Perché rileggere Mark Fisher - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Grande incendio, Gran Bretagna, 2005.
Grande incendio, Gran Bretagna, 2005. | Copyright: Ken Douglas / Flickr

Perché rileggere Mark Fisher

E se oggi, all'improvviso, fosse più facile vedere la fine del capitalismo che quella del mondo?

Grande incendio, Gran Bretagna, 2005. | Copyright: Ken Douglas / Flickr
Giovanni Bitetto

ha scritto per The Vision, Flanerì, il Tascabile, L'indiscreto. Ha pubblicato il romanzo Scavare (Italosvevo, 2019).

Guerre impensabili fino a pochi mesi fa, crisi energetica, crisi climatica, un generale arretramento nei diritti civili di mezzo mondo, le bizze di una pandemia mai veramente sotto controllo. Con queste premesse, al di là di ogni possibile bias, è difficile non vedere nella massima jamesoniana, per cui è più facile concepire la fine del mondo che la fine del capitalismo, una profezia che si autoavvera. Quindici anni fa Mark Fisher aveva sintetizzato nell’espressione “realismo capitalista”, questa particolare impasse del pensiero – teorico, estetico, politico – a immaginare il superamento del sistema economica odierno. Un ostacolo che, dagli anni Ottanta in poi, si è riflesso non solo nella speculazione accademica ma anche nelle sempre più frammentate pratiche del concreto agire politico. Fisher, con il suo stile icastico, chiosava in questo modo: «Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine».

L’omonimo pamphlet uscito originariamente per Zero Books, più che una vera e propria elaborazione teorica, si configurava come il simbolo di un’impotenza che finalmente trovava un suo preciso descrittore. Parte del successo di certe asserzioni deriva dalla coda tragica della sua biografia, come se con il suicidio avesse dimostrato sulla propria pelle la veridicità del disagio fino ad allora evocato su carta. In fondo Mark Fisher è stato trasformato, quasi istantaneamente, in un santo laico negli ambienti di una certa sinistra, eppure questa non dovrebbe essere considerata una fallacia, giacché ogni orizzonte culturale e politico negozia la propria identità attraverso una galassia di codici, idee e personalità condivise; la semplificazione, o la riduzione a icona, è un atto necessario per rendere facilmente decodificabile una certa idea di mondo. Sì, ma perché proprio Mark Fisher? E perché continuare a leggerlo ancora oggi, quando, sebbene molte tesi di fondo siano ancora applicabili, alcune elaborazioni, soprattutto inerenti alla politica contingente degli anni Zero, risultano in un certo qual modo datate?

Leggendo Desiderio postcapitalista, la trascrizione dell’ultimo e incompiuto corso tenuto alla Goldsmith University nel 2016, poco prima di togliersi la vita, è possibile ritrovare ed enucleare i tratti fondamentali del pensiero di Fisher, non solo dal punto di vista contenutistico ma anche da quello formale, quali frammentarietà, convergenza e autobiografismo.

Mark Fisher

Mark Fisher

Nel frammento Fisher si esprime al massimo delle sue possibilità: smontando e interpretando prodotti culturali di varia natura – libri, album, film, serie tv, spot pubblicitari – riesce a mettere in luce l’architettura ideologica e il ventaglio di significati più o meno subliminali che sottostanno alla produzione e alla ricezione di ciascun manufatto culturale. Basti citare i più famosi interventi di Spettri della mia vita, il suo libro più personale: un’intervista a Burial diventa l’occasione per soppesare il tramonto dell’utopia rave, la storia dei Joy Division è il terreno adatto sul quale mettere in relazione disagio psichico e sociale. D’altronde gran parte della sua attività intellettuale era espressa su k-punk, il blog fondato nel 2003, sotto forma di post, era dunque frammentaria anche per necessità comunicative. In Desiderio postcapitalista la frammentarietà non è data solo da questioni contingenti, si tratta pur sempre della trascrizione di un corso universitario, ma è insita nella modalità con cui Fisher articola le sue lezioni. Il metodo di Fisher è dialogico, coinvolge spesso gli studenti nelle sue elucubrazioni e dialettizza i concetti che cerca di esprimere, ma oltre a ciò la stessa articolazione delle lezioni varia su uno spettro molto ampio. Si passa dall’analisi di film e commercial a tentativi di legare il desiderio freudiano con il consumismo odierno, dal ripercorrere pregi e colpe della controcultura degli anni Sessanta e Settanta, al discutere il vuoto di immaginario nella cultura antagonista contemporanea, oppure, con piglio sociologico, smontare e rimontare la composizione e i mutamenti della classe operaia dagli anni Sessanta a oggi. La frammentaria poliedricità di Fisher permette, da un lato, di osservare l’elasticità di un pensiero che applica le sue categorie interpretative su un numero ingente di fenomeni; dall’altro fornisce un’utile cassetta degli attrezzi a chi si propone di superare l’ostacolo oggettivo della condizione odierna cercando di elaborare un pensiero controculturale che fa tesoro delle esperienze del passato.

Questo ci porta alla convergenza, ovvero la già citata capacità di mettere in relazione i fenomeni più lontani in maniera coerente e originale. Lo studioso dei media Henry Jenkins teorizzò, ormai più di un decennio fa, il fenomeno della “cultura convergente”, ovvero un mutamento nel paradigma culturale che porta i consumatori/fruitori, stimolati da input molteplici, a ricercare un numero crescente di informazioni, finendo per attivare connessioni inedite tra contenuti anche idiosincratici fra loro. La convergenza avviene nel cervello dei singoli consumatori nonché nelle reciproche interazioni sociali di ciascuno. Si tratta di una riproposizione sul piano soggettivo di ciò che a livello generale è avvenuto nella cultura postmoderna: l’abbattimento delle distinzioni fra cultura alta e cultura bassa, al punto tale da propiziare la commistione e l’orizzontalità di fruizione e creazione dei contenuti. Ognuno di noi si crea una personale visione del mondo dai frammenti di informazione estratti dal flusso mediatico, che sono poi reinterpretati nell’orizzonte di senso della vita di ciascuno. Visto che abbiamo a disposizione, su qualsiasi tema, più dati di quelli che ognuno di noi può immagazzinare, siamo maggiormente incentivati a rielaborare ciò che fruiamo, fino alla parossistica trasfigurazione di ciò da cui siamo partiti. Lo stesso Fisher, in Realismo capitalista, aveva riflettuto approfonditamente su questo fenomeno donandogli una sfumatura critica e coniando l’espressione “edonismo depressivo” per indicare il consumo bulimico, acritico ed egoriferito di prodotti culturali da parte delle società tardocapitaliste. Fisher notava una certa tendenza performativa all’interno della classe intellettuale che la spingeva a esibire le interrelazioni fra fenomeni non tanto come connessioni di una teoria coerente, ma come dimostrazione della vastità delle proprie conoscenze, insomma un’ipertrofia del pensiero buona per tutte le stagioni. Fisher invece cercava una mediazione fra una visione del mondo politicamente schierata e la sua tendenza alla digressione colta.

In Desiderio postcapitalista, come in tutta la sua produzione, l’incedere di Fisher è influenzato da ciò che abbiamo detto poc’anzi: legato maggiormente ai caratteri estetici del nostro tempo più che alle dinamiche strutturali. A interessare all’autore non sono solo i significati specifici di un certo manufatto culturale, ma la collocazione di fenomeni, idee e prodotti nel vasto affresco della contemporaneità, segni di un testo ben più ampio. Ricomponendo tale mosaico stratificato l’autore cerca, per induzione, di riportare le affermazioni etiche, morali e ideologiche del nostro tempo. L’appello al sostrato filosofico delle sue letture – da Zizek a Lyotard, passando per Deleuze e Jameson, senza tralasciare Land, Negarestani e tutti i teorici della CCRU, di cui peraltro aveva fatto parte – serve a puntellare ed esplicitare un discorso che riflette sul piano simbolico, ancor prima che su quello politico. L’elaborazione di Fisher è personale non solo perché esplicita una visione, come dovrebbe essere per ogni credo intellettuale, ma perché, per quanto calati in un contesto che Fisher tende a presentare come oggettivo, le sensazioni e i feedback delle sue ipotesi sono strettamente legati alla sua esperienza e al suo sentire.

Tocchiamo allora il punto più importante del metodo fisheriano: il carattere autobiografico della sua critica. Uno degli ostacoli più difficili da superare per chi ambisce a mappare la complessità in cui siamo immersi è proprio rendere concreto qualcosa che, a livello descrittivo, appare astratto e contraddittorio: la parzialità di un esempio presta il fianco all’impoverimento concettuale, di contro l’ambizione olistica pecca spesso di aridità, un male non sempre necessario soprattutto se si tratta di ragionare nell’ambito della teoria politica con l’intento di passare dalla teoria alla prassi. Fisher ha raccontato magistralmente la depressione come fenomeno sociale utilizzando come paradigma la propria esperienza, allo stesso modo ha puntellato le sue riflessioni sulla progressiva privatizzazione del settore pubblico partendo dalla propria esperienza scolastica e accademica, sia come studente che come professore. In Desiderio postcapitalista ragiona sulla potenza libidica del capitale sviscerando la coazione al consumo di cui lui stesso si dice succube. Con questo atteggiamento riesce in un duplice intento: evitare il pauperismo e lo snobismo di certa sinistra luddista che rifugge la contemporaneità e invoca un’austerità della lotta politica d’altri tempi e, allo stesso tempo, creare un’empatia con il lettore tale da veicolare i suoi messaggi al massimo della potenza. Fisher ti parla alla pari, da fratello maggiore che cerca di riflettere innanzitutto sulle sue mancanze, piuttosto che additare le nostre con aura paternalista o professorale. Probabilmente perché il suo l’intento principale è tendere al collettivo, creare legami. Qualunque fosse l’argomento trattato, Mark Fisher ha provato a rovesciare la massima thatcheriana per cui esistono solo gli individui, ci ha invece indicato i condizionamenti della società e la pervasività di certa ideologia. La sua testimonianza rimane preziosa per l’ambizione da cui è mossa, ancor più che per gli esiti, ma soprattutto perché, come la grande arte, ci fa sentire meno soli, in qualche modo compresi, nella scabra quotidianità che ci troviamo ad affrontare.

Hai letto:  Perché rileggere Mark Fisher
Globale - 2022
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Giovanni Bitetto

ha scritto per The Vision, Flanerì, il Tascabile, L'indiscreto. Ha pubblicato il romanzo Scavare (Italosvevo, 2019).

Pubblicato:
31-08-2022
Ultima modifica:
31-08-2022
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