L'altra voce
Globale | Pensiero
Un dialogo con l'autrice di "Linguaggi animali" (nottetempo, 2021) sulle basi per riconsiderare il nostro rapporto con gli animali non umani.
Intervista a Eva Meijer
Una conversazione con Alfredo Zucchi, autore del saggio "Una possibilità del linguaggio - Pierre Menard come metodo", pubblicato recentemente da Mucchi Editore.
Il saggio di Alfredo Zucchi, Una possibilità del linguaggio - Pierre Menard come metodo non è un libro per tutti i lettori. Ostico, colto, densissimo quanto pieno di rimandi a contesti diversi (solo un esempio: Foucault e Twin Peaks), è anche illuminante quando si tratta di svelare alcune tra le pieghe (e ferite) più dolenti della letteratura.
Questa letteratura dell'assoluto è la stessa che ha tormentato la vita degli autori che Zucchi ha preso in esame e, in particolare, quella sua forma di vertigine - ce lo dirá poco più avanti: il tutto o il niente - che mina costantemente il movimento e lo spazio della scrittura.
Il saggio è stato pubblicato da Mucchi Editore lo scorso ottobre. Per alcuni estratti (compresa l'introduzione) rimandiamo alle pagine online che li ospitano.
Con l'autore abbiamo voluto scambiare due parole per cercare di chiarire alcuni aspetti centrali nel libro ed espandendo il discorso, per quanto concesso, su temi più generali come la rivisitazione del post-moderno.
Filippo Rosso - Chiarimento di base: il tuo libro è un insieme di più saggi. Si parte dal nucleo centrale costruito intorno alle frontiere ("Hic sunt leones") e agli asintoti vertiginosi del rapporto con il linguaggio per mezzo di parallelismi presenti nell’opera di Jorge Luis Borges, Roberto Bolaño, Michel Foucault e Danilo Kiš; segue una riflessione sul vuoto nella cornice del mondo quantistico (la conversazione con Martin Bojowald); infine, i ritorni, gli sdoppiamenti e i sogni tra Dale Cooper di Twin Peaks e di nuovo Borges. Qual è il denominatore comune di questo “flusso di punti discreti”?
Alfredo Zucchi - Il fisico Ignazio Licata, in una conversazione pubblica intorno al libro, ha isolato la figura del “vuoto come meccanismo generativo” quale elemento all’opera in ognuno dei testi. Quando l’ha detto, in una di queste presentazioni online in streaming su facebook a cui la pandemia ci ha abituati nell’ultimo anno e mezzo, mi è parso di aver capito meglio il libro che io stesso avevo scritto.
Però mi viene da aggiungere che questo libro non isola tanto una figura, quanto invece indica un movimento: se l’asse, la struttura portante del libro, riguarda la presenza di questa casella vuota in funzione della quale l’orizzonte del senso si ritrova ogni volta rimesso in discussione, ciò che più conta è il movimento: la voce che prende la parola ogni volta s’impegna a inseguire il senso nei cunicoli in cui è venuto a infrattarsi. Questo movimento ha a che vedere con la responsabilità. Credo che questo libro cerchi di parlare della responsabilità della letteratura nei confronti di quello che è forse il suo oggetto privilegiato – l’aut-aut più radicale: tutto o niente.
FR - Leggendo il libro si viene trasportati in una dimensione molto teorica, che giustifica a volte una voglia di tornare “a terra”. Sento il bisogno di farti una domanda un po’ assurda sul punto di partenza, che è Pierre Menard: esistono dei Pierre Menard nel nostro mondo, e se sì, in che ambiti agiscono, che genere di identità sono? Partirei da due appunti che dai nel libro, il primo: la lettura di Borges del Don Chischotte, per la quale giustamente dici: “il mondo del libro si confonde con quello del lettore”, il secondo: “Pierre Menard non è più un personaggio, è un metodo”.
AZ - Pierre Menard, direbbe Lacan, è un simbolo, e come tale appartiene a chiunque partecipi del linguaggio. Nel libro si dice che è un metodo, non un simbolo, per evitare la trappola in cui gran parte del pensiero vicino allo strutturalismo è caduta: divinizzare il simbolico. Un simbolo, per restare con Lacan, una volta apparso, riscrive il proprio passato, si dà le arie dell’eterno (puzza di idealismo); un metodo, invece, è stato prodotto (puzza di finitezza e di conflitti, di fisiologia dell’estetica, per dirla con Nietzsche).
Resta il fatto che Pierre Menard è una possibilità: quella di ribaltare l’ordine del mondo modificandone un elemento infimo, infinitesimo. Questo ribaltamento è legato alla frase che hai riportato (“il mondo del libro si confonde con quello del lettore”) e ha un senso preciso: la letteratura parla sempre a qualcuno. C’è una spinta inerente al testo letterario a venire fuori, a uscire fuori, a conquistare la dimensione extratestuale – a volte, come in Bolaño, questa spinta è tematizzata nel testo e sembra una chiamata alle armi. Ma cosa sono queste armi, e in definitiva cosa ci aspettiamo di cambiare, ribaltare? La letteratura cambia la vita?
Essere Pierre Menard è dunque una condizione a metà tra lo scemo di guerra e la macchina combinatoria: impareggiabile, ridicolo eroismo.
FR - Vorrei chiederti la tua opinione riguardo a una domanda non meno vaga della precedente: dando per assodato che il post-moderno sia stato superato – per rimanere in letteratura, quindi sul piano teorico – già in Bolaño, Foster Wallace, Dave Eggers, ecc., e che ci troviamo dentro una nebulosa che verrà canonicizzata tra 10-20 anni almeno: riesci a immaginarti un dopo, un riflusso che faccia tornare attuali le attitudini identificative del post-moderno? O è un revival impossibile, per qualche ragione?
AZ - È una bella domanda, a cui non credo di poter rispondere compiutamente – il motivo per cui non credo di poterlo fare mi interroga. Danilo Kiš scrive, in Consigli a un giovane scrittore: “Non essere ossessionato dalle urgenze storiche e non credere alla metafora dei treni della storia. […] Non saltare, quindi, sui «treni della storia»: è soltanto una stupida metafora”. Kiš non sta dicendo, qui, che la letteratura non si occupa delle tensioni del proprio tempo, ma che ha un suo modo peculiare di occuparsene – l’utopia, secondo lo scrittore serbo, è la fabula veridica, una in cui un conflitto specifico, ben situato nel tempo e nello spazio, risuona in letteratura nel modo più ampio possibile, al limite dell’eterno e dell’atemporale. A sposare questa posizione si finisce ovviamente in un paradosso, uno in cui il fatto di prendere la parola, la scelta di farlo, è un problema in sé, il primo problema che dovrebbe affrontare chi scrive – una cosa a metà tra l’autocensura e la selezione naturale.
Ecco, in questo senso, guardo con sospetto certe correnti della letteratura contemporanea che si affannano a correre dietro all’attualità (climate fiction, first impact fiction); osservo con interesse invece il modo in cui, in letteratura, si tenta di riarticolare la relazione con l’ignoto (la domanda aperta: fin dove arriva il mondo?): il ritorno delle narrazioni e delle riflessioni intorno al fantastico e al weird, ad esempio.
Di fatto, quando Borges si interroga intorno ai procedimenti metaletterari che poi codifica nel racconto “Pierre Menard, autore del «Chisciotte», ci tiene a precisare che questi procedimenti sono all’opera nel Don Chisciotte e che inoltre, nel testo di Cervantes, essi svolgono una funzione sostitutiva rispetto a quella tradizionalmente svolta dal sovrannaturale nel genere cavalleresco: lo sdoppiamento metaletterario, la proliferazione infinita, al posto dei draghi, delle streghe, dei fantasmi e dei mostri. Queste sono le “magie parziali” del Don Chisciotte, e questo è il metodo Pierre Menard: uno strumento linguistico-letterario per interrogare i limiti del reale. Questi limiti si muovono, lo strumento è plastico – non vedo motivi per cui non possa continuare a essere utilizzato, ora come fra vent’anni. Non so, però, se il suo utilizzo o riutilizzo possa sancire il ritorno delle attitudini identificative del post-moderno. Voglio dire che una cosa è un metodo, cioè uno strumento fortemente codificato, e un’altra è una maniera, una moda, una tendenza.
FR - Questo saggio si focalizza decisamente più sull’infinitesimale che sull’infinito. Sembra insomma che gli abissi della lingua, il gioco degli specchi, gli sdoppiamenti diventino davvero problematici non tanto quando si riverberano all’infinito, ma ripiegandosi, scappando all’interno (è la stessa dimensione problematicizzata da Leibniz). È così?
AZ - Credo che sia così. Concentrare lo sguardo sull’infinitesimale e non sull’infinito, sul movimento verso l’interno e non verso l’esterno, è un modo per provare a ridefinire lo spazio e la posizione specifica della letteratura rispetto al suo oggetto privilegiato – questa ridefinizione può avvenire attraverso una mise en abyme dei meccanismi interni della letteratura. Cosa sono questi meccanismi interni, e cosa ci dicono?
Ricardo Piglia, nel saggio Parodia e proprietà, segnala che i procedimenti di attribuzione e appropriazione all’opera nella letteratura combinatoria (plagio, parodia, apocrifo, pastiche), quella in cui la letteratura già scritta è condizione di produzione della letteratura che si sta scrivendo, mettono in luce un paradosso: proprio nel punto in cui la letteratura sembra esercitare la massima autonomia, quando assomiglia a “un gioco di testi che si autorappresentano”, essa scopre o riscopre i vincoli che la inquadrano e la delimitano. Quali sono questi vincoli? Scrive Piglia: “La letteratura, nei suoi meccanismi interni, rappresenta le relazioni sociali, e queste ne determinano la pratica. È fondamentale, per me, che si comprenda che questa intertestualità è determinata da relazioni di proprietà. Solo così lo scrittore affronta in modo specifico la contraddizione tra scrittura sociale e appropriazione privata, che appare in modo molto evidente nelle questioni che ispirano il plagio, la citazione, la parodia, il pastiche, l’apocrifo”.
Questo è un modo di leggere il ripiegamento verso l’interno in chiave politica: a tu per tu con se stessa, quando fa dei suoi procedimenti i suoi stessi temi, la letteratura riscopre i nessi elementari che la tengono vincolata alla società.
Un altro modo, trascendentale (se mi passi il termine), è quello di Foucault (e di Borges, suo malgrado): il ripiegamento verso l’interno, il movimento infinitesimale, permettono di isolare la figura della casella vuota, quello spazio in continuo movimento che rappresenta il motore della risignificazione, il luogo della riarticolazione costante dell’ordine vigente. Scrive Foucault in Le parole e le cose: “Questo vuoto non scava una mancanza; non prescrive una lacuna da colmare. Esso non è niente di più, niente di meno, del dispiegarsi di uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare”.
C’è infine un modo di leggere il ripiegamento verso l’interno che riguarda una prassi, quella propria della composizione letteraria. È la posizione di Cortázar: seguire il movimento di fuga verso il basso del linguaggio fino a incontrare il fantomatico luogo della risignificazione, il laboratorio centrale, e solo allora, infine, mettersi a scrivere, cioè cominciare a fare sul serio, cioè appunto a scrivere, nell’illusione o nella speranza che tutto questo movimento, questo gioco, questa avventura statica, serva davvero a qualcuno, che sia un’esperienza trasferibile e non soltanto il capriccio o il delirio di un alienato.
FR - Altra immagine che evochi nel corso delle tue riflessioni è quella della caduta in un buco vuoto, caduta danzante, attiva, feconda. Questa caduta va di pari passo con un’idea precisa, quella del movimento che sposta continuamente i limiti e gli estremi del discorso, e decreta contemporaneamente – fatto straordinario – la possibilità e l’impossibilità dell’analisi. Questo movimento potrebbe agire da tramite e per questo, forse, essere l’unica cosa su cui abbiamo davvero controllo e che ci tiene in vita. È così?
AZ - Credo di sì. C’è un elemento fortemente privato in tutto questo, come se, arrivati oltre una certa soglia, questo movimento decidesse delle nostre sorti soggettive e individuali. Ma è inutile fare gli scemi di guerra, a questo punto: l’aut-aut radicale di cui si diceva sopra, tutto o niente, è anche una questione privata e personale. Non c’è modo di aggirare questo dato, e provare ad aggirarlo con postille metodologiche oggettivanti è forse più ridicolo che non affondarvi dentro mani e piedi, alla Pierre Menard, appunto.
Però devo aggiungere una cosa. La danza della caduta richiede un corpo di ballo specifico, un contesto preciso – non la si può ballare in qualunque balera. Questo contesto, questa music hall, è precisamente la letteratura. Quando Danilo Kiš scrive, in L’ultimo bastione del buon senso, che la letteratura è appunto “l’ultimo bastione del buon senso”, sta dicendo due cose, forse tre: che il movimento che sposta costantemente i limiti del discorso e li riarticola ha un rilievo etico-politico, è una responsabilità di chi lo compie, fatta di scelte, prese di posizione, conflitti; che la letteratura è l’unica scena in cui questo movimento, questa danza, possono avere luogo; che, allo stesso tempo, il carattere saliente della letteratura è l’ambiguità, l’irriducibilità a un messaggio univoco e lineare – da qui discende l’effetto che sottolinei: la possibilità e l’impossibilità, allo stesso tempo, dell’analisi.
FR - Prevedi già uno sviluppo della ricerca contenuta in questo lavoro? Se sì, in quali direzioni?
AZ - Vorrei provare a fare in modo che il discorso narrativo continui a comunicare con quello saggistico – questa è la mia utopia privata: che il discorso è uno e ha le sue leggi.
Da questo libro in avanti mi piacerebbe provare a sviluppare due idee: la figura del documento in opposizione a quella dell’invenzione, sulla scia delle ricerche del formalismo russo (che contrappone i materiali che compongono un’opera all’intreccio – problema che è costato, in pieno realismo socialista, la carriera e la reputazione agli esponenti del metodo formale) e dell’opposizione realtà-finzione così com’è all’opera in Borges e Piglia.
E ancora un altro concetto, di cui si parla in modo tangenziale nel saggio Borges nella Loggia, e che riguarda la tematizzazione, nell’opera letteraria, di una terza dimensione temporale: c’è il tempo della storia (fabula), il tempo del racconto (intreccio), e infine c’è il tempo della composizione, ovvero il modo in cui il divenire del processo compositivo, la sua finitezza, indirizza la forma di un’opera e gli effetti che quest’ultima riesce (o fallisce) a produrre in chi ne fruisce. Ci sono opere in cui questa terza dimensione temporale, oltre ad agire sulla forma e sugli effetti (poiché vi agisce sempre, per definizione), presenta, per diverse ragioni, una dimensione straordinariamente visibile: i poemi omerici, Il castello di Kafka, Twin Peaks di Lynch. Penso, ad esempio, alle tre o quattro versioni distinte degli aiutanti di K. che si susseguono nel giro di poche pagine, nel Castello: chi sono, perché sono lì, come vi sono arrivati; alle distrazioni omeriche; o ancora alle vicende contraddittorie del diario di Laura Palmer in Twin Peaks. Ci sono inoltre testi, come il saggio “Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. Un nuovo sofisma” di Lacan, in cui si cerca di concettualizzare precisamente l’azione, l’effetto di questa terza dimensione temporale all’interno di dinamiche intersoggettive. E che c’entra la letteratura con le dinamiche intersoggettive? La letteratura parla a qualcuno, dicevamo prima. E come si caratterizza questo peculiare transfert – dal testo letterario a qualcuno? Che cosa dice, e perché, da dove spinge per emergere? Ho abbozzato delle domande a cui spero di riuscire a rispondere nei prossimi anni.
ha fondato la rivista digitale CrapulaClub (2008-2019), dal 2019 è socio di Wojtek Edizioni. Ha pubblicato "La bomba voyeur, La memoria dell'uguale" e "Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo". Dal 2020, insieme a Federica Arnoldi, Anna Di Gioia e Luca Mignola, cura "Ostranenie", spazio di approfondimento e collana di saggi letterari di Wojtek Edizioni.