Quando abbiamo smesso di sognare una rete migliore?
La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica.
Karl Marx, VIII tesi su Feuerbach.
Quando abbiamo smesso di sognare una rete migliore? È stato nel 2016, anno del definitivo spillover del virtuale nel reale? Oppure ancora prima, con la fine di Occupy e delle primavere arabe, ultimi momenti che hanno creduto davvero nel potere organizzativo delle reti? Come siamo finiti ad abitare quotidianamente spazi digitali che detestiamo e che non riusciamo ad abbandonare? Sono domande alle quali non è necessario rispondere in questo contesto e che tuttavia ci spingono a guardare con curiosità e senza pregiudizi al Web 3.0, la nuova utopia del Web decentralizzato. Con il termine-ombrello ‘Web 3.0’ si intende un progetto ampio e pluridirezionale di riforma dell’Internet, una riforma centrata sull’implementazione di tecnologie decentralizzate (in primis, la blockchain) e sul superamento del paradigma estrattivo delle piattaforme. Questa riforma infatti parte da un’urgenza condivisa: la realtà feudale del Web 2.0, con i suoi tirannici colossi, con la sua invisibile ma costante estrazione di valore, con i suoi attacchi alla privacy e alla democrazia, deve essere abbandonata. La struttura centralizzata e orientata al profitto dei vari Facebook e Instagram alimenta problemi sociali come le fake news, il deplatforming, i bot di stato ecc.
Inoltre, man mano che le piattaforme centralizzate crescono instaurano due tipi di relazioni specifiche:
- sviluppano un rapporto estrattivo con i propri utenti, basato sulla raccolta e l’elaborazione dei dati personali a fini commerciali: il famigerato capitalismo delle piattaforme di Nick Srnicek;
- sviluppano una relazione puramente competitiva con le altre aziende, in cui si finisce a copiare le funzioni e ad affossare o acquisire i progetti più giovani: l’intera vicenda Instagram vs. Snapchat vs. TikTok ci offre un buon esempio.
Dati questi problemi, la prima e fondamentale promessa che il nuovo web deve regalarci è quella di un esodo dalle piattaforme estrattive, divenute ormai insostenibili dal punto di vista sociale, psichico ed economico. Usiamo il termine esodo nel senso che ne dà il filosofo Paolo Virno: l’esodo è un “congedo fondativo”, un atto di fuga che coincide con un nuovo atto di fondazione. Dice Virno: “soltanto chi si apre una via di fuga può fondare; ma, viceversa, soltanto chi fonda, riesce a trovare il varco per abbandonare l’Egitto”. E ancora: “chiamo Esodo la defezione di massa dallo Stato, l’alleanza tra general intellect e Azione politica, il transito verso la sfera pubblica dell’Intelletto”. L’esodo dalle piattaforme, la fondazione del Web 3.0 rientra in questa definizione, in quanto riforma cooperativa dell’Internet, ritorno alla socializzazione dei saperi e abbattimento dei monopoli conoscitivi e tecnici dei colossi tech. Il pensiero di Virno offre un prisma di concetti legati all’idea di esodo, una costellazione attraverso cui cercheremo di pensare la promessa del Web 3.0:
"L’Esodo, nel corso del quale si realizza la nuova alleanza tra Intelletto e Azione, ha alcune stelle fisse nel proprio cielo: Disobbedienza radicale, Intemperanza, Moltitudine, Soviet, Esempio, Diritto di Resistenza.”
L’esodo diventa possibile soltanto quando - e se - si sviluppano i mezzi per portare a compimento questa ‘ritirata impegnata’. In breve: se non esistono alternative migliori al modo attuale di abitare Internet, non ci sarà davvero modo di cambiare lo status quo. La disobbedienza radicale al dominio dei colossi Tech nasce dall’abiura dei loro servizi e dalla logica applicata dell’esempio, la creazione di “prototipi o idee” che possono fornire un nuovo modello di azione e di organizzazione.
In particolare, è interessante guardare a quello che potremmo definire un nuovo abitare digitale, vale a dire il mondo delle DAO’s, le Decentralized Autonomous Organizations, nuovi collettivi digitali basati sulla blockchain. Le tecnologie crypto e le idee di un nuovo cooperativismo possono infatti offrire proprio alcuni degli strumenti necessari per smontare le scatole dei padroni californiani in cui abitiamo online (e non solo). Cercheremo di fornire una visione quanto più vasta possibile, quella di un nuovo paradigma in costruzione, senza limitarci alle notizie scandalistiche o al panico morale che è emerso durante l’espansione degli NFT. Inoltre, va notato come parlare di DAO’s significhi NON parlare di Bitcoin ma di Ethereum (così come di tante altre blockchain) e della promessa dell’invenzione di Vitalik Buterin di costruire l’Internet del futuro. Se Bitcoin rappresentava la falsa promessa della decentralizzazione della finanza, Ethereum si muove in un campo più vasto, che cercheremo di sondare in maniera sistematica.
Cos’è una DAO? In un celebre post del 2014, l’inventore di Ethereum, Vitalik Buterin, articola una teoria dell’organizzazione, partendo da due aspetti cruciali che caratterizzano qualsiasi conglomerato umano: ogni organizzazione ha un suo insieme di proprietà (fisiche, virtuali etc.) e un proprio protocollo che regola le relazioni tra i membri dell’organizzazione, assegnando ruoli specifici. L'esempio di organizzazione per eccellenza è lo Stato, che si organizza tramite un protocollo gerarchico attraverso una serie di enti che ne garantiscono la sovranità: il Parlamento, la magistratura etc. (se parliamo di democrazia). Nelle sue proprietà - gli ospedali, le caserme, le scuole - lo Stato riproduce in piccolo la propria struttura verticistica affidando le maggiori responsabilità ad un ente superiore agli altri e distribuendo i privilegi secondo una scala discendente. Lo stesso vale per le aziende private, dove il potere decisionale è distribuito attraverso pacchetti azionari che forniscono controllo sull’organizzazione, che invece non viene concesso agli impiegati. Anche le piattaforme digitali si comportano unicamente come SpA e non interpellano i propri utenti sui servizi forniti: in questo caso, la struttura gerarchica contrasta ancora di più con il modello partecipativo dei social media. Come afferma Samer Hassan, attivista, ricercatore e professore all’Università di Madrid al microfono del podcast ‘The Blockchain Socialist’:
“Questo squilibrio strutturale tra gli utenti e la corporazione è ancora più grave nel caso delle piattaforme digitali. Almeno Walmart non chiede ai propri utenti di portare il cibo per gli scaffali da casa, Youtube e gli altri social media sì”
Nonostante siano i nostri contenuti a rendere ricchi i magnati del mondo tech, le cosiddette GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) non hanno minimamente distribuito il potere attraverso la propria struttura, rendendosi di fatto indistinguibili da una qualunque azienda pubblica o privata.
Le DAO vogliono intervenire proprio su questo terreno: realizzare gruppi e organizzazioni di pari che si relazionano tra loro tramite uno specifico protocollo, verificato dalla tecnologia blockchain.
Come il peer2peer, il comunismo consiliarista e altre forme di organizzazione orizzontale, le DAO’s perseguono un allargamento della frontiera democratica, coinvolgendo un numero sempre maggiore di relazioni umane in questo divenire-orizzontale. Le DAO’s si oppongono sia agli apparati amministrativi dello Stato che a quelli dei grandi gruppi privati: è il senso che Virno dà alla parola chiave "soviet" nel contesto dell’esodo, quello di creare nuclei di contro-amministrazione e auto-gestione, opposti ai poteri esistenti.
Il protocollo adottato in una DAO funziona da meccanismo tecno-sociale che regola la gestione di un certo bene condiviso: infatti le DAO’s non si limitano ad essere un modello di organizzazione ma servono un determinato scopo. Gestire un bene condiviso non è facile e serve una garanzia che tutti rispettino le regole: solitamente questo garante ultimo è lo Stato. Nel caso delle DAO’s a garantire è il protocollo stesso e il codice che lo ‘anima’: in particolare, il lato automatico delle DAO’s (la ‘A’ del nome che sta per autonomous) si basa sulle esecuzione dei cosiddetti contratti intelligenti.
Il termine ‘smart contract’ risale al 1997, quando l’informatico Nick Szabo lo concettualizza nel paper “Formalizing and Securing Relationships on Public Networks”. Szabo è un cripto-anarchico della prima ora, inventore del progetto di valuta digitale bitgold e potenziale alias dietro il nome mitologico Satoshi Nakamoto, padre del Bitcoin. Non sappiamo se Szabo sia o no il profeta del Bitcoin, sicuramente possiamo definirlo come il primo teorico dello smart contract. L’idea di base è semplice: molte clausole contrattuali (come garanzie, vincoli, delineazione dei diritti di proprietà, ecc.) possono essere tradotte in codice informatico, principalmente attraverso una serie di if e then (se si realizza x, allora si verifica y) e, tramite le costrizioni dell’informatica, rese più sicure. Szabo porta come esempio l’interfaccia tecnica delle macchinette automatiche. La macchina automatizza la funzione della vendita, riuscendo a gestire il denaro tramite un banale programma e, grazie alla sua struttura tecnica, garantisce sicurezza ed efficacia.
Uno smart contract non si comporta molto diversamente: invece di formalizzare una relazione fisica (l’inserimento di denaro nel caso della macchinetta), ne formalizza una sociale ed economica. Di solito, nel caso dei contratti, il medium che esegue la formalizzazione è la legge che sancisce a quali condizioni due o più cittadini si devono relazionare. Nella situazione degli smart contracts invece è il codice che agisce come medium formalizzatore. CODICE = LEGGE: questo è l’assunto di base degli smart contracts. Tali protocolli tecno-politici risvegliano un potere costituente che, come spiega il filosofo italiano Tommaso Guariento, si articola in “enunciati nella forma performativa del comando (C, 18), ovvero di frasi che non dicono il vero o il falso, ma sono valide o non valide”. Sia il codice sia la legge non si limitano a descrivere il mondo ma si comportano “affermando invece l’imposizione creativa del linguaggio sul mondo”. Gli smart contracts definiscono quindi un insieme di procedure finalizzate all’adempimento alle clausole contrattuali, realizzando in pieno l’idea di codice come linguaggio in azione, di potenza realizzatrice tra digitale e reale.
“Il codice è un insieme di procedure, azioni e pratiche, finalizzate in particolare al raggiungimento di particolari obiettivi in particolari contesti. Codice = prassi”
Code is law è però una bella espressione più che una realtà assodata. Infatti, nonostante l’autorità del codice - la lex informatica - sia incontrovertibile per lo svolgimento del programma, le decisioni adottate per lo sviluppo e il mantenimento dei network sono ancora decisamente umane. In questo senso, è paradigmatico il caso di ‘The DAO’, la prima e più sfortunata versione di una organizzazione autonoma e decentralizzata. The DAO nasce all’interno dell’ecosistema Ethereum e viene finanziata attraverso un crowdfunding che arriva a raccogliere l’enorme cifra di 12.7 milioni di Ether (all’epoca, circa 150 milioni di dollari): chi finanziava la DAO, riceveva dei tokens che assicuravano potere decisionale all’interno dell’organizzazione (vedremo meglio questo sistema dopo). L’idea di The DAO venne accolta con immenso entusiasmo: in sostanza, la piattaforma avrebbe permesso a chiunque avesse un progetto di proporre la propria idea alla comunità e potenzialmente ricevere finanziamenti dalla DAO. I possessori di token DAO potevano votare i progetti, e ricevere delle ricompense se i progetti avessero un profitto. I sogni utopici di The DAO, vennero rovinati da un attacco che colpì l’organizzazione nel giugno 2016, quando un hacker riuscì a estrarre 3.6 milioni di Eth dai fondi del collettivo. In realtà, non si trattò di un proprio hacking in quanto l’attacco sfruttò a suo vantaggio le caratteristiche dello smart contract che gestiva la DAO: in sostanza, venne mandata in loop una richiesta di prelievo di fondi e, a causa di alcuni difetti di programmazione, non si riuscì a fermare il processo di ‘rapina’, che venne poi concluso dall’hacker. Un inciso: il caso The DAO evidenzia anche i rischi del codice open-source e della trasparenza insita nella blockchain: si rischia di non poter ‘proteggere’ a sufficienza la propria comunità.
Secondo il principio del CODE = LAW quindi, questo dirottamento era completamente legale e avveniva nei limiti normativi previsti dal codice. E tuttavia, la community di Ethereum che stava dietro al progetto decise di non sottostare a questo nuovo statuto ma di ‘dividere’ (forkare) la blockchain Ethereum, creando un nuovo network da cui ‘The DAO’ fosse escluso. A livello teorico, si dimostrò che nonostante i desideri di automatizzazione, l’agency umana fosse ancora l’ultima istanza nella gestione di un network del genere e non solamente il codice.
Infatti, al di là del potere degli smart contracts, la novità delle DAO’s risiede nella cultura che questo ecosistema sta sviluppando. La parola ‘autonomo’ del nome non si riferisce solo all’aspetto tecnico ma soprattutto al senso politico. Come ha twittato Jane Dao:
"L'autonomia popolare che si cerca qui si riferisce molto più all'autonomia di una TAZ o di una ZAD che all'autonomia del software, è un'autonomia fedele sia al suo senso originario morale e politico di agire per se stessi, volontariamente o spontaneamente, ma anche di governare se stessi secondo le proprie regole. E questa autonomia è, in un certo senso, l'esatto contrario di quella attribuita al software, al codice, che deve funzionare secondo le regole incorporate in se stesso.”
Per esempio, nel Web 3.0 è senso comune affermare che sia la cultura degli utenti, con le sue necessità, a dover determinare l’infrastruttura tecnica. Potrà sembrare un punto banale, che apre soltanto altri interrogativi (quale cultura?) ma è anzitutto un ribaltamento della betisè algoritmica (Stiegler) in cui siamo finiti, dove l’innovazione viene seguita solo per il gusto dell’innovazione e dove il profitto rimane motore primo dello sviluppo tecnico, a discapito di qualsiasi altra esternalità prodotta. Le DAO’s non esistono soltanto a causa della blockchain. Secondo un seminale saggio di Key Kreutle, i due strumenti fondamentali delle DAO’s, oltre gli smart contracts, sono: “un server su Discord e un account collettivo su una piattaforma per gestire valuta”. Se il server su Discord si configura come strumento comunicativo multiuso e adattabile a diverse esigenze, è altrettanto fondamentale la condivisione delle risorse e quindi la disponibilità di un portafoglio condiviso - in altri termini, ‘una cassa comune’ - rifornito di cripto-valute (Ethereum su tutte). In una DAO’s quindi ciò che avviene sulla blockchain (in gergo: on-chain) è altrettanto importante di quello che succede off-chain e delle relazioni interne all’organizzazione. Come ribadisce Kreutle, si tratta anzitutto di nuove forme di organizzazione sociale sostenute dai progressi delle tecnologie informatiche ma non riducibili a quest’ultime: la tecnologia fornisce il substrato ma a contare sono i valori e le relazioni.
“Don’t ninja the sword (non rubare il bottino degli altri)”
Anonimo su World of Warcraft
Facciamo un passo indietro, osservando il contesto storico in cui ci muoviamo. Il lockdown e la socialità fisica limitata hanno espanso notevolmente il desiderio di aggregazione digitale con uno sbocciare di migliaia di chat di gruppo, server videoludici e club virtuali. Secondo Other Internet - gruppo di ricerca tra i più interessanti dello spazio Web 3.0 - è importante guardare questi movimenti di gruppo per capire dove sta andando l’Internet di oggi. Other Internet ha ha elaborato una vera squad theory, uno studio sulle ‘nicchie sociali online’, microgruppi di amic* che si coordinano e creano etichette indipendenti su Bandcamp, canali Twitch, riviste e podcast con strumenti collaborativi come Google Doc, Figma etc. I content creator sono sempre meno individui atomizzati ma piccoli circoli che funzionano tramite meccanismi di cura reciproca e azioni coordinate. Questi media indipendenti, definibili anche brand senza testa, hanno trovato un modo di finanziarsi proprio tramite la creazione di comunità paganti su piattaforme come Patreon, Substack e OnlyFans o iscrizioni e acquisti sui già citati Bandcamp e Twitch. Si tratta di strategie di sopravvivenza utili agli enterprecariat di tutto il mondo, per usare un termine di Silvio Lorusso. Nel caos informazionale ed economico in cui viviamo, curare il proprio orticello con i propri amici sembra essere una via per resistere.
Questa tendenza al cooperativismo online e alle comunità ristrette è una delle radici culturali che Other Internet e Kreutle collegano con l’ecosistema DAO. L’altra genealogia proviene invece dai mondi fantastici abitati dalle gilde videoludiche. Le gilde, anche chiamate clan, sono alleanze tra giocatori particolarmente diffuse nei giochi online, soprattutto i cosiddetti MMO (Massive Multiplayer Online) ma anche giochi mobile come l'arci noto Clash of Clans. Queste alleanze tra gamer nascono per coordinare un certo numero di individui che vuole raggiungere un obiettivo comune e dividere le ricompense che completare questo obiettivo garantisce. Il podcaster e ricercatore Joshua Citarella ci fornisce una definizione formale di gilda videoludica:
“Una gilda è formata per occuparsi di un’attività produttiva e richiedere un modello di governance per arrivare a distribuire un certo numero di risorse”
Tipicamente, gli obiettivi che impegnano le gilde nei giochi multiplayer comprendono l’uccisione di nemici particolarmente ostici, l’esplorazione di aree complesse e lo scontro con altri gruppi di giocatori. A partire dal 1999, col gioco Everquest, e poi in World of Warcraft, gruppi di giocatori hanno adottato la ‘pratica economica’ denominata Dragon Killing Points (DKP, dal nome dei nemici più frequenti) che nasce per migliorare la distribuzione della ricompensa - il loot - attraverso i vari membri della gilda.
Come sottolineato in questo studio sul tema, i sistemi di DKP sono autonomi e nascono al di fuori delle norme giuridiche che regolano l’economia dei beni di un mondo virtuale. Senza l’intervento di arbitri esterni, l’autogestione dei DKP dimostra una notevole capacità di arbitraggio collettivo e di disobbedienza alle norme esistente. Nonostante la loro presunta inefficienza, l’adozione di un sistema di ‘contabilità’ per tenere traccia degli sforzi di ognuno si rivela uno strumento molto utile e rafforza i rapporti sociali tra i membri del clan. Con questo sistema di prezzaggio autonomo, i clan di World of Warcraft riescono ad allocare in maniera efficace le ricompense ottenute in battaglia. Citarella arriva a definire questi sistemi come esempio di socialismo di mercato, in cui la produzione cooperativa si unisce ad un sistema di prezzi usato per determinare i bisogni relativi dei ‘lavoratori’ (i gamers). I DKP possono essere visti come sistemi di valorizzazione del lavoro dei giocatori e del loro impegno nell’uccisione di un boss. Infatti, i beni distribuiti tramiti i DKP non possono essere ulteriormente venduti e perciò i DKP non hanno alcun valore speculativo. È denaro ma non è capitale poiché non può riprodurre ulteriore denaro: secondo Citarella, il sistema dei DKP segue il noto motto marxiano: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Citarella e Kreutle condividono un approccio non-discorsivo all’analisi: nel parlare di queste forme di economia informale, che siano gilde o DAO’s, è importante comprendere come l’economia funziona davvero e come ciò cambia gli obiettivi politici concreti; non ci si deve limitare al feticismo per le forme e per l’ideologia e considerare socialisteggianti soltanto le organizzazioni che esplicitano questo tratto.
"Oltre lo stato è il denaro che comanda, è il denaro che comunica. Ciò di cui abbiamo bisogno oggi non è una critica del marxismo ma una moderna teoria della moneta che sia all’altezza di quella di Marx e che parta da dove la sua riflessione si era interrotta.”
Gilles Deleuze
Il sistema contabile di reputazione delle gilde rivive nelle DAO’s attraverso l’idea del token. Le DAO’s sono organizzazioni su base volontaria e come tali si basano anzitutto sulla fiducia reciproca tra i membri. La fiducia che le DAO’s - come altre organizzazioni del genere - cercano è una fiducia scalabile, cioè espandibile ad un gruppo più vasto di persone che possono aver interagito soltanto online o non conoscersi affatto; la governance decentralizzata ha come obbiettivo la gestione di una rete sempre più ampia di persone e i meccanismi che crea devono essere perciò adattabili. Come per i gamers nelle gilde, bisogna coordinarsi con sconosciuti per raggiungere obiettivi comuni e farlo senza affidarsi ad un’autorità centrale. L’importanza che reputazione e fiducia rivestono nelle network cultures di cui stiamo parlando è assoluta; lo aveva già capito il Manifesto Criptoanarchico del 1998, precursore ideologico delle tecnologie di cui stiamo parlando:
“Questi sviluppi [della crittografia e di altre tecnologie, n.d.a.] altereranno completamente la natura della regolamentazione governativa, la capacità di tassare e controllare le interazioni economiche, la capacità di tenere segrete le informazioni, e persino la natura della fiducia e della reputazione.”
Il problema della fiducia viene quindi affrontato dal sistema di token che regola il funzionamento di una DAO. Il token diventa una moneta interna alla DAO, una valuta sociale, che regola il ruolo di ciascun membro all’interno dell'organizzazione. Non esiste un protocollo unico e comune a tutte le DAO’s ma generalmente i token sono usati per assicurare una maggiore capacità di voto ai membri, la co-proprietà dei beni condivisi nella DAO e l’accesso ad alcune funzioni comuni (come i server o le chat). Un esempio di DAO gestita in questo modo lo illustra la Kreutler:
“PleasrDAO è un collettivo che si è riunito per fare offerte su un NFT dell'artista pplpleasr. Data l'escalation dei prezzi d'asta degli NFT, l'idea dietro PleasrDAO era semplice: un collettivo di fan che usava un account con più firme poteva mettere insieme i fondi per fare offerte, e attraverso la proprietà in comune, competere con altri grandi offerenti per vincere l'asta. Dopo aver vinto la loro prima asta omonima, PleasrDAO ha continuato a raccogliere altre opere come Stay Free, l’NFT di Edward Snowden che sostiene la stampa indipendente, per un totale di 2,2K ETH o 5,4 milioni di dollari (con il cambio dell’epoca). [...] Iniziative come PleasrDAO sfidano in modo più promettente i collezionisti istituzionali attraverso la loro adesione allargata, invitando gli artisti di cui sono fan, come pplpleasr, a diventare membri del collettivo a loro volta.”
I membri di PleasrDAO votano attraverso $PEEPS, un token distribuito internamente che rappresenta quanto i membri hanno investito nella collezione. PleasrDAO ci fa capire un altro valore delle DAO’s: gli incentivi che possono mettere in gioco. Le DAO’s creano infatti una sorta di mecenatismo collettivo, un gioco a somma positiva dove sono le comunità e non le istituzioni o i privati a decidere dove vanno le risorse. Quello che la gran parte dei commentatori della vicenda NFT non ha capito è proprio questo: pagare un NFT - che sia fatto singolarmente o collettivamente - non è un modo per privare gli altri della sua circolazione e quindi di sviluppare un concetto di proprietà ‘classico’. Si tratta piuttosto di un modello di sponsorship, di supporto finanziario della classe creativa che non riesce a ottenere un reddito regolare dai canali standard della nostra società. Come si è visto con l’esplosione degli NFT, il mondo dell’arte ha accolto con grande entusiasmo le crypto-innovazioni: un entusiasmo che ha coinvolto in primo luogo molti lavorator* e artist* che non erano in grado di assicurarsi un’entrata regola e che è sicuramente figlio di una forte disaffezione verso i meccanismi classici di questo mondo, ormai incancreniti e obsoleti.
Sempre in ambito artistico, CultureStake - progettato dal centro di arte e tecnologia Furtherfeld - è un ottimo esempio di modello comunitario e decentralizzato che utilizza tecnologia crypto per allargare ‘il fronte democratico’ (pur non essendo, strictu sensu, una DAO): il sistema permette, tramite un meccanismo di voto quadratico, “alle comunità e agli artisti un modo per prendere decisioni culturali insieme”, portando quindi a molte più persone la possibilità di esprimersi sugli eventi culturali che avvengono nella propria comunità. Come dimostra CultureStake, l’idea di governance decentralizzata ambisce alla gestione dei beni condivisi di una comunità (in questo caso, il patrimonio artistico). Gestire beni condivisi nell’ecosistema DAO significa produrre esternalità positive, come fa notare Other Internet. È questo infatti che deve distinguere i beni pubblici che vogliamo gestire e utilizzare in questo nuovo Web rispetto a quelli già esistenti: anche Facebook fornisce un’infrastruttura pubblica con alcuni effetti positivi che vengono però oscurati dalla cascata di esternalità negative che il suo uso di massa ha causato. Proprio privilegiare le esternalità positive significa agire per il cambiamento, imbracciare la tecnologia come terapia delle ferite sociali invece che come veleno che ne perpetua la tossicità. Iniziative come l’evento Crypto Commons Gathering 2021, di cui potete trovare il materiale qui, e il progetto Commons Stack si muovono nell’ottica delle esternalità positive e nell’applicare la tecnologia decentralizzata ai beni comuni.
La tokenizzazione è dunque il sistema più adatto per gestire questi agenti di cambiamento che sono le DAO’s? I vantaggi del sistema a token sono diversi: sono un meccanismo utile per trovare fondi, distribuire i diritti di governance così come allineare attraverso metodi comuni le varie entità che compongono il sistema crypto. Il paradosso delle DAO’s è questo: lo sviluppo di organizzazione cooperative si sostiene attraverso un moltiplicarsi delle transazioni e della finanziarizzazione. La stessa speculazione finanziaria ha giocato un ruolo chiave nell’esplosione degli NFT e nella diffusione dell’idea di DAO: come si può sperare allora di scindere la finanza dalle caratteristiche collaborative e solidali delle DAO’s? Credo sia qui che il valore dell’azione politica e culturale, la creazione di una contro-egemonia, possa smuovere l’ecosistema e persino un’industria intera, che va dirottata dalla sua traiettoria capitalistica, colonialista e patriarcale. In particolare, qui cercheremo di affrontare due direttrici secanti: il problema della finanziarizzazione e quello dell’accesso alle tecnologie.
Abbiamo accennato alla problematica della finanziarizzazione, che possiamo così riformulare: per funzionare le DAO’s (così come altri ambienti crypto) necessitano un moltiplicarsi di transazioni e scambi monetari e la creazione di una moneta che ‘equilibri’ il sistema. Questa evoluzione può essere vista come un ampliamento del regime delle relazioni capitalistiche e di scambio che già viviamo in tutti gli ambienti della nostra società. Eppure, al di là di un odio quasi-feticistico per la moneta, la creazione di circuiti monetari alternativi potrebbe rivelarsi una scelta di emancipazione. Anzitutto, c’è la questione della valorizzazione: a partire dagli NFT fino alle attività all’interno di un’associazione, assegnare un valore monetario a un’azione o ad un oggetto assicura una visibilità e un riconoscimento che la gratuità non garantisce. Soprattutto quando parliamo di contenuti sui social media, la trappola del ‘tutto gratis’ ha colpito migliaia di creators che non sono riusciti a fare della loro attività un vero lavoro mentre la piattaforma su cui pubblicavano diventa miliardaria estraendo i loro dati. Sempre parlando di visibilità del lavoro, il già citato Hassan sottolinea come la tokenizzazione possa mettere in evidenza forme di lavoro solitamente invisibili: utilizzando sistemi di moneta comune, si possono pagare adeguatamente forme di lavoro di cura e di lavoro emotivo che sono state storicamente messe in secondo piano rispetto all’attività produttiva. In gioco, qui c’è la possibilità di un ripensamento dell’idea e delle possibilità della moneta. Emma Baizabal e Lucas Seamanduras hanno scritto una fanzine dedicata al tema della moneta:
"Sembra ovvio cercare il controllo sul denaro. Più che un oggetto paradigmatico del desiderio, svolge diverse funzioni: unità di misura, fine dei debiti, icona della libertà nell'immaginario capitalista. Anche se alcune versioni della sua storia rendono la sua evoluzione come processo di progressiva astrazione, altre ricerche, meno concettuali ma più storiche, lo individuano come un fenomeno più primitivo che emerge dal debito. In ogni società dove si trovano relazioni di scambio mediate dal tempo e dall'incertezza, il denaro emerge per standardizzare le equivalenze, registrare il cambiamento e aprire lo spazio dell'identico identico in mezzo al diverso. Questa molteplicità è possibile perché il denaro è una tecnologia. Questa condizione non significa solo il suo aspetto tecnico, cioè il modo specifico in cui lo usiamo, che siano banconote o criptovalute; la sua dimensione tecnologica è tale grazie alla sua rete operativa di produzione di sensi.”
Lavorare sulla “rete operativa di produzione di sensi” o, in altre parole, hackerare la moneta e riutilizzarla per nuovi scopi è il lavoro portato avanti da iniziative come la rete di ricerca Money Lab o la cooperativa digitale DisCo. Tutte queste prospettive condividono una teoria eterodossa della moneta, sulla scia del libro cult ‘Debito: i primi 5000 anni’ del compianto antropologo David Graeber. La moneta è anzitutto l’iscrizione di una relazione sociale, il tenere conto di uno squilibrio originario che è quello che esiste tra debitore e creditore. In quest’ottica, un circuito monetario alternativo diventa la condizione fondamentale per sostenere un circuito di enti autonomi: per esempio, avere circuiti monetari alternativi, come quelli crypto, può essere utile per ridurre la dipendenza degli enti autonomi dalle banche, che spesso si rivelano necessarie per accumulare un investimento iniziale. Laddove invece questo investimento può essere raggiunto in maniere diverse (crowdfunding, ICO etc.), un grado maggiore di autonomia è raggiunto. Non basta questo per superare il capitale e la lotta si configura sempre su tanti piani differenti, eppure, lo ripetiamo, centrare la questione monetaria diventa una chiave per ristabilire che cosa sia il valore. Come spiega Jerome Roos:
“Qui, finalmente, entriamo nel territorio della politica: come possiamo arrivare a decisioni comuni su che cosa sia da considerarsi di valore? Diamo valore ai legami personali o all’anonimato? Alla comunità o all’individualità? Esiste un modo per colmare il divario tra questi elementi apparentemente opposti o per risolvere le loro contraddizioni intrinseche, oppure rimarranno per sempre in conflitto? A che cosa diamo valore in noi stessi e negli altri? A che cosa diamo valore nella natura, nel lavoro e nel tempo libero? E come possiamo inserire tali valori – sia economici che politici – nella forma-moneta stessa?”
Le DAO’s e i loro sistemi di tokenizzazione offrono un terreno tecnologico e culturale fertile per questo genere di sperimentazione monetaria. Bisogna però insistere su un approccio ibrido e mutante che possa superare le varie problematiche dell’ambiente DAO e, in generale, del mondo crypto affrontate dalla comunità di DisCo nel libretto DisCo Elements:
"Mentre ci sono molti aspetti eccitanti in questa tecnologia, i progetti DAO si sono per lo più concentrati su asset speculativi, tokenizzazione e promesse di sconvolgimento fuori misura, mentre riproducono molte delle dinamiche di potere dei sistemi normativi che mirano di interrompere e decentralizzare. La comunità Bitcoin, per esempio, è composta per il 91% da uomini, mentre 96% degli utenti Ethereum sono uomini. C'è anche una notevole mancanza di consapevolezza politica e storica consapevolezza dei movimenti che hanno prefigurato le dinamiche della decentralizzazione, che potrebbero beneficiare dei vantaggi offerti dalle DAO.”
Per rovinare la festa agli artefici del crypto-boom, abbiamo bisogno di un approccio radicale alla tecnologia decentralizzata. A questo proposito, Denise Thwaites propone ‘una strategia femminista alla blockchain’ che immagini un ripensamento del nostro approccio alla tecnologia, una contaminazione delle idee del VNS Matrix e del femminismo glitch di Legacy Russel all’interno di questo ambiente tecnologico:
“Potremmo creare una DAO tutta per noi (N.d.A. gioco di parole con ‘Una stanza tutta per sé’ di Virginia Woolf) attraverso strategie di intervento sia economiche che simboliche, che sostengano ripensamenti radicali e creativi del mondo? In questo momento plastico di sperimentazione e sviluppo della DAO, le strategie femministe possono davvero essere la chiave per permettere un impegno diverso e plurale con questi sistemi sociotecnici.”
Sperimentazione, audacia e contro-egemonia sono gli ingredienti necessari per dirottare le DAO’s verso i nostri scopi e tentare un esodo dalle piattaforme. Nella lotta per i network di domani, abbiamo ancora tutto da guadagnare.
https://blog.ethereum.org/2014/05/06/daos-dacs-das-and-more-an-incomplete-terminology-guide/
https://decrypt.co/69979/vitalik-buterin-talks-nfts-daos-defi-and-the-next-billion-ethereum-users
https://www.ourmachine.net/writing/eight-qualities-daos/
https://www.jdsupra.com/legalnews/wyoming-takes-the-lead-with-5563551/
https://darkstar.mirror.xyz/yEK4DdvmxwZ2l-yHWGOQs3rMsLD6RYs_phLUzSFdhAI
https://otherinter.net/research/positive-sum-worlds/#the-scope-of-the-public
https://so-far.online/many-headed-hydras/
https://www.coindesk.com/tech/2021/09/02/are-daos-socialist/
https://gnosisguild.mirror.xyz/t4F5rItMw4-mlpLZf5JQhElbDfQ2JRVKAzEpanyxW1Q
https://variant.fund/the-ownership-economy-crypto-and-consumer-software/
https://blog.gnosis.pm/inventories-not-identities-7da9a4ec5a3e
https://otherinter.net/research/squad-wealth/
https://subpixel.space/entries/come-for-the-network-pay-for-the-tool/
https://soundcloud.com/joshuacitarella/memes-as-politics-ep-13-dkp-is-market-socialism [Podcast]
https://groups.csail.mit.edu/mac/classes/6.805/articles/crypto/cypherpunks/may-crypto-manifesto.html
https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3907693
https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=958945
https://cdixon.org/2018/02/18/why-decentralization-matters
http://www.rivistapolemos.it/wp-content/uploads/2018/04/9.NIZZA_.pdf
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