Storia di una lontananza.
Ho 40 anni. Sono nata e cresciuta a New York City, dove ho vissuto per i primi tre quarti della mia vita, a parte per aver frequentato l’università in un’altra parte degli Stati Uniti e aver trascorso un semestre in Italia alla scoperta delle mie radici. Mi sono trasferita in Scozia a 30 anni. Non sono mai tornata in visita a casa tanto spesso quanto avevo promesso ai miei genitori.
Ancora penso a New York come casa e in un certo senso lo sarà per sempre. Anche la Scozia è casa mia adesso, ma in maniera differente. Così come accoglierei ogni nuovo arrivato nella mia città come “un newyorkese”, ma sarei a disagio ad affermare che questi sia “di” New York, io non potrei mai essere scozzese – oltre al fatto che non sono etnicamente né culturalmente scozzese né britannica.
Dipende da dove si sono trascorsi gli anni della formazione. Non voglio sembrare elitaria, New York accoglie tutti – è parte della nostra identità – ma se qualcuno arriva quando ha 40 anni e ci vive fino a 71, anche se avrà superato gli anni da me trascorsi lì come nativa, io sarò ancora di lì e lui no.
Ero lì l’11 settembre. Ero lì quando Barack Obama è stato eletto presidente, lì durante l’influenza suina e la SARS. Non ero lì durante il Covid.
I miei genitori dovevano venirmi a trovare ad aprile, per la prima volta in cinque anni, ma sono stati vietati gli spostamenti. Abbiamo sperato e pianificato di andare in visita a ottobre. Negli ultimi dieci anni, quasi tutte le opportunità per una vacanza hanno sollevato la questione: “torno a casa, vado in qualche posto che mi era piaciuto e che vorrei visitare di nuovo, o vado in qualche posto nuovo?” Questo è l’eterno dilemma di chi si trasferisce.
Nel 2019 ho fatto il mio primo ritorno negli Stati Uniti senza passare per New York. È stato per i miei 40 anni, volevo approfittarne per rincontrare alcuni amici e parenti nella West Coast, la maggior parte dei quali non vedevo da almeno 8 o 10 anni. È stato un bellissimo viaggio e la mia famiglia è addirittura partita dall’East Coast per unirsi a noi per parte di esso. Nonostante ciò, abbiamo notato con senso di colpa il veloce decadimento di mia nonna e che ogni opportunità di andare a New York e vederla potrebbe essere l’ultima; se non l’ultima volta per vederla viva, perlomeno l’ultima volta che potrebbe ancora riconoscermi e ricordarsi chi sono. Pensando principalmente a lei, alla fine dell’anno scorso abbiamo deciso che avremmo iniziato a venire a New York un po’ più spesso del solito.
Siamo in una nuova era di incertezze, di contagio, di liminalità. Per mesi non ci siamo potuti nemmeno avvicinare agli anziani parenti di mio marito più di quanto non sia necessario per lasciare le buste della spesa, ci è stato consigliato di non allontanarci per più di 8 chilometri da casa (figuriamoci visitare altre parti della Scozia, e viaggiare all’estero è pura fantasia). Mia nonna ha capito che qualcosa non andava; non ha lasciato l’appartamento per mesi. Gli assistenti sanitari ancora vengono ogni tanto.
So di essere privilegiata, me la passo meglio di letteralmente miliardi di persone in tutto il mondo. Mi considero una immigrata, e anche se ho fronteggiato qualche pregiudizio professionale riguardo alle mie qualifiche da parte di qualche potenziale datore di lavoro quando sono arrivata, è nulla rispetto alle sfide di milioni, se non miliardi di persone prima di me…compresi i miei stessi antenati.
A differenza di molti statunitensi, non fantastico di discendere dalla nobiltà o qualche altra élite; sono convinta che la mia discendenza diretta sia in gran parte se non del tutto composta da contadini, per secoli andando indietro fino all’oblio. E comunque, se si va indietro nel tempo abbastanza a lungo, ognuno in vita in quel momento è l’antenato di migliaia di persone viventi, o di nessuno. Tutti i presidenti americani tranne uno (e non è Obama) sono tecnicamente discendenti di Carlo Magno, quindi c’è una possibilità che anche io lo sia! Ma sei dei miei bisnonni erano immigrati e dei due nati nel Nuovo Mondo tutti i loro genitori tranne uno avevano attraversato l’oceano dal Vecchio Mondo; alcuni da nazioni che non esistono più (in quello che è diventato la Polonia e la Lituania) o che ancora non esistevano nella loro forma attuale (l’Italia).
Lo scorso settembre sono diventata la prima persona nella mia famiglia a tornare in Polonia da quando i genitori di mia nonna l’avevano lasciata, più di 100 anni fa. Erano entrambi della cittadina che ho visitato, ma non si erano mai conosciuti prima di incontrarsi in un club per immigrati chiamato “Landesman Society” …a New York. Non hanno mai parlato in polacco o raccontato della loro terra natale ai loro figli, una dei quali era mia nonna. Né lei né mio padre hanno mai avuto il desiderio di mettere piede nel vecchio paese, di intravedere qualche scorcio del passato nelle città ricostruite o nei frammenti superstiti degli shtetls. Credo che questo provenga da un sentimento etnocentrico multigenerazionale di tradimento e trauma profondamente radicato, insito nei discendenti degli ebrei oppressi che se ne andarono prima di poter essere uccisi.
Eppure, in un qualche modo piccolo, fortunato e ironico, la demenza di mia nonna le ha fatto dimenticare di avere un pregiudizio. Non ha alcuna diffidenza istintiva quando le parlo dei miei amici polacchi, o del matrimonio a cui siamo stati, così vicino alla sua storia di origine, dopo un viaggio che sembrava epocale quasi quanto una migrazione, in una terra e indietro nel tempo.
Nel mio successivo viaggio a New York, mia cugina mi ha aiutato a proiettare le foto sulla tv di nostra nonna, così ho potuto illustrargliele come in una presentazione di diapositive. La sua capacità di concentrazione era minima, ma le è piaciuto. Ha dimenticato tutte le connotazioni negative della Polonia e anche la sua ambivalenza nei confronti di sua madre, che era una donna difficile da amare e dalla quale forse era incomprensibile essere amati, sotto qualunque forma.
Entrambi i miei nonni sono cresciuti a Brooklyn e si sono conosciuti in un circolo giovanile comunista. Dopo essersi sposati, hanno dovuto spostarsi per il Nordest molte volte a causa del lavoro di mio nonno. Sono potuti tornare a New York soltanto quando mio padre era al liceo; ciò nonostante, di tutti noi è quello con l’accento più forte. Forse perché era stato cresciuto e istruito da loro, o forse era qualche modo inconscio di affermare la sua identità ovunque andassero. Mio padre è sempre stato socievole, amichevole, aperto. Tuttora non ha alcun desiderio di visitare la Polonia, ma gli sono piaciute le foto (ha potuto quasi assaggiare i pierogi e lo zurek) e il souvenir che gli ho portato: una affascinante, sebbene vagamente offensiva, statuina di un musicista ebreo di klezmer.
Ho realizzato che se i miei antenati non avessero sentito l’attrazione per gli USA, io non sarei mai esistita – non semplicemente nel senso di essere la precisa combinazione di geni nella forma di un singolo essere umano, ma nel senso della stragrande maggioranza di ebrei spazzata via dalla faccia della terra. Forse mia madre avrebbe sposato un altro italoamericano e chiamato sua figlia con un altro nome. Ma i miei antenati se ne andarono quando era ancora possibile farsi strada oltreoceano, alla ricerca delle strade mitiche pavimentate d’oro, insieme a tutti gli altri imprenditori e ultimi arrivati, così come le “masse accalcate che anelano a respirare libere.” Erano entusiasti del mondo moderno (per i suoi tempi) o erano delusi di essere ancora poveri, ma in un luogo nuovo, dove vivevano in complessi di appartamenti anziché in fattorie? Alla fine, si pentirono della loro scelta o presero la decisione consapevole di non guardare più indietro?
Una volta i miei bisnonni siciliani tornarono nella loro cittadina, forse 40 o 50 anni dopo aver emigrato; il loro cuore batteva all’impazzata quando arrivarono alla loro fattoria o erano frustrati dalle sue dimensioni minuscole e dalla mancanza primitiva di avanzamento tecnologico? Non avrebbero mai immaginato neanche nei loro sogni più folli che un loro discendente potesse decidere di stabilirsi in Europa, rimanendo in grado di viaggiare all’estero più volte l’anno, o di mandare messaggi virtualmente infiniti da una parte all’altra dell’oceano in un istante. Anche la mia nonna ancora in vita, l’unica che è riuscita ad arrivare al Ventunesimo secolo, si meraviglia ogni volta di poter sentire la mia voce in modo cristallino al telefono, o ancor più la mia faccia in videochat.
Ho dunque capito che non ho alcun diritto a sentirmi in pena per me stessa.
Ho deciso di andarmene da New York senza pensare a conseguenze come una pandemia globale.
Oggi provo un doloroso allontanamento emotivo legato alla distanza fisica. So che anche se fossi lì a partecipare agli eventi storici mentre questi avvengono, non è come nessun’altra esperienza che abbia mai vissuto prima. Dopo qualunque altro disastro – blackout, crisi finanziarie, uragani, 11 settembre – le persone potevano unirsi, scambiarsi l’intangibile ma potente rassicurazione del conforto fisico. Il Covid ci ha privato di ciò. Senza vederlo con i miei occhi, lo capisco.
So che i miei amici stanno indossando le mascherine. Nei momenti più desolanti, hanno visto le ambulanze portare via sacchi per cadaveri. Cercavano disperatamente aria fresca, luce, farina, carta igienica. Io non ero lì.
C’è questo carcere in cui ho lavorato prima di andarmene da New York, e le persone stavano morendo lì. Ci sono ospedali dove ho lavorato: uno è finito sui giornali per il tasso di mortalità alle stelle, soprattutto tra immigrati…l’altro è vicino a un famoso parco dove un terreno è stato riutilizzato come cimitero temporaneo, c’è un ospedale vicino alla casa della mia famiglia – non è dove sono nata (anche lì le persone stanno morendo), ma è un posto dove molti di noi sono stati curati, aiutati e guariti nel corso degli anni. È di fronte al mio negozio preferito di bagel, il posto che è spesso la mia prima sosta quando torno a casa e sempre l’ultima prima di tornare all’aeroporto; il bagaglio a mano di mio marito è letteralmente pieno solo di bagel da riportare in Scozia, congelati e razionati nei successivi mesi. Se volessi, potrei fare una donazione al negozio di bagel e comprare pasti per lo staff ospedaliero. Ho pensato di usare il mio vergognoso assegno di stimolo economico della amministrazione Trump (speditomi in Scozia!) per pagarlo.
Quando in futuro tornerò a New York, non ho idea di cosa aspettarmi. La città che non dorme mai può riprendersi da qualunque tipo di tragedia. Ho pensato a quale potrebbe essere il disastro che ci batterà alla fine, se possa esistere. L’innalzamento del livello del mare, che potrebbe spazzare via posti dove ho camminato infinite volte? Disordini sociali, che mettono il vicinato l’uno contro l’altro, vivendo nella paura? Il collasso sistemico delle infrastrutture? O soltanto una semplice malattia mortale?
Ho una mappa online che ho creato quasi dieci anni fa: all’inizio per dare consigli a ospiti che venivano da fuori per partecipare al nostro matrimonio. Ricordate, New York accoglie tutti, ma non fa mai male avere una dritta su dove mangiare la migliore cheesecake. Tutti conoscono la Statua della Libertà, ma io so dove si trova una statua di Picasso, in mezzo a un complesso di palazzi. (A dire il vero, l’ho saputo da un amico che si è trasferito a New York da adulto.) È lì per tutti. Nel corso degli anni, ogni volta che venivo a sapere della chiusura di un posto sulla mia mappa personale, tendevo a lasciarlo sulla mappa, ma ad aggiungere “RIP”. Poteva essere a causa del pensionamento dei proprietari, ma la maggior parte delle volte era causato dall’aumento degli affitti e da altri effetti della gentrificazione. Quel “RIP” poteva sembrare carino o sentimentale quando era per il mio negozio di articoli da regalo preferito a Chinatown. Fa troppo male aggiungerlo su tutta la mappa, dal giardinetto a tema piratesco che potrebbe non essere mai più sicuro da toccare per un bambino, alle tre locations di una compagnia teatrale comica che non apriranno mai più le loro porte.
È vero che la gentrificazione è stato un problema a lungo termine e inevitabile; alcuni newyorkesi potrebbero aver visto le proprie famiglie come gentrificatrici e francamente solo chi è direttamente ed esclusivamente discendente dai nativi americani può considerare tutti gli altri come immigrati e intrusi. Ma c’è una differenza tra l’angosciante senso di alienazione che adesso provo quando torno a casa a Brooklyn nel vedere grattacieli con appartamenti che non potrò mai permettermi…e l’indefinito, l’indeterminato, l’insicurezza di sapere che chiunque tra i vicini dei miei genitori, i ristoratori e negozianti locali, i volontari del giardino comunale o della libreria, gli eccentrici locali… un numero qualsiasi di loro potrebbe all’improvviso morire. E io non sono lì.
La gentrificazione è un fenomeno strano. Ci sono aspetti che potrebbero verosimilmente beneficiare tutto il quartiere, come migliori servizi, un miglior trasporto pubblico, uno sviluppo della comunità. Eppure, può sembrare surreale, soffocante, essere sotto ai piedi di altra gente più ricca, che calpesta la tua vita come un piolo della sua scala al successo in un insieme diverso di aspirazioni e significati.
Quando ero piccola, la nostra vicina di casa era Marie, un’adorabile anziana signora irlandese. Mi è stato detto che lei e il marito comprarono la casa negli anni ’50 per 4000$. Dall’altro lato della sua casa c’era una famiglia irlandese-americana con sei figli: comprarono la loro casa negli anni ’60 per 12000$, e tutti dicevano che erano pazzi a pagare così tanto. Quando i miei genitori (che non sono né irlandesi né irlandesi-americani, anche se mia madre dice che tutti a New York sono irlandesi il giorno di San Patrizio e ci compra bagel verdi e cupcakes per festeggiare) comprarono la nostra casa negli anni ’70, l’eccessiva somma di 72000$ sarà sembrata oltraggiosa ai veterani dell’area. Oggi, i miei genitori sono considerati veterani, e anche se guadagno un buono stipendio, non posso in alcun modo immaginare di possedere una casa a Brooklyn, o quantomeno in nessun luogo comodo, pittoresco e desiderabile come quello in cui sono cresciuta. Sicuramente non nella nostra strada, dove i miei genitori potrebbero tranquillamente vendere la casa a venti volte di più di quanto l’hanno pagata. I nuovi arrivati sono tutte persone così ricche da poter pagare uno o due milioni di dollari e poi ristrutturare la facciata storica e gli interni. Si dice che il nostro quartiere sia una casa di riposo involontaria, poiché nessuna persona giovane può permettersi di mettere radici qui – o vivono ancora con i loro genitori, o pagano affitti esorbitanti per dividere l’appartamento con anche sette persone nella stessa condizione finanziaria. Mio marito pensa che io sia troppo pessimista quando dico che non ci potremmo mai permettere di vivere a New York; razionalmente, credo che la realtà sia che non ci potremmo mai permettere di godere dello stesso standard di vita, in un quartiere che sentirei come casa, se esistono ancora tali luoghi.
Oltre ai miei studi universitari in un’altra parte degli USA, e il già menzionato semestre in Italia, non avrei mai pensato di andarmene di nuovo da New York. Al massimo, forse avrei sviluppato alcune specialità professionali e accettato un invito per un contratto a tempo determinato in qualche altro posto interessante, come Chicago (un’altra città che amo), ma comunque ho immaginato che avrei passato la mia vita nella mia città natale. Quando sono tornata (pensando di rimanere) nel maggio del 2001, non avevo idea di quanto ancora il mio amore e la mia lealtà per la città potessero crescere, oltre che fare male.
Nel settembre del 2001 avevo appena iniziato la formazione post-laurea nell’università più vicina al World Trade Center. Le nostre speranze furono distrutte da un atto terroristico. Abbiamo vacillato, ma l’abbiamo fatto in uno spirito di solidarietà. Un “nemico” umano che minacciava il nostro modo di vivere e al quale abbiamo detto (dopo aver preso fiato come collettività) “No.” Sono andata a lavorare in una libreria vicino casa quel martedì: per ore, le persone – soprattutto single che vivevano da sole – entravano per stare insieme. Eravamo insieme come vicini, come amici, come chi è in lutto. Eravamo insieme in fila a donare il sangue, a raccogliere provviste per i soccorritori in prima linea, ad addolorarci con le famiglie dei morti. Ci siamo toccati l’un l’altro.
Il Covid ci ha rubato addirittura questo. Senza entità cosciente, né un’agenda politica o socioculturale contro cui inveire. Siamo ora in una situazione dove il lutto potrebbe avviluppare tutto il mondo. Sento come e dovrei essere a New York, ma non ci sono.
Spesso la gente mi chiede perché ho deciso di trasferirmi qui in Scozia. Pensano che mio marito fosse disinteressato ad allargare i propri orizzonti, o rifiutasse completamente di considerarlo. Non è questo il caso. Le coppie di New York si sono precipitate a sposarsi legalmente prima che gli uffici anagrafici chiudessero per il lockdown, così che i disoccupati e i sottoccupati potessero ottenere l’assicurazione sanitaria sotto l’imminente minaccia della pandemia. È peggio di tutte le miriadi di pericoli comuni dell’essere non assicurato. Il debito per spese mediche è la causa numero uno di problemi finanziari negli USA, dalle tangibili conseguenze della bancarotta, l’insolvenza, la perdita di beni eccetera all’incalcolabile pressione psicologica di sapere di non potersi letteralmente permettere di essere malati, per un numero apparentemente infinito di seri motivi.
A New York City vive più del doppio delle persone che vive nell’intera Scozia. Contrariamente ai luoghi comuni sull’essere tutti sulla stessa barca, analogie fuorvianti sullo spirito di guerra e altre banalità sulla pandemia come un livellatore o equalizzatore, niente di tutto ciò è vero. A New York il Covid ha colpito in maniera disproporzionata molte delle stesse persone che già soffrivano per le disuguaglianze: i poveri e i vulnerabili; i malati cronici e i disabili; le minoranze etniche e gli immigrati. La Scozia è in paragone un posto ideale in cui trovarsi. New York è stata un epicentro di contagi e morte.
So che suona folle, ma sento ancora che dovrei essere lì. E non ci sono.