Appunti sull'avventura della percezione.
«CConoscere mediante la misura dell’ignoto, tendere alla familiarità delle cose senza intaccarne l’estraneità [...]»
Maurice Blanchot, L'infinito intrattenimento
Nell’Icononologia, il repertorio di immagini allegoriche che Cesare Ripa pubblicò alla fine del XVI secolo, l'Enigma viene raffigurato come un uomo mascherato, avvolto da una rete, e con in mano un laccio attorcigliato che sta a indicare l'insieme di processi tortuosi che vengono richiesti per la costruzione di ogni enigma. L'enigma -sembra suggerire Ripa- si dà necessariamente come la sua messa in opera. Su questo intrigo tortuoso, comune tanto all'indovinello quanto all'allegoria, alla novella e alla composizione artistica, ha scritto vastamente il pittore settecentesco William Hogarth, che in un capitolo del suo trattato L'analisi della bellezza spiega:
«È piacevol fatica della mente lo sciogliere i più difficili problemi. [...] L'occhio ha questa sorte di godimento nelle muraglie spirali, e ne' fiumi serpeggianti, e in ogni sorta di oggetti, le cui forme son composte principalmente di quel ch'io chiamo linee ondeggianti, e serpeggianti. L'intrigo delle forme, dunque, lo definirò essere quella particolarità nelle linee, che lo compongono, che conduce l'occhio a una "ghiotta specie di caccia".»
Accanto alle giravolte di un ballerino [1] o alle molte ondeggiature di una capigliatura riccia mossa dal vento (proverbiale formula di pathos), proprio la figura del cacciatore sembra incarnare per Hogarth il piacere dell'intrico, laddove l'esercizio della caccia appare tanto più meritevole quanto più segnato da avvicendamenti, difficolta impreviste, repentini sconvolgimenti del punto di osservazione.
Questo tema affascinerà più tardi anche Sergei Eisenstein, il quale -commentando L'analisi della bellezza in relazione ai suoi studi sul cinema e il "primitivo" - dirà: «Bisogna riconoscere che il paragone figurato con la caccia [...] è corretto perché la legge della forma che viene "inseguita" dalla percezione contiene davvero, come elemento "sopravvissuto", l'istinto primordiale dell'inseguimento della preda» (Il metodo). Cercheremo di considerare questa "ghiotta specie di caccia" come un'altra manifestazione della fioritura percettiva. Per fare ciò, bisognerà inseguire a nostra volta quanto sbieca l'addomesticamento dello sguardo, denudando il mondo delle forme fisse, atrofizzate, e chiedendoci al contempo a cosa facciamo riferimento quando parliamo di un elemento "sopravvissuto" appartenente al mondo primordiale.
La questione può essere fatta risalire sino alla rivoluzione agricola del neolitico, ovvero al graduale passaggio da una ricerca del cibo condotta attraverso la caccia e la raccolta alla vita -perlopiù sedentaria- del villaggio. In pagine imprescindibili di Natura e follia, Paul Shepard ha identificato come "nucleo" del pensiero civilizzato proprio il fenomeno delle coltivazioni annuali e del rafforzamento dei confini territoriali, questioni che determinano -almeno in parte- un cedimento dell'acutezza dello sguardo. Con la crescita dei villaggi, il luogo viene ridefinito come una proprietà opposta alla selvatichezza non addomesticata: un rapporto dualistico, che immobilizza l'attenzione nel campo del ciclicamente ripetuto e dell'immediatamente riconoscibile. La civilizzazione diventa allora una segnatura dell'utile, rivolta all'incessante rinegoziazione dei confini, così come alla «schiavizzazione», anche immaginativa, «di piante e animali», e all'«antropizzazione del paesaggio». In questa dimensione parassitaria e solipsistica, le zone di non-conoscenza si attivano soprattutto nell'ottica di una futura conquista, mentre l'alterità non appropriabile viene consegnata al regno dell'invisto. È infatti proprio l'attenzione verso «i segnali visivi» che marca una delle distanze più evidenti tra il cacciatore-raccoglitore e l'abitante di un villaggio. Citando un passaggio di Ortega y Gasset (ripreso da Shepard):
Il cacciatore non guarda tranquillamente in una direzione determinata, sicuro a priori che da quella parte verrà la preda. Il cacciatore sa di non sapere ciò che sta per accadere [...]. Per questo ha bisogno di prestare un tipo diverso e superiore di attenzione. Attenzione che non consiste nel fissarsi su ciò che si presume, ma anzi nel non presumere proprio per niente e nell'evitare la disattenzione. È un'attenzione 'universale', che non si fissa su nessun punto e cerca di essere in tutti.» (La felicità e la caccia)
Eppure -lo abbiamo notato attraverso Eisenstein- questa forma di attenzione universale non scompare con la rivoluzione agricola. Piuttosto che appartenere a una specifica epoca dell'umanità, essa si mantiene costantemente presente, ma di traverso, come un fremitio portato nella disattenzione, che dilata la facoltà percettiva ornandola di smarrimento. Per meglio osservare quanto detto sin qui, ci rivolgeremo all'avventura di una immobilità girovagante (apparentemente lontana dalla caccia), ovvero a una pratica che, nata in ambito claustrale, intessuta di spirito e memoria, può essere riassunta con un'espressione che conserva intatto il suo paradossale splendore: peregrinatio in stabilitate.
«Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» comanda il Signore ad Abramo nel Libro della Genesi. Per tutta una parte della storia monastica cristiana, questo aspro comandamento si traduce in un esilio volontario, in una peregrinatio verso altre terre -remote e inconosciute- che nella formula del perenne rinnovamento trova la sua erratica stabilità. Con l'approssimarsi della fine del primo millennio, questa formula subisce però una mutazione, orientandosi verso un'altra, ben più salda stabilità offerta dal luogo monastico. Nelle parole di Jean Leclercq: «L'istituzione cenobitica sembrava consentire a tutti, e anche ai più ardenti, a quelli che un tempo sarebbero andati nel deserto, una sintesi superiore di tutti gli elementi inclusi nella peregrinazione tradizionale: il monastero poteva essere per tutti un deserto in cui restare stabili con spirito da esiliati» (Monachisme et peregrination). Così, da una stabilitas in peregrinatione, si passa a quella peregrinatio in stabilitate che diventerà il sigillo dell'intera vita del monaco: un itinerario corporeo e incorporeo, cui il fedele s'opera a scavare, nell'intricato panorama dell'interiorità, una rete di canali benedetti, per raggiungere -non senza impedimento- una personale Gerusalemme Celeste, la cui immagine rovescia in estraneità l'altrimenti immediata appartenenza alla patria terrena.
Passeggiando in questo chiostro di figure, un elemento in particolare sembra riassumere la forma mentis del monaco, ovvero il "libro" come dispositivo iniziatore d'erranza. Prima del trionfo della cultura scolastica e della sua grande riorganizzazione del sapere, la lettura è innanzitutto un fatto corporeo: borbottio, masticazione senza sosta, studio incarnato e travolgente assoporazione: «Leggete la Scrittura, perché, vedrete, è più dolce d'ogni miele, più gustosa di qualsiasi pane, e rallegra più di qualunque vino» (Agostino). Per il monaco, il libro assomiglia a una moltitudine di sentieri adornati di parole, a un giardino o a una vigna -come direbbe Ivan Illich- in cui la lettura ad alta voce ha la facoltà di riaccendere la pagina (alla stessa maniera di una candela che, una volta avvicinata, fa tremare di movimento le figure). L'occhio umilmente vaga, sta appoggiato alla terra del manoscritto dove sono piantate le lettere, le raccoglie per fasciarle insieme in un gesto sonoro, conducendo il suo pellegrinaggio (la sua ghiotta caccia) in un luogo ancora senza topografia, senza entrata stabilita o certa impostazione, ma dove ogni cosa trabocca di senso. Uno studio faticoso, che richiede comprensione letterale e rivolgimento figurale. Ugo di San Vittore -pensatore decisivo nella transizione scolastica alla lettura silenziosa, individualistica, eppure in parte ancora rivolto verso la tradizione appena descritta- parla di questo studio sviluppando il paragone con il favo di miele: «Pure il miele è tanto più gradito perché estratto dal favo, e quanto maggiore sforzo richiede la ricerca di una cosa, tanto più ci appassiona a trovarla».
La lettura: occupazione celeste, forma d'abbeveramento continuo, meditazione che regola e imprime la vita di ogni giorno. Si comprende allora come il processo percettivo richiesto al monaco sia ben diverso da quello del lettore occasionale; diversi saranno anche gli strumenti di cui si serve. In uno spazio non ancora chiaramente strutturato e immediatamente accessibile, gli ornamenti diventano indicazioni, luoghi di sosta che soccorrono la memoria nel tortuoso, sonoro procedere attraverso le pagine. Per questo l'immagine del manoscritto si adatta al pellegrinaggio e alla caccia; per questo Ugo di San Vittore parla del lettore come di un viandante: «egli avanza fisicamente di pagina in pagina. Gli ornamenti che fiancheggiano i filari di lettere collocano le parole nell'ambiente percorso da tale viaggio. Non ci sono due righe in cui il lettore s'imbatta nella stessa veduta, non due pagine che si somiglino» (Nella vigna del testo).
Nel XIII secolo, che è secolo delle università, il libro subisce una variazione radicale: da dispositivo iniziatore d'erranza diventa strumento intellettuale, pensato non per viandanti sonori, ma per studiosi che necessitano di una consultazione rapida e sempre più vasta. Per questo il formato si fa più piccolo, i fogli più sottili e maneggevoli, la circolazione più ampia e immediata. «Il libro universitario» spiega Le Goff «è un oggetto del tutto diverso dal libro dell'Alto Medioevo. Esso è [...] l'espressione di un'altra civiltà» (Genio del medioevo). È un passaggio decisivo nell'attraversamento spaziale della pagina: quando la Parola era ancora masticata, pronunciata ad alta voce per essere meditata e mandata a memoria, il libro veniva pensato come il terreno di questo esercizio meditativo; l'ordine e la separazione delle parole avevano un peso minore; le lettere potevano diventare «duttili canali di pura fantasia, segnali sorprendenti di cominciamento e fine, poiché non avevano bisogno di essere leggibili nel nostro senso» (Michael Camille, Image on the Edge). L'impatto della Scolastica è un processo fissativo, ordinatore, che perciò determina un razionale (ratio fide illustrata) sconvolgimento: il testo come luogo dell'autorità, della ragione teologica, dello studio, della glossa, della disputa continua.
Sembrerebbe così che la rapidità di consultazione possa cancellare definitivamente la caccia dell'attraversamento; che dalla pagina non trabocchino più sentieri di figure; che la tortuosa attenzione richiesta dal libro sia divenuta altro: lo sforzo di un pensiero sempre più movimentato, che si appoggia al libro solo come sostegno intellettuale. Eppure, ecco svilupparsi, ai bordi di questo fenomeno, un altro scuotimento percettivo, frutto della rinnovata disposizione della pagina e degli influssi dell'alfabetizzazione: il proliferare delle figure marginali nei manoscritti del periodo gotico - vera e propria lezione dello sguardo.
Certo: non si tratta di un'assoluta novità. Le estremità erano già state impiegate nei secoli precedenti per ospitare paesaggi figurativi, non di rado di notevole complessità. [2] Eppure, l'idea del margine come luogo dell'alterità, come spazio ambiguo, trattenuto dalla pagina pur nella sua esclusione, insieme incontrollato e dipendente dal testo, doveva ancora attendere per manifestarsi pienamente.
Se guardiamo ad esempio al Book of Kells, che di un'epoca (il IX secolo) e di un'arte (quella insulare) è forse l'espressione più alta, notiamo tutto un alfabeto di intrecci, un colloquio filamentoso che fa volteggiare l'occhio, ne indispone la sosta, presuppone uno sguardo come lente d'ingrandimento per scenari di vertigine microscopica; uno sfogliamento ritmico del tempo sacro, l'ennesima dimostrazione di un cinema tatuato sulla carne delle pagine, che è allo stesso momento vegetale, animale, orafo. Ma -come possiamo constatare nel celebre monogramma Chi Rho - questo cinema non è orfano di testo, spinto nello spazio vuoto del margine: esso occupa di frequente la quasi interezza della pagina e della Parola, che è ancora segnata nelle cose e consegnata alle cose del mondo. «Parola e mondo» scrive a proposito Michael Camille «sono sacralmente intrecciati nel Book of Kells. Nell'Alto Medioevo, le immagini esistevano all'interno [...] della Parola sacra stessa».
Nel XIII secolo, le figure marginali nei manoscritti sono un'altra cosa: il loro intervento sul testo è ambiguo, mai interamente accomodante. Talvolta illustrano, talvolta parodiano la massa di parole a cui fanno riferimento, ma sempre da una posizione d'esilio, di non coincidenza (da qui il motivo del nostro interesse). Le immagini trovano nel bordo una terra indecidibile.
Pare ripetersi ciò che -in Shepard- abbiamo visto accadere con l'affermarsi dell'agricoltura e del rafforzamento dei confini territoriali: la costruzione di una dualità continuamente rinegoziata, l'identificazione del testo sacro o erudito come ciò che si oppone «alla selvatichezza non addomesticata» dei margini. Ciò nonostante, parallelamente a questo fenomeno, il significativo aumento dei libri destinati ai laici (come i libri d'ore) scompiglia ulteriormente le modalità di accesso e consultazione. Le gerarchie si riformano sul bordo: ciò che scompare dal testo riappare al margine, e non desta stupore l'osservare una fila domestici che si muovono da una pagina all'altra con pietanze preparate per le feste del castello - figure, queste, altrimenti ignorate nei romanzi a cui fanno da contorno. I manoscritti fanno convivere animatamente servi, sante, animali, re e straccioni, in una specie di baruffa continua dove i corpi s'impastano nella stessa materia (ci si potrebbe allora chiedere, alla maniera dell'autore dei Libri Carolini, come si possano distinguere tra loro la Vergine e l'asino nelle rappresentazioni della Fuga in Egitto, essendo entrambi fatti degli stessi colori). A prescindere dai suoi contenuti "sacri" o "mondani", è evidente che da questo momento in poi il libro diverrà un oggetto sempre più diffuso, consultato e pregato al di fuori dei tradizionali spazi devozionali. [3]
«Tu troverai molto di più nelle foreste che nei libri. I boschi e le pietre ti insegneranno più di quanto possa insegnarti qualsiasi maestro»: così Bernardo di Chiaravalle metteva in guardia contro la cultura libresca - che già durante la sua vita aveva visto affermarsi con sempre maggiore potere. Egli forse non immaginava che nei secoli successivi, anche grazie alle risorgenze del repertorio romanico, agli influssi orientali e naturalistici, alle acrobazie sapienziali, agli anacronismi e ai movimenti combinatori, i margini dei manoscritti avrebbero finito per somigliare sempre più una foresta riformata, a una grandiosa macchina di parentele vegetali e animali, a uno spazio dove condurre l'aperta caccia dello sguardo, e con essa un'altra ghiotta, ghiotta avventura della percezione.
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[1] Scriverà Isadora Duncan in una sua definizione della danza: «Tutte le mie ricerche sulla danza si fondano su questi due principi: la bellezza ideale della forma umana e la bellezza ideale che da quella forma deriva. Esistono documenti che testimoniano l'assoluta perfezione di questa bellezza: sono i vasi greci conservati nei musei. Nelle mille e mille figure che ho studiato sui vasi greci, ho sempre trovato che il punto di partenza era la linea ondulata». Isadora Duncan, citato in Pontremoli, 2002.
[2] Si vedano, ad esempio, i «salteri bizantini e anglosassoni del X secolo, dove i margini erano il locus di illustrazioni testuali spesso altamente complesse» (Michael Camille, Image on the Edge).
[3] Fino a confondersi -talvolta- con il luogo della devozione stessa. Si veda, in tal senso, Giorgiomaria Cornelio, La carne del culto, Il tascabile, 2021.