparsi su Il Tascabile, Nocturno, Cinefilia Ritrovata (Cineteca di Bologna) e sulla rivista di critica cinematografica Fata Morgana Web.

Pubblicato:
08-04-2021
Ultima modifica:
03-06-2021
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