Il grano del futuro - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Campo trattato con la minima lavorazione e la semina su sodo. Melfi, Potenza, 2022.
Campo trattato con la minima lavorazione e la semina su sodo. Melfi, Potenza, 2022.

Il grano del futuro

I cambiamenti climatici stanno cambiando la produzione di frumento in Italia, mettendo a rischio il legame storico che esiste tra le regioni del sud e questo cereale. Cosa si può fare?

Campo trattato con la minima lavorazione e la semina su sodo. Melfi, Potenza, 2022.
Sebastiano Santoro

scrive per The Submarine, e di cambiamenti climatici per Duegradi.

Sono millenni che il frumento viene seminato e raccolto nelle campagne della nostra penisola. Si può dire che il suo addomesticamento, avvenuto circa dieci mila anni fa, ha segnato il passaggio da società nomadi a società capaci di controllare l’ambiente circostante, di trasformarlo a proprio piacimento.

Il grano era una pianta imprescindibile già nelle villae romane. Lo testimonia la nomenclatura attuale di alcune qualità di grano duro – Furio Camillo, Ovidio, Cesare – nomi che rimandano col pensiero al 123 a.C. quando a Roma venne approvata la prima delle frumentationes, misure legislative che regolano la distribuzione del frumento a prezzi agevolati o gratuitamente. Molti illustri politici tentarono di correggere questi provvedimenti (Cicerone sosteneva che tale misura avrebbe potuto spingere i più poveri all’inattività), ma sembra che le frumentationes abbiano resistito per parecchi anni a causa dell’attaccamento del popolo romano a questa pianta.

In fondo non c’è nulla di cui meravigliarsi. Come ha scritto Michael Pollan in “La botanica del desiderio”, consideriamo l’addomesticamento un processo attuato sulle piante, ma la relazione tra uomo e vegetali è sempre una sorta di desiderio reciproco, un perfetto esempio di coevoluzione. Le due parti agiscono per interessi personali, ma finiscono per scambiarsi favori: cibo nutriente per l’uomo, suolo su cui attecchire per il frumento. 

Con il passare dei secoli, poi, il nostro stretto legame con questa pianta non sembra essere cambiato più di tanto. Nel 2021 in Italia sono stati consumati più di 14 milioni di tonnellate di grano, metà dei quali prodotti nel nostro paese e l’altra metà importati dall’estero (principalmente dal Canada per quanto riguarda il grano duro, e da Francia e Ungheria per quello tenero). Con il grano oggi si preparano quasi tutti gli alimenti su cui si basa la cucina nazionale. 

Come tutte le piante, il frumento ha bisogno di un equilibrio delicato per germogliare e maturare. È un cereale che nella sua fase iniziale resiste molto bene alle basse temperature. In Italia viene seminato in autunno o in inverno, e tradizionalmente non ha bisogno d’acqua perché può beneficiare delle piogge tipiche di queste due stagioni; a costo però che siano distribuite regolarmente e non siano in eccesso, perché altrimenti la pianta ne potrebbe risentire. La temperatura ottimale durante il periodo di maturazione – ovvero verso il mese di maggio, quando prende forma il chicco – deve aggirarsi intorno ai 20°C per far sì che non si interrompa il trasferimento delle sostanze nutrienti al seme. Una temperatura troppo bassa o una troppo alta potrebbero essere dannose per la qualità del grano.

È chiaro quindi che la produzione di questo cereale è fortemente influenzata dalle condizioni climatiche. Il livello di concentrazione atmosferica di anidride carbonica, l’aumento della temperatura, la variazione del regime delle precipitazioni e l’intensificarsi di fenomeni meteorologici estremi, sono elementi che condizionano fortemente la quantità e la qualità dei raccolti di grano.

La posizione geografica dell’Italia – un ponte situato tra due continenti, nel bel mezzo del Mediterraneo –  è cruciale per capire quali saranno gli scenari climatici che ci aspettano. Gli studiosi considerano il Mediterraneo un “hot spot” dei cambiamenti climatici, ovvero un luogo dove i suoi effetti si faranno sentire maggiormente che altrove. In pratica nel Mediterraneo la temperatura aumenterà del 20% in più rispetto al tasso di incremento medio del pianeta e, contrariamente a quello che succederà in altre aree comprese tra le stesse latitudini, vi sarà una riduzione delle precipitazioni. 

In altre parole, avremo più caldo e meno pioggia. Esattamente quello che è già avvenuto nel corso dell’ultimo anno. Il primo semestre del 2022 è stato il più caldo in Italia da quando sono iniziate le rilevazioni, cioè oltre due secoli fa. La temperatura media è stata di 0,76°C superiore rispetto alla media storica. Anche le precipitazioni da inizio anno sono praticamente dimezzate, con un calo in tutto il paese del 45%. Uno stravolgimento che ha pesato sia sull’ambiente – con lo scioglimento dei ghiacciai alpini e una crisi idrica che ha spinto il governo a dichiarare lo stato di emergenza in cinque regioni – sia sulle coltivazioni, dove la siccità ha già causato danni per circa tre miliardi di euro.

Per capire come il grano ha reagito a questi cambiamenti, prendiamo a titolo d’esempio il caso delle prime tre regioni per superficie coltivata a grano duro, che insieme nel 2020 hanno prodotto quasi la metà del raccolto italiano, ovvero Puglia, Sicilia e Basilicata.

Nel foggiano la parola usata maggiormente per sintetizzare l’esito della raccolta di quest’anno di grano duro è stata: “disastro”. Di media le rese sono diminuite di circa un terzo, e negli areali maggiormente colpiti si sono riscontrate diminuzioni della metà o dei due terzi delle rese medie. Le ragioni di questo calo le ha spiegate l’agronomo Marcello Martino alla rivista Terra e Vita: “La fortissima riduzione della produzione del grano duro è stata causata da numerosi eventi climatici negativi che si sono verificati durante l’intero ciclo di produzione. Dapprima, le abbondanti ed eccessive piogge nel periodo autunnale, dalla seconda metà di novembre alla prima metà di dicembre, con il conseguente ritardo delle semine di almeno un mese. Dopo, la forte siccità nel periodo invernale, con la conseguente ridotta emergenza delle piantine, che in molti campi sono cominciate a spuntare soltanto nel mese di febbraio”.

In Sicilia le cose non sono andate molto meglio. “A causa del problema delle semine tardive, a cui è subentrata una siccità prolungata praticamente fino al mese di maggio, tra le nostre aziende si è avuto un crollo del 30% della produzione di grano duro” afferma Salvatore Puglisi, presidente del consorzio Crisma che riunisce, tra produttori agricoli, centri di stoccaggio, ditte sementiere e industrie di trasformazione, circa il 10% della produzione complessiva di grano duro della regione. “Nelle zone collinari la pianta ha resistito meglio. Mentre nelle zone pianeggianti, dove l’acqua scarseggia e si soffre di più il caldo, le produzioni sono state molto basse” spiega Puglisi.

Stesso discorso per la Basilicata. “La mietitura quest’anno ha lasciato l’amaro in bocca. La siccità di maggio, con temperature intorno ai 40°C, e l’irregolare distribuzione delle piogge hanno arrestato la maturazione della spiga, e hanno fatto calare del 20-30% la produzione” sostiene Francesco Quagliarella, agronomo responsabile della conduzione di numerose aziende agricole nella zona del vulture-melfese e della piana dell’Ofanto. “Abbiamo avuto un calo sia quantitativo che qualitativo, con una granella con un livello proteico e un peso specifico particolarmente bassi”.

Insomma si è capito che quest’anno, a causa dei cambiamenti climatici, la produzione di grano è in calo quasi dappertutto. Stime provvisorie (e forse ottimistiche) della Commissione europea hanno riscontrato una riduzione del 6% rispetto allo scorso anno. Più pessimistiche invece le previsioni di Italmopa (l’associazione di categoria che rappresenta l’industria molitoria italiana), secondo cui il raccolto di frumento tenero è tra i più bassi degli ultimi cento anni, e quello di frumento duro è diminuito un po’ ovunque, soprattutto in zone dove storicamente il grano duro è una parte essenziale della vita economica, sociale e culturale delle persone: il meridione.

Tutto ciò avviene in un momento in cui i costi di produzione hanno raggiunto livelli molto alti. Gli analisti hanno rintracciato le cause in un insieme di fattori di natura congiunturale, come le interruzioni delle catene di approvvigionamento dovute alla pandemia, l’aumento dei prezzi dell’energia, fenomeni di natura speculativa, a cui si aggiungono l’aumento del prezzo dei fertilizzanti e gli eventi meteorologici estremi degli ultimi anni. “Prima, per coltivare un ettaro di terreno, ci volevano circa 700 euro. Quest’anno ci vogliono almeno 1.200 euro” spiega Puglisi. Con conseguenze rilevanti dal punto di vista economico e sociale. “Con i costi attuali, alcune aziende che hanno fatto una media di 15-20 quintali a ettaro ci sono andate a rimettere” aggiunge Quagliarella.

E il punto è che in futuro alcune situazioni che al momento possono sembrare emergenziali potrebbero diventare normalità. Uno studio del 2021 realizzato da ricercatori del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) ha valutato gli impatti dei cambiamenti climatici sul ciclo colturale e la produttività del grano e del mais in Italia. Nel farlo ha utilizzato un modello di simulazione colturale calibrato su alcune varietà italiane, utilizzando le condizioni ordinarie di gestione e proiezioni climatiche (temperature, precipitazioni, radiazione solare) ad altissima risoluzione spaziale, e considerando due scenari possibili in termini di riduzione delle emissioni climalteranti: uno intermedio, e l’altro più pessimista (“business as usual”).

Valentina Mereu, prima autrice dello studio e ricercatrice che studia le interazioni tra cambiamenti climatici e sistemi agricoli, ha evidenziato i principali risultati per quanto riguarda il grano. “In primis la maturazione anticipata di entrambe le specie di grano, sia duro che tenero, e di conseguenza rese inferiori, soprattutto in alcuni areali”. Più in dettaglio, lo studio stima che i maggiori impatti negativi in termini di rese sono previsti nelle aree dell'Italia centrale e meridionale, dove entro la fine del secolo le produzioni potrebbero diminuire di circa il 30%. Al contrario, in alcune zone della pianura padana, o comunque del nord Italia, sono previsti incrementi di produzione superiori al 10-20%.

Un altro effetto da considerare è quello dell’anidride carbonica stessa. Anche se è vero che la CO2 può avere un effetto fertilizzante sulla pianta, favorendo la fotosintesi, è provato che un’alta concentrazione di anidride carbonica può peggiorare la qualità nutrizionale del grano. “In particolare può cambiarne il contenuto proteico, la qualità di panificazione, e può inoltre ridurre il contenuto di minerali” spiega la dottoressa Mereu.

In altre parole, secondo lo studio del CMCC, si prevede che in futuro gli areali dove sarà possibile coltivare il grano duro si potrebbero spostare verso latitudini più a nord, e le regioni meridionali - che sono quelle che tradizionalmente vivono della semina e della raccolta di questa pianta - vedranno ridimensionato il proprio ruolo se non si adatteranno, con annesse conseguenze sociali ed economiche. Conseguenze che, secondo stime di Coldiretti, già si stanno facendo sentire, visto che in un decennio in Italia, soprattutto al sud, è scomparso un campo di grano su cinque, perdendo quasi mezzo milione di ettari coltivati.

In questo contesto la gestione dell’acqua sarà un fattore fondamentale. Con l’aumento della temperatura e dei periodi siccitosi, l’acqua potrebbe scarseggiare e ciò potrebbe aumentare il suo costo, convertendo questo bene comune in un elemento di competizione tra settore industriale, civile e agricolo. Insomma, “in futuro ci aspettano delle belle sfide” commenta la dottoressa Mereu, “ma abbiamo anche le conoscenze e gli strumenti per affrontarle e incrementare la resilienza e la sostenibilità delle produzioni tradizionali del nostro Paese”.

Per lungo tempo si è sostenuto che gli scenari negativi causati dai cambiamenti climatici dovrebbero suscitare in noi un sentimento di responsabilità verso le generazioni future, le quali saranno quelle che subiranno maggiormente gli impatti di un pianeta più caldo. Questo è vero. Tuttavia i cambiamenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ci insegnano che gli effetti della crisi climatica li stiamo percependo già oggi.

Il discorso ovviamente vale anche per il grano. Ma se il futuro mette spavento, può rassicurare pensare che abbiamo già degli strumenti con cui affrontarlo. Bisogna premettere che non esiste una soluzione migliore di tutte le altre, ma solo soluzioni migliori in relazione alle caratteristiche determinate di ciascun territorio. Le strategie quindi vanno scelte in base alle esigenze e ai punti critici di ciascun areale. 

Per le coltivazioni di grano tra le strategie di adattamento più diffuse c’è sicuramente la scelta varietale, ovvero la scelta della varietà di grano che meglio si adatta alle nuove condizioni climatiche. Un’altra forma di adattamento è l’adozione di specifiche tecniche colturali, come ad esempio l’irrigazione mirata dei campi, una scelta che in passato, con le normali piogge dei mesi autunnali e invernali, poteva sembrare assurda.

O ancora l’agricoltura di precisione, che promuove strumenti digitali per monitorare e ottimizzare la produzione agricola. Tecnologie di localizzazione, droni, mappe multispettrali e altri sistemi di precisione che permettono di individuare i punti del terreno dove la pianta è più sofferente o dove è necessario applicare più diserbante. Questa tecnica colturale offre l’opportunità di lavorare con un’estrema precisione e una percentuale di errore molto bassa. L’obiettivo è quello di avere un impatto ambientale minore, e produrre alimenti qualitativamente e quantitativamente migliori. Per altro verso però l’agricoltura di precisione necessita di conoscenze, e di un ingente investimento iniziale, entrambi fattori che potrebbero alimentare il processo di concentrazione che, secondo ISTAT, ha causato negli ultimi anni la scomparsa di numerose aziende di piccole dimensioni o a conduzione familiare a vantaggio di imprese più grandi.

Forse per osservare bene il rapporto che abbiamo instaurato con l’ambiente in cui viviamo, è interessante dare uno sguardo più approfondito a un’altra misura di adattamento, che è sorta il secolo scorso in America ma che pian piano si sta diffondendo anche in Italia, e che potrebbe rappresentare una svolta soprattutto per le colture in difficoltà del meridione, ovvero l’agricoltura conservativa.

Per oltre duemila anni gli agricoltori hanno pensato che fosse indispensabile arare la terra per ottenere un buon raccolto. Lavorare bene il terreno, rimescolandolo, era associato all’aumento della fertilità (e forse anche a un certo piacere estetico). Ma più il terreno viene lavorato, e più si perde sostanza organica fondamentale per la crescita delle piante; in alcuni casi può diventare compatto e poco permeabile al passaggio dell’acqua. L’agricoltura conservativa serve proprio a rompere questo circolo di lavorazione esasperata, sfruttando la capacità del suolo e delle colture di autorigenerarsi.

Secondo la FAO è necessario seguire tre principi affinché si parli di agricoltura conservativa: l’alterazione minima del suolo; la sua copertura permanente; e l’adozione di rotazioni colturali. Ho chiesto di spiegarmi in cosa consistono questi principi e quali sono i vantaggi di questa tecnica colturale a Michele Rinaldi, uno degli esperti italiani sul tema, dirigente di ricerca del CREA e responsabile di numerosi progetti di sperimentazione in materia di agricoltura conservativa. 

“L’alterazione minima del suolo significa la riduzione progressiva delle lavorazioni fino ad arrivare alla ‘non lavorazione’ per permettere il ripristino della fertilità intrinseca del terreno. La copertura permanente, invece, consiste nel lasciare in superficie i residui di coltivazioni precedenti per creare una copertura vegetale sul terreno che migliora l’infiltrazione dell’acqua e ne impedisce l’evaporazione. Serve, inoltre, a proteggere il suolo da agenti atmosferici e ridurre l’erosione. L’avvicendamento di diverse colture, infine, serve per riequilibrare le asportazioni di elementi nutritivi dal suolo e stimolare l’attività microbica”. 

Grazie all’agricoltura conservativa e ai miglioramenti che apporta al terreno (suolo più soffice e meno compatto, migliore capacità di trattenere acqua, azione delle radici e dei lombrichi), le colture di frumento possono resistere meglio alle ondate di calore dovute all’aumento della temperatura. “Quello che abbiamo osservato in alcune sperimentazioni nel foggiano - spiega Rinaldi - è che nelle annate particolarmente siccitose i campi di frumento duro che venivano seminati con la minima lavorazione producevano di più rispetto a quelli che venivano coltivati in regime convenzionale”.

In sostanza l’agricoltura conservativa sarebbe l’ideale per produrre frumento in un paese sempre più caldo e con meno acqua a disposizione. Ma oltre a essere una forma di adattamento ai cambiamenti climatici, l’agricoltura conservativa è anche una forma di mitigazione, perché permette al terreno di catturare una maggiore quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera e perché con la minore lavorazione vengono risparmiate le emissioni climalteranti dei macchinari agricoli, e quindi anche i loro costi di uso e manutenzione. 

Per quest’ultimo motivo, il passaggio dal tradizionale all’agricoltura conservativa è possibile anche ai piccoli produttori di frumento. Certo, c’è bisogno di un investimento iniziale (l’acquisto di una macchina seminatrice da sodo può variare dai 10 ai 50 mila euro) e sono necessari 3-5 anni di transizione affinché il terreno e il sistema conservativo raggiungano un equilibrio. C’è la possibilità, ad esempio, che nei primi anni erbe infestanti e parassiti aumentino. Però, superata questa fase iniziale, i benefici a medio termine sono evidenti. 

“Sono passato alla conservativa per abbassare i costi” afferma Felice Alvino, titolare di una piccola azienda agricola che produce principalmente frumento duro nella zona del vulture-melfese. Felice è giovane, ha 27 anni, lavora anche come contoterzista, e da 10 anni ha fatto questa transizione al conservativo per ridurre al minimo le spese. È stato uno dei primi nella sua zona. “I primi due o tre anni abbiamo avuto alcune difficoltà con la gestione delle erbe infestanti, poi però cambiando rotazione abbiamo risolto”. 

In Italia non esiste un dato ufficiale di quanti ettari sono coltivati a conservativa, però è possibile desumerlo dai contributi regionali previsti per questo tipo di coltivazione. Nel periodo di dieci anni, dal 2008 al 2018, in Italia siamo passati da 80 mila a 343 mila ettari coltivati con la minima lavorazione del terreno, a cui dovrebbero essere aggiunti oltre 400 mila ettari presenti in regioni che non hanno adottato i contributi. Sono cifre ancora basse, però è significativo che in un decennio si è registrato un aumento di dieci volte la cifra iniziale. 

“Secondo gli studi che abbiamo effettuato con il CREA, in Europa e nel nord Africa esiste ancora una certa resistenza all’adozione dell’agricoltura conservativa” spiega Rinaldi. Nel nostro paese le barriere principali potrebbero essere gli investimenti iniziali, che però con i costi attuali sono ammortizzabili già nel medio periodo; le caratteristiche dei terreni, poiché la conservativa è sconsigliata in terreni argillosi (secondo Rinaldi nella nostra penisola il regime conservativo sarebbe perfetto in Sicilia e Sardegna, ma anche in Puglia, Campania e Basilicata; meno in Calabria per la sua orografia); e l’età media molto alta dei titolari delle aziende agricole, che rende più difficile l’adozione di tecniche nuove che rompano con la tradizione del passato. Ma la vera spada di Damocle è il glifosate. 

La prima critica che viene mossa alla conservativa è la dipendenza da questo diserbante, che è l’unico strumento che permette la completa eliminazione di erbe infestanti. Dopo che nel 2015 l’Agenzia per la ricerca sul Cancro ha catalogato il glifosate come un «probabile cancerogeno per l’uomo», è aumentato il numero di studi che hanno cercato di attestare la cancerogenicità, che al momento non è stata ancora dimostrata con assoluta certezza. La Commissione europea ne ha autorizzato l’uso fino a dicembre 2022, dopodiché sarà necessario un parere positivo delle Autorità europee per le sostanze chimiche e per la sicurezza alimentare. Ad oggi “alternative altrettanto valide al glifosate non esistono” spiega Rinaldi, però esistono alternative parziali, come l’uso di rulli abbattitori e lo stesso avvicendamento delle colture, in quanto effettuare la giusta rotazione potrebbe diminuire il numero di piante infestanti e di parassiti. Da questo punto di vista, l’agricoltura conservativa non esclude quindi input chimici, ma poiché essa stimola le attività biologiche intrinseche del suolo, può anche essere considerata come una fase preparatoria per la successiva conversione al regime puro di agricoltura biologica.

Infine, un altro fattore che condiziona il passaggio alla conservativa è quello culturale. “Vedere i campi perfettamente puliti, sgombri da infestanti, dà una sensazione di sicurezza. Ma purtroppo non è sempre così” afferma Rinaldi. Il senso estetico che ci procura osservare un campo ben arato ha forse a che fare con la nostra attitudine al controllo. Come si legge nel libro “L’altro mondo” di Fabio Deotto, la psicologia definisce “illusione di controllo” la tendenza delle persone a sovrastimare la loro effettiva capacità di controllare gli eventi che le coinvolgono. “È probabile - scrive Deotto - che l’evoluzione abbia premiato questa distorsione cognitiva perché ci consentiva di affrontare situazioni di pericolo senza abbandonarci a una ben poco vantaggiosa disperazione”.

Il punto è che oggi esiste una vera e propria ossessione per il controllo, soprattutto nei paesi occidentali. “Controllo sul nostro futuro prossimo e remoto, sulla nostra salute, sulla nostra carriera - continua Deotto - sulle nostre emozioni, sul nostro corpo e sull’immagine che di noi mostriamo al mondo esterno (e dunque sul nostro profilo social), sulla tabella di marcia delle nostre giornate e su quello che ci ostiniamo a chiamare ‘tempo libero’, e ancora sui nostri figli e sulle loro vite”.

In fondo anche l'agricoltura è un tentativo di controllo, cioè controllo della complessità incomprensibile della natura: l’abolizione di molte specie per privilegiarne una, e creare un qualcosa di più malleabile per gli esseri umani. Ma il problema, commenta Deotto, è quando “questi strumenti ricevuti in dotazione dal nostro passato evolutivo rischiano di essere utilizzati a sproposito”.

Con le pratiche conservative il controllo del suolo non viene meno, ma è chiaramente ridotto. Dal punto di vista paesaggistico, “la sensazione visiva di un campo coltivato con pratiche conservative è quella di un minore impatto antropico” aggiunge Rinaldi. Grazie alle rotazioni la vegetazione presente sul terreno è sempre diversa; il tappeto superficiale formato dai residui colturali dona ai campi un colore giallo-bruno che maschera quello del suolo arato; la presenza di lombrichi, che scavano canalicoli in cui poi si intrufoleranno le radici o scivolerà l’acqua, è quadruplicata; l’erosione idrica del suolo è ridotta drasticamente. Con la conservativa l’uomo abdica al ruolo di controllore totalizzante dei terreni a vantaggio di una cooperazione con gli stessi vegetali; un’alleanza che, oltre a sfamarci, favorirebbe la biodiversità e la salute del suolo. Un bene insomma, perché l’evoluzione è sempre una forma di coevoluzione. 

Hai letto:  Il grano del futuro
Questo articolo è parte della serie:  Nuovo paesaggio europeo
Italia - 2022
Societá
Sebastiano Santoro

scrive per The Submarine, e di cambiamenti climatici per Duegradi.

Pubblicato:
23-08-2022
Ultima modifica:
29-07-2022
;