Contro l'Internet delle cose
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Ninux e i progetti di una Internet autogestita.
Quando si parla di Internet ci si riferisce spesso a un dominio astratto, etereo: il termine digitale viene spesso utilizzato come opposto di fisico. Questa distinzione terminologica ci porta a dimenticare che Internet è, a tutti gli effetti, una rete materiale, fatta di cavi, antenne e centri di smistamento dati. Scrivere delle esperienze di reti wireless comunitarie sviluppatesi in Europa negli ultimi vent’anni mi ha spinto a riflettere sulla percezione parziale che, come utenti comuni, abbiamo di Internet. Costruire e mantenere la propria infrastruttura di rete rende gli utenti meno passivi: una condizione che ha un significato tanto tecnico quanto politico.
Senza entrare in particolari troppo tecnici, proviamo a spiegare il funzionamento base di Internet. La principale definizione da tenere a mente è quella di rete delle reti: un insieme di computer tra loro interconnessi. I nodi della rete interagiscono tra loro sulla base del TCP/IP o transmission control protocol / Internet protocol, il linguaggio comune che permette lo scambio di informazioni. Le reti interconnesse tra loro formano il World Wide Web.
Comunemente le reti sono costruite e gestite dagli Internet Service Providers (ISP). Gli ISP vendono i servizi internet a clienti finali in cambio di un prezzo di mercato.
Veniamo ora alle reti comunitaria senza fili, la wireless community networks. Una rete comunitaria è, semplicemente, una rete autogestita che offre internet a una determinata comunità. Nello specifico mi sono occupata delle wireless mesh network, ovvero reti nelle quali tutti gli apparecchi (o apparati) si comportano sia da client che da access point: possono dunque quindi comunicare tra di loro indistintamente, senza bisogno di alcuna centralizzazione. Ogni dispositivo router fa “da ripetitore” per tutti gli altri apparecchi ad esso vicino. La wireless mesh network rappresenta una modalità per cui una rete internet può essere gestita e utilizzata in modo autonomo e de-centralizzato da una comunità di utenti. I partecipanti stabiliscono una connessione tra di loro per comunicare liberamente e fare uso di servizi web, sulla base di accordi di natura orizzontale.
In Italia, dal 2002, l’approccio della wireless mesh network è stato adottato da Ninux, un progetto collettivo sperimentale che si propone di divulgare e promuovere l’autogestione tecnologica sul territorio nazionale. “Ninux.org è una community che ha lo scopo di realizzare in Italia delle reti wireless libere, senza scopi di lucro, e nel rispetto della filosofia open source” si legge nell’introduzione sul loro sito. La differenza con un service provider commerciale è nel tipo di accordi stipulati con l’utente finale: in una rete comunitaria non esiste un contratto commerciale, ma accordi paritari tra i membri della comunità che costruiscono, mantengono e utilizzano la rete. Ne è un esempio il Pico Peering agreement, un template di base redatto ad uso delle reti di comunità, che formalizza l’interazione tra pari su cui le community network si fondano.
«Ninux è nata quando la connessione internet non era affatto diffusa tra i cittadini italiani» mi racconta Nino Ciurleo, uno degli esponenti del progetto, che oggi fa base a Roma. «Per cui avere una rete mesh nella propria area significava un accesso a Internet, che altrimenti avrebbe avuto costi proibitivi per tanti.» Le reti Ninux esistono in moltissime località italiane: dall’Appennino Bolognese, alla Toscana, al Sud e alle Isole. Ninux è nato vent’anni fa, quando Internet era tutt’altra cosa rispetto a oggi. Anche la percezione che ne hanno gli utenti è molto diversa. L’avvento del capitalismo digitale ha modificato il nostro modo di pensare alla rete: non la immaginiamo come un’infrastruttura, ma come un servizio. Identifichiamo la totalità della rete il motore di ricerca Google o con i browser; la qualità di un contenuto diviene direttamente proporzionale alla sua ricercabilità sul motore di ricerca. «Il progetto di Ninux si basa anche sull’alfabetizzazione digitale.» mi spiega ancora Nino. «Conoscere come funziona una rete, da vicino e in modo concreto, comprenderne i meccanismi, aiuta anche a non essere semplicemente utenti passivi di u n servizio. Il network è mantenuto e operato dagli utenti stessi, che investono il loro tempo nella gestione dell’infrastruttura, senza guadagni o scopi commerciali»
I principi politici delle reti comunitarie sono l’open source, la neutralità della rete e sull’autogestione. Il documento di riferimento è il Wireless Commons Manifesto (redatto nel 2001 e sottoscritto da diversi attivisti per l’open wireless al livello mondiale), alla cui base c’è l’idea che la rete senza fili sia un bene comune globale. L’approccio comunitario può, in questo senso, incontrare diverse barriere di scalabilità tecnica.
Si può immaginare l’infrastruttura di rete mondiale autogestita a partire da singoli nodi operati individualmente?
«Diventare parte del bene comune significa essere più di un consumatore. Firmando sotto diventi un partecipante attivo in una rete che è molto di più della somma dei suoi utenti.» si legge nel Manifesto. Quella della rete autogestita non è solo una sfida tecnica, ma anche politica. Si tratta di ripensare il nostro rapporto con il web, passando da una visione di noi stessi come soggetti passivi di regole imposte dall’alto – che siano gli accordi commerciali stipulati dagli internet service providers, gli algoritmi di ricerca di Google o quelli di visibilità delle piattaforme – a soggetti attivi, gestori in prima persona di un bene comune. Autogestire richiedere uno sforzo: le reti comunitarie sono rette sul lavoro volontario e operate interamente in modo no- profit. Per questo non garantiscono un servizio minimo, e negli accordi paritari tra i proprietari di nodi non sono previsti obblighi di alcun tipo. La configurazione di una rete comunitaria può apparire anacronistica in un mondo in cui Internet è una parte così pervasiva della nostra quotidianità, qualcosa di così poco ingombrante che lo portiamo in tasca, di così poco materiale da potere essere trasferito interamente su un cloud. La sfida dell’autogestione comunitaria della rete è, allora, non solo quella di scalare un’infrastruttura dal livello comunitario a quello nazionale o globale. Ma anche quella di modificare radicalmente le nostre abitudini legate alla rete, ai servizi e alle comodità che diamo per scontato, piuttosto che di regole calate dall’alto su cui non abbiamo alcuna agency o voce in capitolo. Non mancano poi i benefici concreti per le aree interne e i territori rurali.
Esistono numerosi esempi di reti comunitarie nel mondo: Guifi.net in Catalogna e nella regione di Valencia, una delle prime esperienze di community network avviata in Europa. Altermundi, organizzazione civica argentina che ha sviluppato la tecnologia LibreRouter, un hardware open source ad uso delle reti di comunità, ordinabile online e completo di istruzioni per il set-up. E poi FreiFunk in Germania, nata, come Ninux, nei primi anni 2000, o NYCMesh, che si occupa di portare la connessione in aree periferiche di New York. La forza di questi progetti sta specialmente nella capacità di colmare le diseguaglianze digitali dovute alla mancanza di investimenti dei service providers in aree remote di vari paesi.
Ho avuto modo di conversare virtualmente con Vasilis Chryssos, board member e amministratore della community network di Sarantaporo, un villaggio nella Grecia rurale. La wireless community network di Sarantaporo nasce nel 2010, quando alcuni abitanti decidono di costruire un sito web per promuovere il loro territorio. Presto si rendono conto di un ostacolo macroscopico: l’assenza di connettività Internet nel villaggio. «In quegli anni, le compagnie commerciali non investivano per portare internet nelle aree remote. Gli abitanti di Sarantaporo si sono quindi organizzati per costruire la loro rete wireless di comunità», mi racconta Vasilis. Oggi la rete si è estesa, dalla piazza centrale del villaggio di Sarantaporo, anche ad altre località vicine: al momento serve circa 3500 persone in dodici villaggi. Gli impatti sulla comunità sono stati numerosi e profondi. «Gli abitanti sono coinvolti sia nella gestione tecnica del servizio che nel processo decisionale: gli amministratori si consultano regolarmente con la comunità locale» mi spiega Vasilis. Sarantaporo opera come non-profit, con un modello di governance decentralizzato e bottom-up. La wireless network ha permesso agli studenti più giovani di non essere isolati dai loro compagni di scuola, ai lavoratori immigrati di restare in contatto con le proprie famiglie. I contadini e gli allevatori locali hanno la possibilità di entrare in contatto con nuovi clienti e fornitori, grazie a una connessione stabile e di qualità, e di fare crescere le proprie attività. Alcuni cittadini hanno potuto affittare degli spazi ai turisti. I medici hanno la possibilità di prescrivere medicine con maggiore facilità. Per un territorio a forte emigrazione interna, come quello della Grecia centrale un internet di qualità significa ripopolamento, vitalità e maggiori opportunità economiche. «I risvolti positivi non sono solo economici» continua Vasilis. «In un villaggio come Sarantaporo, la possibilità di gestire in modo collettivo l’infrastruttura di rete crea anche occasioni di socialità. Moltissime persone anziane sono coinvolte nel progetto. Internet veloce dà loro la possibilità di restare connessi con le famiglie emigrate fuori dal villaggio, di sentirsi meno sole.» Le reti comunitarie pongono senza dubbio delle sfide di scalabilità tecnica, rispetto ai tradizionali provider. Tuttavia, rappresentano una valida alternativa per quei territori che vengono tradizionalmente esclusi dagli investimenti pubblici e privati.
«Pensiamo al nostro progetto come a un’infrastruttura costruita dai locali per i locali. Per questo ci focalizziamo molto sulla condivisione del sapere, sul potenziamento delle capacità degli abitanti di costruire, mantenere ed espandere il network.» conclude Vasilis. «Anche se adesso esistono soluzioni commerciali, continuiamo a mantenere la nostra rete, con il contributo della comunità.»