Vi raccontiamo Tamu, libreria indipendente di Napoli, e ora anche editore, con le parole di uno dei suoi ideatori.
Un giorno qualsiasi di marzo, un caro amico entra in casa mia con un libro in mano. Un volume dalle strane fattezze, che non avevo mai visto. Si intitola Undercommons, così penso a una pubblicazione inglese e mi disinteresso completamente alla cosa. Il mio amico resta in casa mia tutto il pomeriggio e la sera, chiacchieriamo di tanto in tanto, ma principalmente lui legge il libro, mentre io lavoro. Lo finisce in mezza giornata, con un’ingordigia che conosco bene. Ma sono troppo impegnato in altro per rendermene davvero conto, mi faccio gli affari miei.
Qualche giorno dopo un altro amico fidato nomina quelli di Tamu. Quelli di Tamu li conosci? No, non li conosco. E mi racconta di questa libreria napoletana, nata nel 2018, e del fatto che stanno facendo alcuni libri molto interessanti: hanno fatto bell hooks, mi dice.
Vado a cercare, mi documento e scopro che sono – si era già capito – gli editori di Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero di Stefano Harney e Fred Moten (edizione in collaborazione con Archive Books). Lo prendo e lo divoro anche io. E prendo anche Elogio del margine/Scrivere al buio di bell hooks e Maria Nadotti (io la conosco già Maria Nadotti, penso). Altro libro straordinario e sui generis. A quel punto sono davvero impressionato, perché sono libri di spessore, fatti con cura e un piglio radicale che mi sorprende libro dopo libro. E non resisto.
Tamu è una libreria indipendente (dal 2018) e casa editrice (dal 2020) napoletana, «un progetto culturale indipendente e collettivo», nelle loro parole. Si occupano principalmente di «opere di narrativa e saggistica che guardano alle sfide lanciate dai movimenti femministi e antirazzisti, alle migrazioni, alle eredità del colonialismo e alla crisi ecologica del pianeta come fenomeni centrali nella società globale». E lo fanno da una prospettiva dichiaratamente orientata a sud.
Tutto ciò mi sembra talmente interessante che ho chiesto di poter fare qualche domanda a uno degli editori, Carmine Conelli, per chiarire un po’ alcuni concetti e fare il punto della situazione a quasi un anno dalla prima pubblicazione, ripercorrendo i libri che hanno iniziato a fare da fondamenta a un catalogo che ci auguriamo possa elevarsi e ampliarsi il più possibile in ogni direzione.
Andrea Cafarella - Innanzitutto: Tamu è una libreria. Questo è un dato da non sottovalutare. Sono tanti gli esempi di librerie che sono anche case editrici (mi vengono in mente Tlon, Wojtek, Giometti & Antonello, Dante & Descartes – ognuna con le sue peculiarità, sia da libreria che da casa editrice), e ognuna di queste realtà si è fatta subito notare, quantomeno per lungimiranza, segno che il lavoro in libreria potrebbe dare all’editore una prospettiva diversa, forse avvantaggiata, sicuramente più orientata al lettore.
Volevo quindi cominciare con il chiederti un po’ di storia della libreria, e di quando e come vi si è innestato il ramo editoriale. E inoltre volevo sapere che ne pensi del mio ragionamento e come secondo te influisce e ha influito il lavoro in libreria sulle vostre pubblicazioni e sul vostro modo di lavorare.
Carmine Conelli - Tamu nasce come libreria nell’autunno del 2018, quando Cecilia e Fabiano – conosciutisi a Bologna – hanno avuto l’intuizione che nel centro storico di Napoli mancasse uno spazio dedicato alla letteratura dei paesi arabi, del mediterraneo e degli altri “sud”. Un’intuizione felice, poiché la libreria è a pochi metri dalle sedi dell’Orientale, e non solo ha attirato così progressivamente molti studenti, ma ha anche ricompattato intorno a essa molte persone, tra attivisti, studiose, operatori culturali e sociali che dopo la crisi dell’università e la turistificazione crescente del centro storico hanno ritrovato uno spazio fecondo di discussione intorno a determinati temi e libri. Fino all’arrivo della pandemia, infatti, la libreria organizzava al suo intorno numerose – e partecipatissime – presentazioni, nonché vari laboratori: di lingua, di scrittura creativa, ma anche di creazione artigianale del libro. Con le limitazioni dovute al Covid-19 tutta questa vivacità ha subito una brusca interruzione. Per superare questa empasse, la libreria ha ben pensato di opporre una strategia collettiva, formando una rete di librerie indipendenti (L.I.Re – Librerie Indipendenti in Relazioni) con le librerie Dante&Descartes, Librido e Perditempo e portando così in piazza le discussioni sui libri. Ne sono uscite cose belle, ma anche momenti di profonda discussione politica: è sulla scorta di una protesta di L.I.Re, iniziata dopo aver constatato che organizzare una presentazione in piazza a Napoli ha assunto improvvisamente dei costi assurdi (mentre, allo stesso tempo, se vuoi occupare il suolo pubblico con tavolini per spritz puoi farlo gratuitamente nel nome della “ripresa”) che di recente alcune realtà della città hanno cominciato un ragionamento sull’uso dello spazio pubblico nel centro storico di Napoli durante la pandemia. Ma questa è una storia che meriterebbe un capitolo a parte.
Torniamo a noi: il progetto editoriale nasce sulla scia dell’interesse della libreria per temi che incrociano le prospettive di classe, genere e razza nella comprensione della società contemporanea, nonché dal desiderio comune delle tre persone che animano Tamu Edizioni di moltiplicare le occasioni di dibattito su questi temi. Venivamo da esperienze diverse ma complementari: Fabiano oltre ad aver fondato la libreria aveva già precedentemente assaggiato il mondo editoriale lavorando con Gli asini e Bebert Edizioni; Valeria univa alla sua formazione da antropologa la passione per la traduzione. Io avevo invece voglia di una nuova sfida dopo aver concluso un dottorato in scienze sociali, sapendo che l’opportunità di emigrare in questa fase storica avrebbe comportato per me solamente l’ennesimo lavoro precario lontano da casa. Ci hanno detto a più riprese che abbiamo avuto coraggio, che è da pazzi fondare una casa editrice specializzata su questi temi in piena pandemia. Non nascondo che un pizzico di follia c’è voluta, non soltanto da parte nostra, ma da parte di tutta quella comunità di persone che da tutta Italia ci ha fatto sentire condivisa l’urgenza del nostro progetto, animando il crowdfunding con cui abbiamo raccolto i soldi per stampare i nostri primi due libri. Per il resto, a muoverci è stato il desiderio di crearci un lavoro che rispondesse alla nostra creatività e ai nostri interessi, ma anche alla necessità materiale di sostenerci. Sicuramente poi, eravamo coscienti che il lavoro prezioso della libreria ci avrebbe in qualche modo spianato la strada. Condivido molto il ragionamento che facevi, soprattutto se pensiamo al momento di uscita di un libro. Quando il libro che stai pubblicando è sugli scaffali della libreria in cui lavori, hai una prospettiva molto ravvicinata sulla reazione dei lettori rispetto a quell’uscita. È un termometro importantissimo: capisci immediatamente se un libro viene percepito con indifferenza o se per alcuni la lettura può diventare addirittura folgorante. Non ti nascondo che ci ha aiutato talvolta prima dell’uscita: ad esempio, quando abbiamo deciso di ripubblicare Elogio del margine/Scrivere al buio, il fatto che di tanto in tanto spuntasse qualcuno in libreria a chiederci se avessimo questo libro ormai fuori catalogo da vent’anni, ci ha convinti che eravamo sulla buona strada per il nostro primo volume.
AC - Mi piacerebbe adesso seguire il percorso, non casuale, dei vostri primi libri (che sono sette più una rivista, al momento) e, partendo da questi, parlare un po’ delle vostre modalità di lavoro, che mi sembrano effettivamente peculiari e molto interessanti per chi lavora nel mondo dei libri e non solo.
Ricominciamo dalla primissima pubblicazione, che hai già prontamente nominato. Probabilmente si tratta di uno dei vostri libri più rappresentativi, il biglietto da visita di Tamu, che così si è presentata al mercato editoriale. Elogio del margine/Scrivere al buio di bell hooks e Maria Nadotti.
Un libro che è sia un vero e proprio dialogo – visto che al suo interno vi è anche una conversazione tra le due autrici – ma non solo, possiamo dire che il centro del libro è composto da alcuni dei saggi più acuti e interessanti di bell hooks, che erano ormai irreperibili in lingua italiana.
In che modo è arrivato questo libro e soprattutto cosa ha provocato? E come pensi abbia annunciato la nascita di Tamu?
CC - Come accennavo poc’anzi, Elogio del margine/Scrivere al buio è una ripubblicazione di scritti di bell hooks, tra le più feconde autrici del femminismo nero statunitense, comparsi per la prima volta in Italia nel 1998 rispettivamente per i tipi di Feltrinelli e La tartaruga, grazie all’opera di traduzione e divulgazione di Maria Nadotti. Da un punto di vista strettamente personale è un testo fondamentale, che avevo incrociato già anni fa in alcuni gruppi di lettura all’università, dove giravano delle fotocopie sgualcite che ci passavamo di mano in mano con quell’accortezza con cui si trattano le cose preziose. Quando abbiamo immaginato di dare vita a Tamu Edizioni, e a quali libri avremmo potuto pensare come prime pubblicazioni, la mente è andata subito ad Elogio del margine. Nei saggi contenuti in quella raccolta, bell hooks assume il punto di vista delle donne afroamericane che subiscono la contemporanea oppressione di classe, di razza e di genere. Un testo seminale per gli sviluppi delle teorie intersezionali che di recente sono state al cuore del dibattito femminista e antirazzista, in Italia così come nel mondo. E perché all’oppressione di quello che lei definisce come capitalismo patriarcale suprematista bianco, offre una prospettiva epistemologica di resistenza individuandola nel margine. Un rovesciamento di prospettiva straordinario, dove la marginalità non è più una struttura imposta dal dominio, ma diventa una possibilità di sviluppare uno sguardo particolare sul mondo, capace di generare alternative. Folgorante, per ritornare a un termine che ho usato poco fa.
Una volta riscontrato l’entusiasmo di Maria Nadotti, che ha gentilmente messo nelle nostre mani la sua traduzione e ci ha proposto di aggiungere al testo la ripubblicazione di questo formidabile e ancora attuale dialogo che lei ebbe con bell hooks ventidue anni prima, abbiamo immaginato effettivamente che – come prima uscita – questo poteva essere il nostro testo “manifesto”. E non solo per i temi affrontati, ma anche per il linguaggio con cui è stato pensato, che riesce a trattare concetti complessi con una scrittura cristallina e accessibile.
AC - Il secondo libro è totalmente diverso: Mediterraneo blues: musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi di Iain Chambers è un esile volumetto che parla di musica; inoltre, è una riedizione – rivista e ampliata. Libricino splendente, mostra una storia degli ultimi decenni della musica dei paesi del mediterraneo, inedita, eclettica, arbitraria e controcorrente. Affascinante e magnetica. Ed è ponendosi al margine, che riesce a scavalcarsi e diventare anche libro politico e filosofico, in un certo senso. Perché pubblicare questo libro e con quale intento? Ma soprattutto: pensi che lo stesso libro, pubblicato con un editore diverso (diciamo pure più generalista) avrebbe avuto un altro significato?
CC - Anche Mediterraneo blues è un libro che – per motivi diversi dalla nostra prima uscita – in qualche modo definisce la nostra identità. L’idea di Chambers è tanto semplice quanto incisiva: dal pensiero filosofico occidentale, quello che ha strutturato in modo indelebile la modernità, il Mediterraneo è un luogo che viene guardato, attraverso la direttrice nord-sud, come sinonimo di esoticismo e arretratezza. Non solo: la sua comprensione è stata viziata dal nazionalismo metodologico tipico di molte delle teorie originate dalle scienze sociali occidentali. Per questo motivo l’innovazione teorica di Chambers diventa notevole: la musica in questo libro diventa a tutti gli effetti un archivio, in cui i suoni oltrepassano le frontiere imposte dal pensiero e lasciano spazio alla contaminazione, portando con loro le tracce del colonialismo europeo, riscrivendo dunque una storia inscritta in fin dei conti anche nel nostro presente. È un libro che rispecchia molto il nostro modo di posizionarci, soprattutto se pensiamo che certe categorizzazioni e stereotipi sono spesso riservati anche a Napoli e al Sud Italia – i luoghi che viviamo, i luoghi da cui pensiamo – e che forse avremmo bisogno di vedere cosa si muove in luoghi similarmente percepiti come “non-moderni” per apprendere possibilità inedite di guardare al mondo, nonché nuove modalità di resistenza culturale e politica non viziate da eurocentrismo.
AC - E arriviamo alla miccia di questo dialogo: Undercommons. Un saggio poetico? Non lo so. Libro indefinibile, scritto a quattro mani, tradotto a più mani, pubblicato in collaborazione con un altro editore, Archive Books, composito, collettivo, lirico e complesso. Non saprei davvero da dove cominciare. Lascio a te l’onore e l’onere di parlare un po’ di questo gruppo di lavoro (direi che potremmo usare questa dicitura in questo caso), di come si è composto e organizzato, di cosa ha significato per la forma finale di questo libro, e magari di cosa effettivamente è una «pianificazione fuggitiva» e lo «studio nero», in fondo di cosa parla Undercommons?
CC - Undercommons è il primo libro di un’intera collana che stiamo progettando con Archive Books, che abbiamo chiamato “Ante-politics”. È un libro che in alcuni circoli politici e artistici, negli Stati Uniti e non solo, è un piccolo oggetto di culto. Il motivo è presto detto: gli autori sono Fred Moten, tra i poeti neri statunitensi più brillanti della sua generazione, nonché uno degli scrittori più influenti per il mondo dell’arte e Stefano Harney, un’economista marxista praticamente sosia del Jeff Bridges del Grande Lebowski. Famosi dai tempi in cui avevano scritto un articolo sull’università americana, inguaiata dall’iperproduttivismo, dal debito e dai processi di valutazione, Harney e Moten hanno poi successivamente esteso la loro riflessione ad altre sfere del controllo neoliberale odierno. Ispirandosi costantemente alle proprie teorie di riferimento, la tradizione nera radicale per Moten e l’autonomia italiana per Harney – e mettendone in luce le contraddizioni e i debiti –, insieme hanno costruito una delle conversazioni più ricche e affascinanti su come poter resistere negli ingranaggi della società neoliberale oggi. È difficile definire gli undercommons – i sotterranei dell’illuminismo, per riprendere una definizione degli autori che mi piace molto – nell’epoca in cui anche i beni comuni sono soggetti a una costante spinta all’espropriazione e/o all’istituzionalizzazione, se non a partire dalle soggettività che per gli autori li compongono, quelle minoranze nere e queer che spesso sono escluse dal pensiero filosofico politico come possibili soggetti agenti di un cambiamento. Per un lavoro insieme così collettivo e così politico, abbiamo deciso con Archive Books di rendere anche la traduzione un processo collettivo e politico allo stesso tempo: ad affiancare la pregevole traduzione di Emanuela Maltese un collettivo di persone (Chiara Figone, Vasco Forconi, Angelica Pesarini e Justin Thompson, oltre al sottoscritto) che ha inteso – nello spirito del libro – quello della traduzione come un momento di «studio», una definizione che oltrepassa il momento della formazione scolastica e universitaria è che da intendere più come un atto di cooperazione che sfugge dalle logiche dell’individualismo.
AC - Laboratorio Favela. Violenza e politica a Rio de Janeiro è un prezioso volume che raccoglie testi e interventi della celebre attivista brasiliana Marielle Franco. Tradotto e introdotto da Francesca De Rosa e Alice Izzo (con anche un introduzione – splendida e molto toccante – di Andrezza de Jesus).
Un libro che presenta e fa chiarezza su una figura simbolo dei movimenti femministi di tutto il mondo. E un libro che certamente si lega e dialoga con Elogio del margine/Scrivere al buio. Perché trattare oggi autrici così importanti politicamente in modo così – anche filologicamente – accurato, cosa è successo negli ultimi anni per indurre editori e lettori a farci maggiore attenzione e a interessarsi in modo più ragionato e profondo?
CC - Laboratorio favela è un libro per noi emozionante. Anche questo è stato immaginato collettivamente e, aggiungerei, transnazionalmente, poiché traduce l’omonima raccolta di scritti di Marielle Franco pubblicati l’anno precedente in Argentina da Tinta Limón, casa editrice assieme a cui abbiamo provato a mettere in circolo il desiderio della famiglia di Marielle Franco di tenere vivo il dibattito intorno alla richiesta di giustizia rispetto al suo omicidio e a quello del suo autista Anderson Gomes, avvenuto nel marzo 2018, e per cui ancora non risulta chiaro chi siano i mandanti. L’immagine di Marielle è diventata in questi anni un simbolo per la marea transfemminista che ha attraversato l’intero globo a partire dal Sud America. Tradurre questo libro in italiano ha significato per noi non soltanto presentare Marielle come un simbolo di lotta e di giustizia per le donne, ma offrire a chi ha sentito parlare di lei, e a chi la scopre per la prima volta, l’esempio concreto del suo vissuto. E si tratta di un vissuto straordinario, che nel libro è presentato nel suo percorso politico di donna nera che dalla favela da Maré diventa la quinta consigliera più votata a Rio de Janeiro, attuando una politica a favore dei diritti umani delle persone nere e lgbtq+. E che emerge inoltre dalle sue ricerche come sociologa nelle favelas militarizzate della Rio dei grandi eventi, con lo studio di un corpo speciale di polizia, le Upp, che anziché garantire la sicurezza degli abitanti delle favelas, hanno mantenuto intatto il livello di violenza, tenendo in scacco le vite delle classi meno abbienti.
AC - Il libro seguente era stato pubblicato in lingua originale nel 2007, ed è tradotto in italiano per la prima volta da Valeria Gennari, s’intitola Perdi la madre e lo ha scritto Saidiya Hartman.
«Perdi la madre risuona ancora in tutta la sua rilevanza. Insistendo sull’importanza di conoscere storie non documentate o lasciate ai margini di storie più conosciute», scrive Barbara Ofosu-Somuah, che ne ha scritto la presentazione per il pubblico italiano. Perdi la madre è un libro narrativo, potremmo dire, ma non c’è finzione, racconta la verità. Ecco, come si può raccontare il margine? La lezione di Saidiya Hartman, secondo me, è paradigmatica anche del modo di fare editoria di quelli di Tamu (correggimi se sbaglio): radicalizzare gli strumenti, forzare il pensiero e le sue forme espressive, ricercare la radicalità. Sei d’accordo? Ma la vera domanda è: cosa vuole dirci questo libro, in questo contesto, a questo punto della storia di questo catalogo?
CC - Sono d’accordo, e credo che questo sia il motivo per cui il libro di Saidiya Hartman sia uno di quelli a cui siamo più affezionati. E non solo per l’importanza politica del tema che tratta, ovvero l’idea di considerare la tratta atlantica non soltanto come un triste evento da confinare nel passato, ma quella di prendere in seria considerazione i suoi effetti sul presente, le conseguenze di quella che lei chiama “la vita postuma della schiavitù” su milioni di vite nere nel mondo. La ricchezza di Perdi la madre sta in ciò che Hartman chiama fabulazione critica, ovvero la possibilità di utilizzare la letteratura come un metodo per scardinare quegli archivi della Storia in cui è stata chiusa a chiave la soggettività degli sconfitti – in questo caso, dal punto di vista dell’autrice, ancor più degli schiavi, quella delle donne schiavizzate che non risultano negli archivi della Storia se non sotto forma di merci e numeri, e comunque sotto lo sguardo bianco e maschile. È in questo modo che i generi letterari sono posti al servizio di questa ricerca della radicalità di cui parlavi. Nel fare ciò, Hartman ibrida la forma del saggio storico con uno lirico memoir narrativo del suo viaggio in Ghana sulle tracce dei propri “antenati” schiavizzati. Un andirivieni di stili e di scritture, sospeso tra passato e presente, in cui trova spazio una riflessione corrosiva su cosa vuol dire essere neri oggi. Per questo motivo, si tratta senza dubbio finora del nostro libro più narrativo. E chissà che, a questo punto del nostro catalogo, non suggerisca qualche incursione futura nella narrativa vera e propria…
AC - A questo punto bisogna aprire una parentesi sulla rivista semestrale Arabpop. Rivista di arti e letterature arabe contemporanee, un altro lavoro collettivo – per statuto, essendo una rivista – e sempre orientato a Sud, questa volta verso un sud che forse effettivamente siamo malamente abituati a tralasciare o a guardare di traverso, solo quando un fenomeno attira l’attenzione della macchina mediatica occidentale. E questa è una questione linguistica e culturale ma anche politica e sociale, lo sappiamo. Proviamo a raccontare ai lettori cos’è Arabpop, da dove viene, chi ci lavora e cosa ci si può e ci si potrà trovare dentro, in questo primo come anche nei prossimi numeri?
CC - Era dicembre del 2020 e Tamu Edizioni esisteva pubblicamente da meno di due mesi, quando ci scrive via mail un gruppo di ricercatrici, esperte di arte e letteratura araba, che aveva già dato vita a un libro (uscito per Mimesis quello stesso anno) che ci era piaciuto tanto. Il progetto di Arabpop è una proposta che abbiamo accolto con entusiasmo quando le cinque redattrici (Chiara Comito, Fernanda Fischione, Anna Gabai, Silvia Moresi, Olga Solombrino) ce l’hanno proposto, riportandoci a quell’immaginario che ha contraddistinto soprattutto il progetto della libreria nella sua prima parte di vita, ovvero quello di uno spazio dedito alla conoscenza della letteratura e della cultura araba. E l’idea di trasformare un volume, nato per tributare la stagione culturale di quei paesi scossi dalle rivolte della cosiddetta primavera araba, in una rivista, per poterne raccogliere periodicamente il fermento e le numerose metamorfosi (che non a caso è il tema del primo numero uscito lo scorso settembre), ci ha convinto subito.
Il primo numero, che ha avuto un riscontro che è andato molto oltre le nostre aspettative, ha ospitato poesie, estratti e racconti inediti di autrici e autori arabi, reportage e articoli delle scene culturali contemporanee dei vari paesi, uno speciale omaggio a Beirut e infine segnalazioni, recensioni di libri e una playlist di musica elettronica e trap. Arabpop ha avuto il merito, con questo primo numero, di decentrare quello sguardo da occidentali che assumiamo quando pensiamo ai paesi arabi. Siamo abituati a osservarli attraverso molteplici stereotipi mediati dalla lente dell’arretratezza che proiettiamo su di loro, nonostante a separarci geograficamente da questi paesi ci sia soltanto un mare. Eppure, immagino che nessuna delle persone che ci sta leggendo ora si aspetti di trovare in Arabia Saudita uno dei producer più interessanti della musica elettronica araba contemporanea. O, per farti un esempio di come attraverso l’arte si può cambiare la percezione politica di certi fenomeni, anni e anni di costruzioni del femminismo occidentale sul corpo delle donne arabe vengono smontati dal reportage di un festival queer e femminista che si tiene ogni anno in Tunisia. Con lo stesso spirito di curiosità verso un mondo che siamo abituati invece a giudicare con superiorità, anche nel prossimo numero Futuro (in uscita il prossimo aprile), si proverà a raccontare come l’arte e la cultura arabe articolano la tensione tra realtà apocalittiche e desiderio per il futuro attraverso nuove narrazioni che trascinano l’umanità oltre un presente soffocante e alienante.
AC - Mentre continuiamo a scrivere questa interminabile intervista avete dato alle stampe un libro molto importante: Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, nuovamente un testo di bell hooks, un vero e proprio manuale di femminismo che prova a parlare a tutte e tutti in modo chiaro e limpido, per coinvolgere ognuna e ognuno di noi. Un libro che è subito e inaspettatamente arrivato primo alle Classifiche di Qualità dell’Indiscreto e che ha onoratamente salutato l’autrice, che ci ha lasciati poco dopo. Alla luce di tutto ciò, cosa significa per voi bell hooks? Cosa è successo da Elogio del margine a oggi? Pensi che continuerete a pubblicare i suoi scritti (magari puoi darci qualche anticipazione)?
CC - bell hooks è stata una pensatrice straordinaria, una di quelle che aprono letteralmente il cammino verso la trasformazione della società, che per l’autrice (e per noi) non può che darsi se non in senso femminista. Ed è stata un’autrice ambiziosa, cosciente dei cambiamenti intervenuti nel mondo negli ultimi decenni e dell’importanza di arrivare a discutere di temi complessi anche a persone che non hanno apparentemente gli strumenti per approcciarli. Il femminismo è per tutti nasce dal suo bisogno, sin da giovane, di avere un volumetto accessibile per parlare di tali temi anche a chi banalizza le teorie femministe riducendole al pensiero di donne-arrabbiate-che-odiano-gli-uomini. Ma credo che la forza più esplosiva di questo libro stia nello spiegare (nonostante sia stato scritto vent’anni fa!) cosa non va nel femminismo contemporaneo. Mostrando perché, ad esempio, il movimento si è fermato quando molte donne bianche hanno rinunciato a una battaglia per un mondo più giusto, chiedendo più diritti solo per sé stesse e invisibilizzando così l’esperienza di razzializzazione subita dalle donne nere. O perché il femminismo diventa soltanto uno stile di vita se non mette in discussione le strutture di potere esistenti. Siamo contenti che anche in Italia si cominci a riconoscere l’enorme contributo di questa autrice, grazie al lavoro che noi e altre case editrici stiamo facendo e continueremo a fare. Ma non è solo merito nostro: durante alcune presentazioni di Elogio del margine/Scrivere al buio, Maria Nadotti ha osservato più volte giustamente come le nuove generazioni siano oggi molto più attente alle tematiche affrontate da bell hooks di quella che riceveva i suoi testi negli anni ’90. Il mondo è cambiato molto da allora, ma il pensiero di bell hooks, che era già riconosciuta come una figura importantissima negli Stati Uniti e non solo, continua ad essere attuale.
AC - L’ultimo testo che avete pubblicato è un altro libro collettivo, che ho immediatamente associato ad Undercommons, anche se l’argomento e le caratteristiche superficiali del libro farebbero pensare a tutt’altra cosa. S’intitola Trame. Pratiche e saperi per un'ecologia politica situata ed è curato da Ecologie politiche del presente, un gruppo di persone che si occupa, ragiona, studia e agisce intorno ai temi legati all’emergenza ambientale, a partire da uno sguardo geograficamente situato – dichiaratamente a Napoli. Un libro che ho trovato a dir poco visionario perché riesce a coniugare con sapienza un linguaggio politico che deriva dalle pratiche sociali che racconta e una certa attitudine filosofica che tende a illuminare i grandi temi della contemporaneità in maniera pragmatica ma comunque utopistica, descrivendo un’utopia buona, che semplicemente ispira l’agire nel mondo dell’individuo. Un libro che concretizza l’arcinota espressione “think globally, act locally” rendendosi un manuale possibile di ri-cognizione del presente e di visione futura.
Da dove viene l’esperienza di Epp e cosa ci aspetta nell’omonima collana a cui Trame dà inizio? Cosa è Ecologie politiche del presente?
CC - Ecologie politiche del presente è una rete di ricercatrici, studiosi, attiviste e militanti che è nata a Napoli nel 2018 come laboratorio di formazione e di studio intorno al tema dell’emergenza ambientale, coniugando esperienze di lotta ambientale e teorie e pratiche che rompono con la centralità umana nel rapporto con le altre specie, nell’arte e nella tecnologia. Come tanti ottimi lavori usciti negli ultimi tempi è un ulteriore strumento di riflessione sulla catastrofe climatica e ambientale che stiamo vivendo, che però, rispetto ad altri testi, ha una sua specificità particolare, che consiste nel fatto che la maggior parte delle riflessioni contenute in Trame scaturiscono dal posizionamento della maggioranza delle persone che hanno scritto per il volume. Qui sono proprio le pratiche di lotta per la giustizia ambientale nel Sud Italia e in tanti sud del mondo, e dei movimenti sociali urbani, ecologisti, transfemministi e di difesa dei beni comuni a farsi teoria radicale di trasformazione. È il tipo di libro che immaginavamo per inaugurare questa collana, con cui ci auguriamo di mettere insieme una serie di volumi che riflettano l’impostazione per cui nessuna giustizia ambientale è possibile se non connessa a quella di razza, classe e genere.
AC - Domanda di rito: cosa ci riservate per il futuro? Puoi darci qualche anticipazione sui libri e sui progetti e le attività che avete già in mente di fare?
CC - In questo 2022 contiamo di pubblicare otto libri, ti anticipo in esclusiva i primi due, che vedranno gli scaffali delle librerie a marzo. Il primo è Jin Jiyan Azadi (Donna, vita, libertà), una monumentale e avvincente ricostruzione della rivoluzione delle donne curde che negli ultimi decenni hanno lottato per un modello di società radicalmente diverso da quello capitalista e patriarcale dell’occidente, strette nella morsa della repressione del governo turco contro il popolo curdo. Un libro sui generis nella forma, poiché scritto da un gruppo di internazionaliste che hanno partecipato alle attività dell’istituto Andrea Wolf di Barcellona, e che a loro volta ha intervistato le militanti curde protagoniste di questo cambio di paradigma. La seconda uscita del 2022 è invece una traduzione inedita di un saggio dell’apprezzato storico israeliano Ilan Pappè, che si intitola Dieci miti su Israele. Un volume piccolo, ma incisivo, con cui lo storico smonta uno ad uno alcuni dei luoghi comuni più tenaci sulla storia del conflitto israeliano-palestinese che vengono riproposti dai governi e dai media occidentali per non mettere in discussione lo status quo della regione. Non ti svelo oltre, ma chissà che qualcosa che mi è scappato tra le righe in una domanda precedente, non diventi realtà, magari nella seconda parte dell’anno…
è co-animatore dell’esperienza di Tamu Edizioni. Dopo aver conseguito un dottorato in Studi Internazionali all’Orientale di Napoli, lavorando sulla colonialità delle rappresentazioni dei meridionali ai tempi dell’unificazione italiana, si è dato alla fuga dal mondo accademico.