Una riflessione riguardante l'ultimo libro di Michele Mari, "Le maestose rovine di Sferopoli", con le sue ossessioni, forme e contraddizioni.
Di recente ho fatto un viaggio a Sferopoli. Ho percorso la Strada Provinciale 921, ne ho seguito ogni indicazione con attenzione, un passo dopo l'altro: mi sono ritrovata in un mondo di ossessioni, incubi, creature fantastiche. In un universo parallelo in cui ogni solida e consueta certezza viene spazzata via e se ne affermano di nuove mai viste. A Sferopoli tutto ha la propria forma, ben consolidata, e al nuovo visitatore non resta altro che la contemplazione delle rovine. Non è, questa, un'attività da poco: a Sferopoli è importante osservare tutto con cura, guardarla e scoprirla pezzo dopo pezzo. Il risultato, per il turista, si traduce in una sorprendente passeggiata tra grandi architetture, biechi personaggi e l'esaltazione del contrasto.
Ad accompagnarci in un mondo onirico in cui tutto è il contrario di tutto è Michele Mari nel suo nuovo libro Le maestose rovine di Sferopoli, nel quale spiccano le sue doti di narratore del favolistico, che al contempo passa abilmente da una dimostrazione all'altra: di padronanza linguistica, affabulatoria, descrittiva. Architettonica, persino. A suggellare l'idea del movimento oscillatorio, quasi ipnotico, che si avverte sin dalla prima pagina, concorre la forma scelta da Mari per il nostro viaggio a Sferopoli: il racconto. Che siano di maggiore o minore lunghezza, i racconti di Mari sulle attrazioni sferopolitane mantengono nel DNA la loro caratteristica ontologica per eccellenza, ovvero la transitorietà, la quale conduce alla seconda - opinabile, certo - idea che ci si fa sugli scritti racchiusi nell'opera di Mari: quel che l'autore mette nero su bianco, talvolta veri pastiches di rimandi letterari e filosofici, non sempre gode di un'interpretazione immediata e, laddove questo accada, mantiene comunque il potere di far sentire chi legge incredibilmente frustrato.
Attenzione, non che questo sia un male. È, anzi, un rischio calcolato. Tuttavia, tale complicazione non è indotta dall'inesplicabilità di alcune curiose bizzarrie sferopolitane, o almeno non solo, ma dalla tematica principale che lega un racconto ad un altro: le ossessioni, materia di dibattito scientifico, ma anche spunto creativo.
Quali sono le ossessioni a Sferopoli?
Un esempio è sicuramente la testimonianza del paziente G.L. del neuronosocomio di Gavirate, protagonista del racconto Scioncàccium, che, per scacciare quelle che definisce "sinistre influenze", si affida ad un'assurda associazione mentale con l'attore Sean Connery, che non viene scelto per una specifica preferenza delle sue doti attoriali. La scelta è del tutto casuale, non ha senso e funziona solo se accompagnata dai cognomi di altri due attori, Gene Hackman e Robert Mitchum perché, recitando come in una litania i tre nomi, ne viene fuori una formula strana e nonsense che, però, è del tutto efficace: scioncàccium, se ripetuto, placa le ossessive paure del paziente psichiatrico.
Dopo aver letto le pagine di questo racconto, non si può far a meno di riscontrare una certa somiglianza con alcune odierne fissazioni: se il solo nome di grandi attori della Hollywood così lontana da Gavirate funziona da talismano, gran parte del merito va dato all'illusione di conoscere ogni lato della vita delle celebrità. Questo le rende meno misteriose, più alla portata comune e talmente vicine da permettere a chiunque di immedesimarsi nelle loro esistenze, subendone la malia e rinunciando a sfumature personalistiche.
Di un'analisi ben più inquietante si parla in un altro esempio di ossessione presente nel racconto Oniroschediasmi. Al centro vi sono le visioni, gli incubi e le piccole fissazioni del soggetto sognante, che spesso finisce in dimensioni lovecraftiane oppure si cala talmente tanto nella dimensione onirica che si interroga sulla natura stessa del sogno. È realtà o apparenza? E chi sogna ne è soggetto o è un oggetto in balia dell'ignoto? Il pericolo di penetrare nel mondo onirico e la mise en abîme nell'immediata insensatezza dell'estemporaneità dei resoconti notturni sono dietro l'angolo. Uscirne è arduo come pericolosa è la completa discesa nella spirale dei sogni e degli incubi che si fanno tormento.
L'uso della tematica onirica nell'opera di Mari quasi mai ci parla di evasione, leggerezza, di uno stato di trance benefica; sembra, semmai, uno strumento atto a portare a galla le ossessioni della veglia e a tradurle per modificarne il codice e adattarlo più armoniosamente alla realtà. Il protagonista di Oniroschediasmi sembra arrivare ad un vero "faccia a faccia" con i suoi sogni - e, va da sé, le sue ossessioni - ma per altri, come il reduce di Sull'atollo, lo stato onirico, se non è accompagnato ad una parafrasi del reale, non fa che creare nuovi tormenti. Il sottotema della traduzione ricorre anche in un altro racconto, uno di quelli che all'apparenza sembrano meno ovattati e inafferrabili, Sghru, in cui uno studente, durante un esame, stupisce il docente con la traduzione di All'amica risanata di Foscolo nella sua lingua nativa di Gn'lyach. Siamo alla pura manipolazione linguistica: Mari, in poche righe, riprende il testo foscoliano, lo tramuta in qualcosa di incomprensibile e, sorprendentemente, apre un varco dal quale il turista-lettore puuò succhiare l'aria e respirare un po'.
Respirare, certo, dal momento che la qualità dell'aria a Sferopoli è pessima. Ospita incubi e nevrosi ed i suoi abitanti conducono un'esistenza esasperante e opprimente: sotto la sua cupola sferica e chiusa, si sottostà ad un clima di ambizioni logoranti e tic nervosi che il viaggiatore, sebbene di passaggio, non può che assorbire e fare propri. Contro il soffocamento, all'occorrenza, Mari somministra un lenitico a base di ironia che ammorbidisce e smussa i mostri della mente che di tanto in tanto fanno capolino. A partire dall'utilizzo di attori hollywoodiani come feticci scaccia-panico, compone un pastiche umoristico contenente in sé tutti gli ingredienti per una ricetta ansiolitica trascinante e quasi magica, forse anche efficace. Ma quando la malia sta per compiersi e ogni nevrosi pare allontanarsi, ecco che queste ritornano respingenti e brutali; finiscono le melodie e torna la realtà. Un esempio di questo meccanismo di alternanza ossessione-ironia e di ripristino circolare e vittorioso della prima ce lo offre il racconto Con gli occhi chiusi, in cui sono poste l'una di fronte all'altra l'ironia e il tormento, che finiscono per mescolarsi e fondersi in una soluzione acida e corrosiva. Mai farle incrociare troppo a lungo, il risultato sarebbe soffocante.
Un'altra considerazione sul ricco mondo di Sferopoli: un turista qualunque non può far a meno di interrogarsi sul nome della sua meta, che certamente troverà alquanto evocativo. In suo aiuto accorrerà ancora una volta l'autore stesso della guida sferopolitana, la cui forma definisce "perfetta". Giunti al livello successivo di conoscenza di Sferopoli, potrebbe essere d'aiuto sapere cosa quest'ultima non è:
"Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un Essere come noi, ma confinato nel baratro adimensionale. Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo; egli non può concepire altri fuori di se stesso: egli non conosce lunghezza, né larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza; non ha cognizione nemmeno del numero Due; né ha un'idea di pluralità."
scrive Edwin Abbott Abbott nel trattato fantascientifico di geometria Flatlandia, il cui protagonista e narratore è un Quadrato, abitante della Flatlandia, che si imbatte in una Sfera proveniente da Spacelandia, alla quale è deputato il compito di rivelare alla povera figura piana, inconsapevole delle verità universali, che esiste vita al di fuori della bidimensionalità. Nel dialogo sopracitato, la Sfera dimostra il grado di inconsapevolezza dell'esistenza a Pointlandia, la più piccola forma di vita, in cui l'Uno basta a sé stesso, convinto, per questo, di aver raggiunto la felicità. Nulla di più sbagliato, di più distante dalla perfezione. Al contrario, tornando a Mari, la sfera è una forma perfetta perché osservabile a tutto tondo; mostra sé stessa e la realtà per come sono, per quanto cupe e patologiche. Offre una visuale aperta e totale: la sfera è profetessa, tanto nel trattato fantascientifico di Abbott quanto nel mondo immaginario di Mari. La grande differenza tra i due universi - quello di Flatlandia e quello di Sferopoli - risiede nell'opinione che si ha della tematica onirica, che, insieme a quella ossessiva, campeggia in entrambi gli scritti: mentre in Mari, il sogno può combinarsi con il mondo della nevrosi, in Abbott le visioni chiariscono la realtà e ne rivelano i codici. Ad ogni modo, in entrambi, la tematica onirica si accompagna ad un altro punto d'interesse del mondo sferopolitano, coincidente, per importanza, anche nell'universo di Flatlandia: il senso della vista.
In apertura del racconto Panopticon, Mari inserisce una citazione del poeta Leonardo Sinisgalli contenuta nel suo lavoro Furor mathematicus e che precisa efficacemente il ruolo della vista nella fantascienza di Sferopoli: le parole di Sinisgalli auspicano la nascita di una scienza visionaria, "che spieghi i sogni, le immagini, le apparizioni, gl'incantesimi della pupilla e della memoria", che sia esatta e progressista quanto le conquiste tecnologiche e scientifiche. L'Ispettore, il protagonista di Panopticon, viene colpito da un'intuizione fulminea durante uno spettacolo teatrale: incerto se Amleto stia guardando o meno nella sua direzione, l'uomo è condotto implicitamente verso un atteggiamento speculare. Lui è quello seduto e al contempo quello che recita sul palco e assume, perciò, le sembianze di un attore shakespeariano. L'illuminazione che lo coglie si riflette all'istante sul suo lavoro: il progetto di un carcere a Santo Stefano di Ventotene, dal nome Panopticon, la cui peculiarità strutturale è ispirata al palcoscenico. L'architettura circolare permetterebbe di tenere sotto osservazione tutti i detenuti e la posizione delle luci non consentirebbe loro di comprendere se, in un dato momento, la sorveglianza sia rivolta a uno piuttosto che a un altro. Così, nel dubbio, ognuno di loro è portato ad assumere l'atteggiamento migliore possibile.
Come in una recita.
Il sistema del panottico era, per filosofi come Foucault o scrittori come Orwell, il simbolo dei meccanismi dietrologici del sistema sociale che agisce sul singolo in modo invadente e penetrante, fino al controllo totale del corpo e della mente. Potrebbe suonare forse un tantino apocalittico, ma il concetto della vista come dono - e strumento di potere - è ben presente anche a Flatlandia, dove solo chi è gerarchicamente superiore alle altre figure piane gode del privilegio di poterle vedere. D'altronde Mari chiude la questione del potere del voyeur avanzando l'esempio più emblematico di tutti: Dio. Rinunciando a filosofie politiche e sociali di sorta, è sufficiente appellarsi alla divinità per rendere l'idea: "Un occhio inscritto in un triangolo, ecco la religione; un occhio inscritto in un cerchio, ecco la riforma carceraria", scrive Mari in Panopticon. Eppure, per quanto affascinante, il potere non è per tutti. Basta poco e l'Ispettore inizia ad accusare gli effetti della finzione, tanto da trascinare di nuovo il turista nel vortice delle ossessioni che fiaccano gli sferopolitani; l'Ispettore è vittima della performance riflessiva del carcere, confonde sé stesso con i detenuti ed è preda della supervisione. Gli stimoli esterni che impattano contro i suoi occhi, resi onniscienti al cospetto dell'architettura circonferenziale, lo logorano fino al delirio allucinatorio.
I riferimenti al senso della vista sono, forse, tra i più sentiti e attuali, in special modo nel contesto del panottico che si unisce a quello della circolarità: ognuno di noi è un singolo intorno al quale ruota un mondo veloce e vertiginoso di possibilità che, illusoriamente e romanticamente, potremmo definire infinite. Eppure, i nostri angoli più nascosti urlano d'ansia e d'aspettative che si teme di disattendere, proprio perché si è sempre sotto osservazione. La progressione tecnologica e della rete comunicativa sta avvenendo, come Sinisgalli profetizzava, ma con un impatto sul modo in cui concepiamo le nostre vite. L'esperienza solipsistica è diventata deprimente, mentre la multidimensionalità e la possibilità di sbirciare le esistenze altrui danno un senso di adrenalina - cioè di dipendenza - fugace, sì, ma facilmente ripetibile.
Come in ogni visita che si rispetti, anche quella a Sferopoli contiene un po' di storia e di riferimenti a fatti epocali. Tuttavia, qui la storia sembra perdere il suo senso solenne di memoir inconfutabile e acquisire un valore artistico. Nel racconto Il senso della storia uno studente interrompe il discorso di un oratore sulla tradizione e l'innovazione per chiedergli cosa si intende quando si parla di storia. Risposta: la storia è come l'arte, la si inventa e la si fissa nella forma conferitale. Il racconto successivo, Medio Evo, conferma queste caratteristiche: si tratta di pura e semplice narrazione, e come tale ha le sue regole e i suoi cliché. Pertanto, non dovrebbe sorprendere la sua ciclicità, il modo in cui, dovunque, è sempre uguale a sé stessa e si attiene ai medesimi canovacci da millenni. Non sorprende, ma soffoca: non solo nel presente, ma anche nel passato di Sferopoli torna la tematica dell'asfissia ossessiva, avallata da una sensazione di circolarità vertiginosa.
Nonostante i mezzi di fruizione della storia e di approdo alle conoscenze ad oggi siano cambiati, nei due racconti a sfondo storico è chiaro come sia invariata la narrazione degli stessi eventi storici. In un mondo in cui, come in Flatlandia, l'Uno, povero diavolo compatito, gode di scarsa considerazione e la visione sferica a tutto tondo giganteggia, si rischia di sentirsi desolati al cospetto della verità: tutto si muove, nulla cambia realmente.
Le maestose rovine di Sferopoli riunisce fantascienza, psicologia e storia in una raccolta di racconti che lo costituiscono quasi come libro di avventure, alla maniera di Flatlandia, ma con uno spazio ben più ampio dedicato alle nevrosi, che trovano il loro posto tra i sogni, le affabulazioni linguistiche e le visioni deliranti dgli abitanti di Sferopoli. Mari ci avvisa dell'imminente sconvolgimento emotivo sin dal primo racconto Strada Provinciale 921, nel quale quella che sembra una normale guida turistica pian piano diventa una specie di lista delle sintomatologie ossessive. Nomi evocativi, come Lande Vetrate, Urlo, Respiro del Male, si susseguono in un ritmo che diventa sempre più lento e strozzato, sincopato e affannato, fino alla meta decisiva del viaggio, la Cappella della Stortura che ospita nel Museo, nel quale confluiscono tutti i morti del mondo, vittime dei più neri tormenti: "nel Museo, in un plastico, voi. State guidando sulla SP 921". Non è assurdo, dunque, ritenere che Sferopoli non sia altro che il pianeta su cui viviamo. Entrambi hanno in comune il peso del soffocamento e delle nevrosi dovute alla fallibilità dell'essere umano, in nome della quali Mari invita ad osservare quel che si staglia all'orizzonte di un mondo destinato, prima o poi, a scoprire i propri traumi: rovine della mente e spaventose ossessioni, sorte dalla duplice e opposta tendenza che ci guida. Da un lato la velocità, la molteplicità e la visione sferica, dall'altro la paura del tempo che scorre e della solitudine, l'ansia di non riuscire a mettere insieme i pezzi scomposti di tante vite, che poi sono una sola, che si guardano allo specchio e non si riconoscono.