In questi tempi si moltiplicano progettualità che vanno in direzione di una riconfigurazione. Perché proprio adesso e non prima?
Giuseppe Ungaretti dichiarò che trovandosi a scrivere poesie in trincea ("nel pericolo") non poteva usare il linguaggio che avrebbe usato nella vita civile: doveva rinnovarlo. Trent'anni dopo, al termine del successivo conflitto mondiale, lo stesso problema lo ebbero i registi e gli autori neorealisti. Di nuovo, rinnovarono stili, metodi e linguaggi.
L'instabilità, il logoramento, la precarietà, il pericolo, la crisi: questo genera nuovi fenomeni. Rende alcuni elementi del pensiero vecchi, altri imminenti e necessari. Succede qualcosa di simile nella nostra epoca?
Cinque sono i fattori che innalzano il livello di instabilità e ci mettono in crisi: il degrado del sistema in cui viviamo (ambiente), la crescita della popolazione (demografia), i conflitti civili e internazionali (società), le risposte insufficienti delle istituzioni (politica), la crescente ansia della specie (psicologia, etologia).
Se c'è una cosa per la quale la nostra epoca si caratterizza è forse proprio la mole di risposte che dobbiamo dare, per il potenziale effetto catastrofico che l'inattività potrebbe causare.
I problemi hanno sempre una soluzione (non sempre positiva o auspicata) e aprono strade, di qui il paradosso, per altro, di vivere da una parte il senso del limite, dall'altro l'agorafobia dei possibili scenari, del deflagrare delle incognite.
I problemi della nostra epoca sembrano avere tutti qualcosa in comune. E cioè, a differenza dei problemi dei secoli trascorsi, quello di dover essere affrontati non incrementando l'azione, come ad esempio poteva essere il problema dell'alfabetizzazione (costruire più scuole, formare più insegnanti) o della fame (aumentare i raccolti, gli stipendi), ma al contrario ripiegandosi, riavvolgendo i fili di un discorso caotico e sfuggito di mano.
L'idea di un generale ripensamento del nostro modo di vita, della società, dell'economia, si era fatta largo già prima della pandemia, e questa ha solamente agito da catalizzatore. La direzione è univoca, ma le sue propagazioni toccano ambiti diversissimi. Ne elenchiamo alcune.
Riconsiderare il proprio ruolo, ricalibrare l'impatto dell'uomo. Non se ne è parlato ancora a sufficienza, o meglio, non si è ancora trovato un reale punto di incontro tra l'aggressività del mercato e una seria politica che metta al centro la responsabilità. Eppure molto si sta facendo, contrariamente a quello che si pensa. Qui la tecnologia gioca un ruolo cruciale, a filo doppio: sia perché ancora si fa troppo affidamento al suo potere salvifico (limite strumentale), sia come limite effettivo della tecnica (limite sostanziale).
Riconfigurare gli spazi e riaggiornarne le finalità (repurpose) non si inserisce solamente nell'hype del distanziamento sociale che sarà, salvo ritorni ciclici frequenti, di breve durata. Come noto e ricordato ampiamente in questi giorni, fu il colera a dare un impulso allo sviluppo di una moderna rete fognaria; e furono anche le necessità di controllo delle truppe a cavallo una ragione in più per il progetto dei grandi boulevard di Parigi.
La sperimentazione dello smart working è un caso di presa di coscienza sui punti critici della logistica di tutta la "linea" lavorativa: dal dover andare fisicamente a lavorare in un luogo separato, a volte molto distante da casa, al dover trascorrere le ore di lavoro in spazi rigidamente definiti. Questa riflessione apre a molte scelte: Densità vs. Porosità, Cubicolo vs. Open Space, Ufficio vs. Coworking, Grattacielo vs. Architetture più capillari, organiche, ecc.
Ricostruire alcuni elementi di centralità delle scelte e di autorità, dopo anni di deregolamentazione e decentramento, è un processo che riguarderà molteplici aspetti: quello politico, che riguarda in primis il ruolo dello Stato (si discute di uno Stato che torni a prendersi cura di servizi essenziali come la sanità); quello delle authority e degli organisimi di controllo sull'utilizzo e la pubblicazione dei dati; il ritorno a scuole e pratiche capaci di ristabilire una maggiore consapevolezza di sé, migliorare il rapporto con il nostro corpo, la sfera sociale, il benessere e così via.
Riallacciare le reti della socialità e ridurre il gap tra le parti abbienti e quelle più indigenti della società, necessità che la crisi economica del decennio passato non aveva ancora fatto esplodere, e che improvvisamente ritorna sotto gli occhi sotto il segno razziale (in USA come in Brasile), è un'altra sfida che necessita un ritorno alla teoria dei patti sociali. Non si teorizza qualcosa di nuovo (come ad esempio è il caso del reddito di cittadinanza, che pure va in questa direzione), ma si riassume come centrale il peso della solidarietà e dell'umanità.
Riportare indietro o addirittura all'origine spazi e ecosistemi perduti, in particolare gli spazi naturali (rewilding), come nei punti precedenti, significa fare un passo indietro o addirittura farsi da parte e scomparire, lasciando il passo non al mistero, ma più semplicemente a chi già lo occupava prima della nostra ingombrante presenza.
In tutti i casi si tratta appunto di una ricucitura, sia con la realtà, sia con la nostra fisicità, sia con i nostri simili. Ciò appurato, il problema nel problema è il prezzo di questo "sgonfiamento", che può essere altissimo. Più che parlare di "decrescita felice", bisognerebbe parlare di decrescita sostenibile.