Julian Zhara: parole per scena e musica
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Dialogo sulla genesi della raccolta Vera deve morire, tra oralità, ricerca di sé e un lungo apprendistato poetico.
Intervista a Julian Zhara
La Poesia nell'epoca dei chatbot.
Dal novembre 2022, data di lancio di Chat GPT, la domanda sui social è se un programma di linguaggio, già definito “pappagallo stocastico”[1], riesca a processare il linguaggio naturale (NLP) producendo testi con uno stile ed un significato oltre ogni aspettativa.
La risposta era forse stata scritta dalla Letteratura potenziale agli inizi del Novecento, o ancora prima, dalla Cabala: ogni parola in sé ha significati inaspettati, simbolici e reali, suscitati nella nostra immaginazione, ogni combinazione di parole ha un potenziale significato per la mente umana. È quindi possibile che una macchina in grado di catalogare e confrontare, sezionare e ri-assemblare enormi quantità di dialoghi e descrizioni, faccia sentire noi umani come depotenziati di fantasia, esseri inadeguati, antiquati (Anders, 1980).
Ed è particolarmente significativo che l’espressione del linguaggio come “virus” (Burroughs, 1961) si riapra mentre il mondo ancora vive gli effetti traumatici della pandemia.
Del legame tra le parole e le cose, della costituzione del linguaggio, con la sua struttura ternaria (significante, significato e congiuntura) o solamente binaria, la filosofia del XX secolo ha ampiamente ridiscusso ma solo ora gli interrogativi di questo discorso “alto” giunge a tutti, e speriamo tragicamente nella consapevolezza che le macchine non esperiscono le “cose” anche se le si programma per maneggiare abilmente le parole.[2]
Mentre viviamo gli ultimi tocchi all’affresco dell’Homo Deus, creatore di esseri senzienti artificiali e di corpi umani ri-generati, molti contraddicono questa nuova Genesi (‘a propria immagine lo creò’) ricordando come l’intelligenza artificiale sia totalmente dissimile da quella umana anche se del tutto permeata da una unica umana qualità: saper calcolare per ottenere.
Dal linguaggio ci si aspetta però il segnale dell’avvio di un processo di apprendimento cosciente, un po’ come dai bambini ci si aspetta la sorpresa di una opinione affermata con le prime parole, segnale di una coscienza individuale autonoma, con le sue originali esigenze e la vocazione alla socialità.
Potremmo dire che l’ “attesa” di un apprendimento “profondo” ed auto-generato da parte dei programmi computazionali usa il linguaggio come “prequel” dell’intelligenza artificiale autonoma, ed ha in qualche tratto l’aspetto di un culto[3], soprattutto dal punto di vista mediatico. Anzi, lo notavamo alcuni anni fa, i produttori di robot antropomorfi per primi diffondono messaggi promozionali mistificatori che presentano androidi capaci di mimica facciale come esseri pensanti.[4]
Nell’esecuzione di un compito di natura tecnica, l’intelligenza artificiale già sviluppa soluzioni inattese dai programmatori: con soluzioni matematiche o lo sviluppo di percorsi tecnici nuovi e sorprendenti per giungere all’obiettivo richiesto[5], senza però giungere all’atteso e temuto traguardo di autonomia di pensiero. Queste forme di I.A. in grado di trovare soluzioni e predire scenari, quando rispondono a una domanda, possono essere chiamate Oracoli.[6]
L’attesa della germinazione di quel “seme di intelligenza” che dovrebbe dare agli esseri umani (solo ad alcuni ovviamente) lo status di creatori, aspetta che un oracolo capisca al meglio le intenzioni umane. La domanda fervente dei creatori è se l’intelligenza così creata avrà subito necessità di essere cacciata dal giardino dell’Eden, a causa della sua disobbedienza alle nostre intenzioni, dimostrazione luciferina di ottenuta autonomia di pensiero.
Sta di fatto che da tempo il Test di turing (1950) circa l’origine umana o robotica di un testo mina alle fondamenta la nostra torre di Babele, slega le parole dal loro contesto in un test in cui appunto, chi parla non si vede, e per questo predice la perdita definitiva del nostro legame con l’inconscio.
È l’inconscio la sede del nostro “Deep blue” umano? Il cuore più oscuro che ci permette di intuire, di sentire le emozioni altrui, di elaborare le stesse emozioni?
Vorrei ricordare la funzione della attività letteraria più disobbediente e legata all’inconscio: la poesia, abituata ad essere cacciata negli angoli dei giornali e dei blog ma sempre pronta a uscir fuori dove meno la si aspetta, dai testi per la musica ai graffiti sui muri.
A proposito di “controllo” e calcolo, tornando a “Psicologia e poesia” di Carl G. Jung (1922), leggiamo che in un caso “dovremmo aspettarci che l’opera d’arte …non superi mai le intenzioni dell’autore”, in un altro caso “dovremmo attenderci immagini e forme strane, idee afferrabili solo intuitivamente, un linguaggio gravido di significati, le cui espressioni avrebbero valore di veri simboli, poiché esse esprimono nel modo migliore cose ancora sconosciute, e sono come ponti gettati verso una riva invisibile”. [7]
Il processo creatore, in prosa, ha una visione esterna, con base emotiva ma mediata e descrittiva, spesso dettagliatamente programmata.
Il processo creatore, in poesia, è una visione interna, con una forza creatrice spesso immediata, anche se successivamente organizzata nella forma. Per Jung comunque l’opera d’arte, sia in versi che in frasi ha origini che “non sono da cercarsi nel subconscio personale dell’autore, ma in quella sfera della mitologia inconscia, le cui immagini primordiali sono proprietà comune dell’umanità”. [8] Questa è una breve definizione di inconscio collettivo.
Per Virginia Woolf, che ha molto riflettuto sulla differenza tra prosa e poesia (anche per burlarsi dell’amata Vita Sackville West, che ritrarrà come poeta in Orlando) è essenziale il concetto di “trasparenza”, la qualità dell’opera che fa riconoscere ciò che lo scrittore narra come comune da chi legge. Per ottenere la trasparenza occorre che l’artista trascenda quindi se stesso/a.
Tornando a Jung, l “immagine primordiale” o “archetipo”: “è in prima linea una figura mitologica…notiamo che essa è in certo qual modo la risultante d’innumerevoli esperienze tipiche di tutte le generazioni passate. Si potrebbero scorgere in essa i residui psichici d’innumerevoli avvenimenti dello stesso tipo”. Egli fa in questo caso l’esempio del letto di un fiume e aggiunge “colui che parla con immagini primordiali è come se parlasse con mille voci” [9]
Potremmo dire la stessa cosa di un “bot”, cioè che esso parla con mille voci? Certo, computa mille stili e mille voci ma senza né conscio né inconscio.
Vediamo invece la “produzione umana” , il sentire collettivo, in forme e luoghi inaspettati, anche in slogan, canzoni, ritornelli. Ad esempio nella sensibilità politica: da “va pensiero” a “siamo il 99 per cento”, da “oh bella ciao” a “io so i nomi”. L’artista anonimo non computa, non calcola, egli intrepreta l’inconscio collettivo essendone permeato, e spesso lo fa contro il parere dei suoi contemporanei. Non si tratta di un differenza di quantità tra la sua mente e quella seppure costruita come rete neurale di una macchina, la differenza è il suo vivere il corpo e condividere, volente o no, il tempo comune dell’umanità.
Scrive Jung che l’artista: “innalza il destino personale a destino dell’umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici che sempre hanno reso possibile all’umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe”. [10] Ricorderete la bella intervista rilasciata dallo piscoanalista, ancora reperibile online, nella quale raccontava di come anche i sogni, nei momenti difficili dell’umanità, si modifichino in modo comune, di come in tempo di guerra sia molto frequente sognare terre aride, alberi disseccati.
Jung ricorda anche un altro punto, circa la funzione dell’ arte, di come essa abbia una funzione sociale importante e metta l’artista in uno scomodo e faticoso ruolo perché “lavora continuamente all’educazione dello spirito contemporaneo facendo sorgere le forme che più gli difettano” [11]…ad esempio un linguaggio simbolista in un’epoca industrialista, o un linguaggio breve ed ermetico nell’epoca televisiva. Scrive quindi che “…il vero vantaggio per l’artista, è la sua relativa incapacità di adattamento, essa gli permette di tenersi lontano dalle grandi vie, di seguire la propria aspirazione e di scoprire ciò che manca agli altri, senza che essi lo sappiano” si tratta di “reazioni inconsce di autoregolazione”, “l’opera creativa erompe da profondità inconsce, cioè proprio dal regno delle madri”.[12]
Se Platone, nella sua Poetica, indicava il poeta come colui che doveva non mimare o riproporre ma predire il da farsi, le vicende umane “quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità”, il processo è legato al nostro essere nella storia e nell’umanità, non si tratta cioè di predizione esterna a un fenomeno.
Su questa funzione oracolare, e riparatrice, della parola ha lavorato il laboratorio di letteratura potenziale - Oulipo - [13], sciogliendo la parola, liberandola, come portatrice di significato indipendentemente dalla volontà ordinatrice del linguaggio razionale. Lo spazio lasciato all’immaginazione crea immagini e significati al di là della volontà del linguaggio disposto. E questo accade dai primi anni del Novecento, come “riparazione” ad un pensiero umano sempre più meccanicista.
E non troviamo in quegli anni solo l’Oulipo, ma anche la poetica della Rêverie di Bachelard. Due modi differenti di liberare l’inconscio, nella veglia e nel sogno. “La poesia ci offre documenti per la fenomenologia dell’anima” ed “il passato dell’anima è lontano!”.[14]
Il nostro “Deep blue” non è quindi esterno a noi stessi/e. Una “volpe corvina” suscita all’istante nel nostro immaginario una fiaba originale, il gioco combinatorio dell’Oulipo ci offre una “foglia di rosa porta l’ombra” ma anche “una foglia rosa all’ombra di una porta”. Resta il fatto, ci ricorda Gertrude Stein nel 1922, che “una rosa è una rosa è una rosa”, che una parola può essere sia sostantivo che aggettivo, e il nostro inconscio ne è sia creatore che beneficiario.
La Stein negli anni del cubismo è stata anche sperimentatrice di una poesia musicale, con ripetizioni sonore, oppure forgiatrice in “Teneri bottoni” (1914) di iperboli metaforiche che vanno oltre il limite lasciandosi andare in una dimensione dissociativa. “Una fetta improvvisa cambia il piatto intero, lo fa così improvvisamente”. Possiamo dire che se c’è una prima creatrice di linguaggio naturale processato, questa è lei.
La poesia è anche testimonianza condivisa:
“Il mio angolo d’Europa, a seguito degli eventi straordinari e letali che lì si sono verificati, paragonabili a una serie di devastanti terremoti, consente una prospettiva peculiare. Chiunque venga da là guarda alla poesia del nostro secolo in modo leggermente diverso rispetto alla maggior parte dei miei ascoltatori, in quanto vede in essa il testimone di una grande trasformazione che l’umanità sta vivendo, e a cui la poesia stessa partecipa.” [15] Per questo avviene una “riscoperta” di alcuni poeti in alcune epoche.
Ancora in anni di guerra, poco prima della sua scomparsa, Virginia Woolf analizza il concetto di inconscio collettivo, nel suo magistrale saggio, “Anon”, scritto nel 1941[16], descrive il momento di nascita delle letteratura inglese, quando : “…la consapevolezza non aveva ancora levato il suo specchio”, raccontando di giullari e di cantori anonimi del popolo inglese prima “dei tempi di Chaucer” cioè prima della drammaturgia e della poesia scritta in lingua volgare. Racconta quindi che: “…quegli uomini e quelle donne siamo noi, visti senza prospettiva; allungati, di scorcio, comunque molto vecchi, consapevoli di tutto il bene e tutto il male possibili. …Sembra che non sia mai esistito un tempo in cui uomini e donne erano privi di memoria; che non sia mai esistito un mondo giovane. Dietro alla stirpe inglese si estendono epoche d’amore e di fatiche. Questo è il mondo che sta al di sotto della nostra coscienza; il mondo anonimo a cui possiamo ritornare ancora.”
Anon, secondo Woolf, “può dire quello che tutti sentono”, è irresponsabile. Non si sa chi sia.
Qualche anno fa, nel 2016, nel momento del rifiuto di Bob Dylan di presentarsi a ricevere il Nobel, avevo pensato a questa sua volontà di non essere presente come ad un estremo tentativo di tornare alla dimensione del cantastorie. [17]
Quel Anon che canta strofe non sue ma che ha rimaneggiato, e lo fa nelle taverna, o dietro alla porta di servizio delle residenze nobiliari, per i servi ed i contadini, o in un angolo della piazza di mercato, oppure oggi nei meme e nelle canzoni autoprodotte su Youtube.
Ma è da tempo giunto poi il momento in cui il lettore sostituisce l’ascoltatore e in cui l’artista è più importante del suo messaggio: Anon è morto. Nel momento in cui i bot sostituiscono, tra grandi curiosità e clamori, la scrittura umana, l’inconscio è morto?
[1] Sui rischi dei modelli di linguaggio troppo grandi di veda Bender, McMillan-Major, Gebru, Shmitchell, “On the Dangers of Sthocastic Parrots: Can Language Models Be Too Big?, 2021.
[2] Si veda su questo tema il fondamentale Michel Foucault, Le parole e le cose, 1966.
[3] Sul legame tra tecnologia e “religione”, sarebbe meglio definirlo culto, vale la pena citare uno di quei saggi luminosi ma nascosti: Apple come esperienza religiosa, scritto da Antonio Guerrieri per le edizioni Mimesis ben dieci anni fa.
[4] Si veda Francesca Palazzi Arduini , ‘Sophia, Erica, Aiko: donne che servono. Spiritose, artificiali.’ 2017, carmillaonline.com
[5] Nick Bostrom, Superintelligenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2018
[6] Ibidem, capitolo 10 “Oracoli, geni, monarchi, strumenti”.
[7] C.G.Jung, 1922-1950, Psicologia e poesia, edizione italiana, Bollati Boringhieri, Torino, 1979, p.36
[8] Ibidem p.44
[9] Ibidem p.47
[10] Ibidem p.47
[11] Ibidem p.49
[12] Ibidem p.77
[13] Oulipo, La letteratura potenziale (1960), edizione italiana a cura di R. Campagnoli e Y. Hersant, Clueb, Bologna, 1985
[14] Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, (1960), edizioni Dedalo, Bari, 1972.
[15] Czesław Miłosz, La testimonianza della poesia, Sei lezioni sulla vulnerabilità del Novecento, (1983), ed. Adelphi, Milano, 2013
[16] Virginia Woolf, Anon, 1940-1941, ed. it. A cura di Massimo Scotti, Nuova Editrice Berti, Parma, 2015
[17] Francesca Palazzi Arduini, Bob Dylan non esiste. Tradizione popolare e anonimato dal folk al social network, 2016, Nazioneindiana.com