La sensazione che il capitalismo sia messo alle corde dai tempi che viviamo è sempre più diffusa. Eppure è estremamente difficile immaginare ciò che può venire dopo.
La connettività è una delle caratteristiche fondanti del mondo che abitiamo. Essa è, come dice Andrew Culp in Dark Deleuze, “il nome dato alla crescente integrazione di persone e cose attraverso la tecnologia digitale”. Nata come tecnologia militare con lo scopo di garantire la comunicazione e, di conseguenza, la tenuta della catena di comando in caso di conflitto atomico, la rete informatica che abilità la connettività è diventata rapidamente la forma egemonica di organizzazione delle attività umane e del pensiero che le sottende. Dalle reti logistiche alle rappresentazioni scientifiche, il paradigma reticolare ha riorganizzato il nostro modo di relazionarci al mondo. “Filosoficamente” sostiene ancora Culp “la connettività riguarda la costruzione del mondo”.
Quello costruito dalla connettività è dunque un mondo a forma di rete. Un mondo fatto di nodi e connessioni, che sono le linee o i vettori lungo cui l’informazione viaggia e viene scambiata. Questi nodi e queste connessioni possono avere una dimensione hardware, ed essere quindi un complesso di computer, singoli od organizzati in batteria, e cavi che li collegano tra di loro. Oppure possono avere una dimensione software e di conseguenza assumere la forma del grafo delle relazioni che legano tra loro singole persone o intere comunità. In entrambi i casi il loro scopo è regolare il flusso e la distribuzione dell’informazione, garantendo la possibilità della comunicazione.
Agli albori della cultura digitale, questa possibilità di connessione, scambio e comunicazione è stata salutata con toni entusiastici. L’elevato interscambio tra persone distanti nel tempo e nello spazio consentito dalla rete informatica globale, questo il pensiero dei fautori dell’ottimismo tecnologico, si sarebbe trasformato in una più profonda comprensione reciproca e nella completa trasparenza dei processi sociali, politici ed economici.
Le cose sono andate diversamente e, prendendo ancora in prestito le parole di Culp, bisogna “riconoscere che l'ottimismo a briglia sciolta per la connessione ha fallito. Le zone temporaneamente autonome sono diventate zone economiche speciali. Le conseguenze materiali del connettivismo sono chiare: il terrore dell'esposizione, la diffusione del potere e la sovrasaturazione dell'informazione”.
Per dirla in altro modo, il Datagate e Cambridge Analytica sono gli scogli su cui si sono infrante le promosse di utopia delle tecnologie digitali. Opacità, sorveglianza e produzione di plusvalore comportamentale hanno sostituito la trasparenza e la comprensione che ci si aspettava ne sarebbero derivate. Ma le conseguenze del fallimento del connettivismo non si fermano qui. Come riflette in modo brillante Aaron Z. Lewis nel saggio The garden of forking memes, “internet ha appiattito il vasto archivio del passato e reso la storia inesorabilmente immediata come mai prima d’ora”. Questo appiattimento ha fatto sì che la nostra esperienza collettiva del tempo (e, di conseguenza, i punti di vista che scegliamo sul reale che ci circonda) venisse fratturata, dando vita a una serie pressoché infinita di narrative e concezioni del passato, del presente e del futuro in aperto contrasto tra loro. La rete informatica somiglia perciò a una superficie liquida su cui si aprono di continuo vortici, capaci di trascinare chi sta navigando su di essa in dimensioni invisibili, nascoste, all’interno delle quali la realtà viene ricostruita in base a una delle numerose, infinite identità offerte nel panorama culturale contemporaneo. Oppure, per usare l’immagine di un'altra acuta studiosa dei fenomeni digitali, Bogna Konior, internet è una Dark Forest, una “foresta oscura, le cui radici crescono al contrario e le chiome scendono verso il passo. [...] uno spazio tangibile, ma anche un’estensione della mente”.
All’interno di questo spazio noi possiamo accedere “grazie a un’interfaccia, ma anche attraverso le nostre tasche. Possiamo accedervi attraverso uno schermo, ma per farlo siamo obbligati a proiettare al suo interno qualcosa di noi stessi”. Questo fa sì che, quando siamo connessi, quando siamo “in rete”, percepiamo come intensamente personali tutta una serie di eventi la cui dimensione globale dovrebbe, al contrario, rendere impersonali per noi, dal momento che non ricopriamo un ruolo al loro interno.
”Everything feels personal, even the fate of the world, which appears to us as one, common world streamlined alongside our individualized news feed.”
Comunicazione, proiezione del sé, racconto della verità su noi stessi e rivelazione delle nostre coordinate sono le condizioni che ci vengono poste per entrare in connessione con gli altri all’interno della rete. Ma queste sono accompagnate da un rischio. Un rischio elevato, collegato direttamente ai due assiomi su cui riposa il web 2.0: che la comunicazione sia un bisogno umano primario, necessario alla nostra sopravvivenza, e che la socialità sia il vettore di ogni conflitto umano. All’interno di questa cornice, l’enfasi sulla comunicazione che fa parte dell’ideologia della connettività concepisce questa attività come uno sforzo incessante ed eccessivo verso la chiarezza di ogni scambio, senza accorgersi che è la connessione stessa a produrre quella complessità che genera i conflitti, in un meccanismo che si auto alimenta. Tanto più proviamo a chiarire noi stessi comunicando attraverso sistemi connessi, tanto più il reale si fa complesso e, di conseguenza, conflittuale. È questa la condizione della nostra esistenza nel mondo costruito dalla connettività.
Una condizione che corrisponde a una fase di passaggio, in cui siamo immersi e di cui, proprio per questo motivo, facciamo fatica a intravedere i contorni e a nominare con chiarezza. Anche al cuore di questo passaggio, che è al centro dell’esperimento concettuale portato avanti da McKenzie Wark nel suo recente Capital is dead. Is this something worse?, ci sono l’informazione, le sue modalità di gestione e il modo in cui esse riscrivono gli assetti della nostra società. Gli scritti raccolti all’interno del volume sono organizzati infatti intorno all’ipotesi che il capitalismo, come forma di organizzazione delle produzione economica e della riproduzione sociale, sia morto e che noi stiamo già vivendo all’interno di un nuovo modo di produzione a cui non siamo ancora riusciti a dare un nome. Così come il precedente modo di produzione era organizzato intorno al possesso del capitale e quello prima al possesso della terra, il modo di produzione attuale è organizzato intorno al possesso dell’informazione. La dinamica di classe si arricchisce così di una nuova dicotomia che si affianca a quelle tra proprietari terrieri e contadini e tra capitalisti e lavoratori, quella tra la classe vettorialista (vectoralist class) e la classe hacker (hacker class).
Queste due nuove classi si organizzano intorno ai due poli che distinguono l’informazione come merce. Il primo è relativo alla sua produzione, che è appannaggio della classe hacker e consiste nel lavoro incessante che si appropria di informazione “vecchia” e la rinnova in configurazioni inedite. Forme di informazione “nuova” che sono tali solo in quanto vengono riconosciute da un atto che possiede forza di legge. Il secondo polo è invece relativo alla distribuzione dell’informazione. Questa avviene lungo una serie di vettori, ovvero lungo l’infrastruttura all’interno della quale l’informazione viene instradata, sia nel tempo che nello spazio. Pensare la tecnologia dell’informazione, dice Wark, significa pensare alla tecnologia come a qualcosa che può tanto modellare il mondo in un modo peculiare, quanto plasmarne diversi aspetti. Il controllo di questa infrastruttura è prerogativa della classe vettorialista la quale, dal momento in cui la connettività diventa attributo di un numero sempre più elevato di oggetti, smette di aver bisogno di possedere gli altri mezzi di produzione. Una cesura che si verifica proprio a causa di questa capacità pervasiva della connettività. Innestandosi su cose e persone, la connettività trasforma ognuna di esse in un punto di produzione di informazione, da cui la classe vettorialista estrae valore tramite il controllo dell’infrastruttura lungo cui avvengono quegli scambi che sono assiomatici per il funzionamento della connettività stessa.
Per mezzo della classe hacker dunque, la connettività abilità la produzione di “nuova” informazione a partire dalla riconfigurazione di informazione “vecchia”. Attraverso lo scambio comunicativo che la rende “utile” per chi la produce, questa informazione viaggia lungo l’infrastruttura controllata e messa a valore dalla classe vettorialista che, in questo modo, non è più costretta a possedere i mezzi di produzione, ma solo i canali attraverso cui l’informazione prodotta all’interno del circuito viene distribuita. Più questa la produzione d’informazione è elevata, più aumenta la comunicazione più, ed è questo il punto in cui la riflessione di Wark si salda a quella di Konior, aumentano l’entropia e il conflitto. Perciò è nel cuore della Dark Forest of the Internet che va cercato il something worse di cui parla Wark, che potrebbe essere proprio la capacità della connettività e delle tecnologie che la abilitano di autogenerare il conflitto attraverso l’imperativo a comunicare, dunque a produrre informazione, che è necessario affinché la classe vettorialista possa estrarre valore dall’intera dinamica. Internet e le sue comunità non sarebbero perciò altro che, sostiene ancora Konior, “una sofisticata forma di distruzione reciproca assicurata, sospesa tra la nevrosi e il narcisismo, legata a una necessità di comunicare non negoziabile”.
Nel 1934, quando scrive Tecnica e cultura, Lewis Mumford mette in guardia i suoi lettori dalla possibilità che lo sviluppo tecnico possa essere “rivolto al mantenimento, al ringiovanimento ed alla stabilizzazione del vecchio ordine” e dunque bloccare il passaggio tra l’allora attuale fase di evoluzione della tecnica, che Mumford definisce “paleotecnica”, e quella più attuale, che Mumford chiama “neotecnica” e di cui comincia a intravedere i primi segnali.
La fase paleotecnica è caratterizzata da una serie di elementi. Quelli principali sono i combustibili fossili come fonte di energia per le macchine, il conflitto tra capitale e lavoro come forma delle relazioni politiche e una certa tendenza al pensiero quantitativo e alla quantificazione dei fenomeni del mondo. Quella neotecnica è (o dovrebbe essere) invece una fase caratterizzata dall’elettricità come fonte di energia energia per le macchine, il cui uso verrà confinato solo a quei settori dove essa si dimostrerà indispensabile a perseguire un pensiero orientato alla qualità (della vita e delle relazioni tra gli abitanti del mondo, umani e non), che dovrà essere la forma di pensiero dominante del tempo neotecnico.
Possiamo provare ad attribuire all’avvento della connettività, alla ridefinizione del mondo che essa opera e alla comparsa della dinamica tra la classe vettorialista e la classe hacker il ruolo di sviluppo rivolto al “mantenimento, al ringiovanimento e alla stabilizzazione del vecchio ordine” che preoccupava Mumford. L’assetto che abbiamo descritto fino a questo momento sarebbe perciò un modo in cui la fase paleotecnica esercita la sua cattura sul mondo, impedendo l’avvento della fase successiva. Arrivati questo punto la domanda che dobbiamo porci e se questa cattura, questo trattenimento e questa configurazione a cui la connettività piega il mondo sia inevitabile.
Una risposta possibile possiamo trovarla ancora una volta nelle parole di Andrew Culp. Il suo progetto di dar vita al Dark Deleuze - un personaggio concettuale che faccia piazza pulita del “canone della gioia” derivato dagli scritti del filosofo francese, opportunamente emendato del suo lato negativo e oscuro, che Culp vuole far emergere - è legato a doppio filo con la possibilità di impedire quella cattura. Culp invoca infatti, nei confronti del mondo connettivamente configurato, un gesto di radicale rifiuto che nasce dall’intolleranza. Un’intolleranza che “emerge da questo mondo come qualcosa di intollerabile nel mondo". Qualcosa che chiame ed esige la morte del mondo, ovvero che “ammette l'insufficienza dei tentativi precedenti di salvarlo e piuttosto pone un azzardo rivoluzionario: solo distruggendo questo mondo ci libereremo dai suoi problemi. Questo non vuol dire spostarci sulla luna, ma che rinunciamo a tutte le ragioni per salvare il mondo. Nella mia proclamazione della morte di questo mondo, propongo la critica alla connettività e alla positività, una teoria dei contrari, l'esercizio di intolleranza e il complotto del comunismo”. Il mondo, questo mondo, prova a dirci Culp, non merita di essere salvato. Deve essere annichilito e La “lezione da apprendere è che "dobbiamo vivere doppie vite: una piena di compromessi che facciamo con il presente, e l'altra nella quale tramiamo per disfarli”.
Insomma, per concludere, se vogliamo rompere il presente continuo che la connettività impone alle nostre vite, se vogliamo aprire uno squarcio sul futuro, è di un manuale d’istruzioni per abolire il mondo che abbiamo bisogno. Scriverlo è l’obiettivo che ci poniamo.