"Dominio", il secondo romanzo di Andrea Esposito, è la storia mistica di un puro inseguimento.
È una musica fatta di omissioni che nulla ha da spartire con ciò che l’orecchio può riconoscere in una scala tonale o atonale. Qui è il suono ripetuto, il veicolo immobile che conduce la mente, suono che per essere regolare infrange ogni regola e si apre a quel sublime disordine che è il silenzio.
Ugo Leonzio
Anche questa fine finisce e non finendo finisce.
Andrea Esposito
Stamane mi sono svegliato pensando alla mia tesi della laurea magistrale. Un breve testo su Samuel Beckett e il ruolo dei differenti media nelle opere scritte tra il 1960 e il 1970. Una robaccia così specifica che non potrebbe né dovrebbe interessare proprio a nessuno. Era scritta malissimo, eppure, riflettendoci adesso, c’erano delle idee interessanti. Per trovarla, tra l’altro, ho dovuto scavare in diversi hard disk pieni di vecchie fotografie e video, e testi osceni scritti diversi anni fa. Tuttavia, nessuna traccia. Pertanto ho cominciato a cercare nella mia immensa casella di posta elettronica, e alla fine lì ho trovato tutto. Ho trovato anche una cosa di cui non ricordavo l’esistenza. Una tesina, un paper si direbbe oggi, nella quale avevo iniziato a sviluppare l’idea della tesi a partire esclusivamente da Play e Film. Il primo è un testo teatrale scritto nel 1963, e il secondo è l’unico lavoro di Beckett per il cinema, un mediometraggio illuminante, diretto da Alan Schneider nel 1964, con protagonista uno straordinario Buster Keaton già allora canonizzato come uno, se non il più grande, dei maestri del cinema muto. Due anni prima di quella innocua partita a carte che precedette la sua morte.
La mia tesi di fondo era che Samuel Beckett nella sua opera abbia sempre messo in scena delle variazioni del medesimo meccanismo – dove il mezzo espressivo è il motivo di tutte le variabili (il che evidenzierebbe il ruolo che l’autore ha riservato al medium nella costruzione dei testi) –, secondo la mia teoria di allora si potrebbe quindi forse dire che i suoi scritti sono adattamenti dello stesso identico tema: il tema dei temi, il non-tema.
E in effetti la mia idea attuale, più che essersi allontanata da questa intuizione, si è ampliata. E ho anche perso interesse nello spiegare matematicamente la poetica beckettiana. Trovo quindi che quanto cercavo di fare ingenuamente con quel lavoro sia davvero limitante. E questa consapevolezza porta con sé una lezione essenziale per il presente e per il futuro, ammesso che esistano.
Ora, perché sto parlando della mia tesi? Poiché mi preme ribadire, senza soffermarmici ancora a lungo, quanto sia importante tenere presente Beckett per esplorare i libri di Andrea Esposito. Lo avevo già espresso accuratamente in occasione dell’uscita di Voragine, il suo primo romanzo, in una sorta di dossier diviso in due parti: «Hamletica 2018», nel quale analizzavo criticamente l’opera a partire da un testo di Massimo Cacciari dedicato alla letteratura di Beckett; e «Sul canto smisurato delle balene», testo nel quale raccontavo, attraverso uno sguardo narrativo, una visita a casa di Andrea Esposito, fatta assieme a un’amica fotografa che ne ha colto tutti i momenti con i suoi scatti. Quella mattina abbiamo avuto una lunga e piacevole chiacchierata, non una vera e propria intervista, dalla quale sono trapelate però delle informazioni importanti sul suo secondo libro, Dominio, da poco nelle librerie italiane, sempre per il Saggiatore. Quando gli avevo chiesto se stesse scrivendo qualcosa probabilmente Dominio era ancora una bozza ma mi disse che stava scrivendo ascoltando Saggittarian domain di Oren Ambarchi. Un brano che potrebbe subito darvi un’idea di cosa troverete in questo romanzo. Un romanzo che, in occasione di quella chiacchierata, Andrea mi aveva detto che voleva che fosse più movimentato, più violento.
Ricordo anche, distintamente, sul tavolino del salotto, il libro delle Liriche di Hölderlin dal quale proviene la magniloquente epigrafe che apre Dominio. «Molto ha visto l’uomo dal mattino,/da quando siamo dialogo/e udiamo l’uno dell’altro;/ma presto saremo canto».
Esattamente come in Beckett, nessuna parte del testo è slegata dal resto, persino il titolo e l’epigrafe, o i titoli dei paragrafi, sono delle chiavi di lettura, dei misteri da cui farsi attraversare.
La sceneggiatura di Film si apre con una notazione che riporta la celebre sentenza di George Berkeley: «esse est percipi». Questo è uno dei rarissimi indizi espliciti che Samuel Beckett ha lasciato ai posteri. Quello che ripeteva sempre è che non c’era niente da interpretare e che nemmeno gli importava cosa avremmo potuto pensare guardando o leggendo o ascoltando le sue opere.
Eppure, il mio lavoro è proprio tentare di contraddirlo, e nel farlo contraddirmi, e arrivare infine a dargli ragione. Lo odio.
Play (tradotto in italiano come Commedia) è a mio modo di vedere uno dei testi più paradigmatici di Beckett. E lo si può intuire anche dal titolo. Così come per altre opere di quel periodo: Film, Breath, How it is. Sono tutti titoli che rimandano a un’idea esemplare e dimostrativa di ciò che descrivono.
Riassumere Play è semplicissimo: tre personaggi in scena, dentro delle grigie «urne» funerarie, interrogati dalla spotlight raccontano ognuno la propria versione della loro storia. Questo movimento, però, si sviluppa in modo assolutamente non lineare ma frammentario e disordinato. Il parlato rapidissimo degli attori rende il tutto ancora più confuso e musicale, come se la luce suprema dalla regia stesse suonando gli interpreti illuminandoli, torturandoli, in un rivivere purgatoriale la loro assurda vicenda, che in fondo è del tutto secondaria per lo spettatore. L’immagine che abbiamo davanti, a mio parere, è una rappresentazione molto più complessa e raffinata, i cui livelli di lettura, proprio per la scarnificazione assoluta del tangibile, divengono infiniti.
Dominio racconta un inseguimento. Serse, per conto di Nunzio, insegue Cane, per punirlo. Chiaramente ci sono anche un movente e un epilogo – che per ovvie ragioni non è il caso e non ha nemmeno senso raccontare in questa sede. Comunque, la storia è questa: Uno insegue un Altro. Punto.
Serse si trova sempre a un passo da Cane che riesce sempre rocambolescamente a sfuggirgli e senza sapere né perché né come, «Riprende il sentiero quasi senza volerlo. Quasi ci ricade sopra». Questa è l’attitudine dei personaggi di Dominio, che ricordano moltissimo le silhouette beckettiane. Sono personaggi che, parlando di Voragine, descrivevo come «spettri fumosi». Creature senza «un’esistenza vera e propria». Sono pura forma, senza alcuna necessità di mostrare una supposta verosimiglianza, una realtà tangibile. Non hanno alcuna volontà di agire, cosa che potrebbe – e forse dovrebbe – farci riflettere sulla condizione esistenziale di ogni essere vivente, tout court.
E questa è forse la caratteristica che ha reso Beckett un autore così importante e attuale: sempre di più il nostro mondo somiglia a quel grigiore muto nel quale Buster Keaton si muove furtivo, inseguito ferocemente dalla macchina da presa che (come la spotlight di Play) rappresenta proprio questo Cacciatore dell’essere (che forse è l’artista, forse un’entità più astratta, quasi demoniaca). L’obiettivo si avvicina al volto di Keaton, rimasto sempre di spalle, tenta degli agguati, fino al punto da raggiungere il suo sguardo. E questo incontro è devastante perché ciò che appare dinnanzi a noi è un contemporaneo Simurgh, l’uccello leggendario del celeberrimo poema sufi, Il verbo degli uccelli. Siamo noi stessi, vediamo noi stessi nel riflesso della cinepresa, come uno specchio. All’inseguimento dell’Altro, e con la sua eventuale cattura, giungiamo a percepire il nostro sé più oscuro e inconoscibile. Ed è a questo punto che risuona Berkeley, facendo eco nella profondità infinita dell’occhio di Keaton, come in un abisso.
A ben vedere, seguendo lo stesso ragionamento, in questo libro appassionato e violento, Dominio, scopriamo come il senso della nostra ricerca può trasformarsi in una caccia all’uomo che avviene dentro di noi, nei giorni del diluvio.
Il tempo del racconto sono i giorni della pioggia. Lungo tutto il libro, come dichiarato nel sontuoso abbrivo, gli accadimenti sono pervasi da una pioggia persistente. «L’acqua percuote i sassi e l’asfalto» già dalla fine del primo e decisivo capitolo, nel quale avvengono i fatti che portano Serse a inseguire Cane per giorni.
Questa sorta di diluvio universale ai lettori di Voragine potrebbe ricordare abbastanza la sensazione dell’«Assedio» e di un mondo sempre sul finire – che non finendo finisce.
Nella letteratura di Esposito siamo sempre sull’orlo dell’ultimo giorno, poiché è proprio da quel luogo metafisico che fuoriesce la voce di Voragine e di Dominio. Una voce «oracolare», ci dice la quarta di copertina di quest’ultimo romanzo. Io direi più un canto silenzioso, un mantra mortuario, per navigare nelle acque del nulla e nel vuoto oceanico del mondo dopo il diluvio, che giunge verso di noi e che vuole essere attraversato, deve essere affrontato.
Difatti la pioggia di Dominio è anche un portale. Attraversare la pioggia significa inoltrarsi nel mondo onirico. Proprio da Dominio:
E scendeva nell’acqua tra gli equivoci delle ombre e le meduse che si lasciavano come lui trasportare dall’acqua dove sceglieva l’acqua.
Tutto si sovrapponeva e si attraversava. Non dormiva e quello che sognava non era un sogno.
I due protagonisti: Cane e Serse – oltre a inseguirsi in questo percorso fangoso, nella periferia della periferia urbana, in mezzo a personaggi distorti, figli del degrado e trasfigurati dal potere notturno del sogno che tracima continuamente nella realtà – i due si incontrano anche nel sonno. E man mano che la storia prosegue è proprio nel sogno che si crea un legame destinato a fondere i due personaggi in un tu: Cane|Serse sei tu.
È come se il materiale archetipico si scegliesse da sé i termini atti a descriverlo e questo facesse parte del suo modo di esprimere se stesso. Ne consegue che «l’attribuzione di nomi» non è affatto un’attività nominalistica, bensì molto realistica, in quanto il nome ci conduce dentro la propria realtà. (James Hillman, Il sogno e il mondo infero)
La precisione linguistica di Esposito segue proprio il processo del «l’attribuzione di nomi» descritto da Hillman. Ogni cosa che appare nelle pagine dei suoi libri ha un senso d’essere precipuo ed esprime il materiale, non psicologico ma archetipico. Non si tratta di un’autoanalisi ma di una esplorazione e susseguente evocazione degli archetipi nella loro forma elementale. Il che significa fare apparire la pioggia con tutte le implicazioni possibili, finanche farla diventare portale di un sogno condiviso e collettivo insieme. Lasciare che la pioggia penetri analogicamente nel linguaggio e nella realtà del testo. Il paesaggio e gli ambienti, e ognuno dei personaggi, diventano così emanazioni del mondo interiore e archetipico comune, universale, non solo dell’autore – che scompare –, ma di ognuno e di tutti. Quando Cane cammina o corre via, attraversa questi luoghi «lasciando ovunque segni del suo passaggio come pezzi di sé che perde». A una prima lettura: sta lasciando tracce sul terreno fangoso. (Ambientazione che peraltro ricorda Come è e tanti altri testi beckettiani. Come anche i testi di ispirazione analoga scritti da Manganelli). Se però ci soffermiamo un istante ad ascoltare… Cane si fonde nel paesaggio mentre perde il proprio ego. Perdendosi, morendo, penetra nel tessuto del cosmo e si discioglie nell’illuminazione – la morte – divenendo un tutt’uno con l’anima mundi, il tutto, visibile e invisibile.
Ancora da Dominio:
Dimenticate mentre ricordate. Dimenticate i vostri sogni e dimenticate i vostri nomi. Lasciate i vostri sogni abbandonati ad altri senza nome che li sognano per voi. Vi perdete come uomini senza ombra e vi inseguite come uomini che sognano lo stesso sogno.
I Nomi hanno un ruolo fondamentale in Dominio. Come abbiamo già detto è la parola in generale a esprimere attraverso la precisione maniacale una dimensione altra. Tuttavia, bisogna notare come in questo ultimo romanzo i nomi dei personaggi, più esattamente, svolgono una funzione davvero centrale. Così come l’atto stesso di nominare – rivelare – e di presentarsi – svelarsi.
Molti dei personaggi sono in-vestiti di “soprannomi”. Che chiaramente nascondono significati altri. Spesso durante la narrazione vengono raccontate le storie dei loro soprannomi: come Serse, che prima veniva chiamato Nasca, e nel tempo, passando per diversi altri soprannomi legati ad altrettante disavventure, è divenuto Serse. Si noti anche che questa storia sarà proprio Serse, in uno strano raptus, a raccontarla di nuovo a un certo punto, a voce alta. Proprio come se fosse un mantra, una preghiera. Non la racconta a nessuno e nessuno lo ascolta. Persino il lettore, apparentemente esterno, già conosce la storia di quel nome.
Difficilmente vengono usati i nomi propri, se non in casi particolari, come stessero a indicare un potere, manifestato dal nome stesso. Un potere illimitato, nel dominio di nulla.
In senso più ampio, per parola si deve intendere ogni autonoma manifestazione della nostra essenza verso l’esterno, nella misura in cui noi consideriamo come meta di una tale manifestazione non delle energie calcolabili esternamente come energie fisiche, occulte, e non solo, ma il senso che attraverso di esse entra nel mondo trans-oggettivo. (Pavel A. Florenkij, Il valore magico della parola)
Il nome è una manifestazione della nostra essenza più intima. E vi è un senso che, quando veniamo nominati o ci presentiamo, quando sveliamo il nostro vero nome, entra nel mondo trans-oggettivo.
Mi rendo conto della complessità del concetto quindi provo a ridurlo e semplificarlo ulteriormente: quando una parola viene enunciata, l’entità che rappresenta viene espressa nella sua esattezza sostanziale. Effetto ulteriormente amplificato quando parliamo del nome proprio o meglio – come vedremo – del nostro vero nome. E questo è il potere dei Nomi. Ovviamente in una dimensione magica dell’uso della parola.
Come non ti puoi fidare delle lettere non ti puoi fidare delle parole perché possono essere qualsiasi cosa. Possono significare ogni cosa e cambiarti nella bocca o l’attimo dopo che le hai ascoltate. Dicono una cosa e senza che te ne accorgi significano altro e ormai è tardi e quella parola ti ha tradito. E non riesci a pensare più a quello che voleva dire prima perché ormai il tradimento è avvenuto e quella parola ha infettato tutto il discorso. E tutto il discorso è infettato dalle parole che cambiano prima che tu possa accorgertene. Ed è troppo tardi quando ti accorgi che tutto voleva dire altro, che tutto vuole dire altro. Tutto sempre vuole dire altro e senza di te tutto si trasforma.
«Il problema è che la parola, quale termine intermedio fra mondo esterno e interno, è un’entità anfibia», un essere polimorfo, che si trasforma nel tempo, del quale non ci si può mai fidare – ci dice Florenskij in alcuni dei suoi saggi più straordinari, come «La venerazione del nome» e «Il valore magico della parola».
La dimensione percorsa dalle pagine mozzafiato di Dominio è comunque una dimensione mistica, dove tutto è giunto al termine e la realtà è intrecciata costantemente al mondo del sogno e del dopo, della morte. Al vuoto e al suo silenzio. Un mondo analogico nel quale ogni entità si manifesta nella sua vera essenza. In questo contesto rivelare o semplicemente enunciare il Nome proprio di qualcuno può voler dire moltissimo. E infatti Cane rivelerà solo una volta il suo vero nome, in uno dei momenti più intensi del libro: lei «gli dice di chiamarsi Sara. Lui le dice il suo vero nome».
Questo momento non è farcito di nessuna enfasi, e tutto sommato ci sono anche altri momenti del romanzo in cui viene detto il vero nome di Cane, Omar. Eppure, «il suo vero nome» non indica soltanto «Omar». In quel momento è come se Cane volesse mostrarsi intimamente, dire la verità su sé stesso, denudarsi.
Le parole sono esseri metamorfici di cui non ci si può mai fidare, demoni che sussurrano nel buio, eppure possono anche essere espressione del nostro sé più autentico. Quasi come se ci fosse un’analogia di matrice socratica in questa istanza oscura. Oppure, meglio, una energia mistica le cui risonanze sono da ricercare nella filosofia orientale: l’annullamento dell’ego, come dicevamo sopra, nel quale il «vero nome» non è un nome proprio di persona, semplicemente non esiste più, scompare.
Desidero aprire una breve parentesi, prima di avviarmi alla conclusione. Bisogna notare che in questo mondo a metà, tra realtà e sogno, nel quale si muove la parola di Esposito, la presenza degli animali è ovunque ed è palesemente significativa. «Quello che voglio qui suggerire è di leggere l’animale e non soltanto sull’animale» scriveva James Hillman nel suo libro Presenze animali, nel quale restituiva ai lettori il lavoro instancabile fatto dall’Istituto Jung sugli animali nei sogni. E continuava esortandoci: «vorrei che noi interpreti non riducessimo il sogno al simbolo, ma che riducessimo piuttosto noi stessi, cioè la visione che ci è propria, a quella dell’animale: una riduzione che potrebbe risolversi in un’estensione, in un’amplificazione della nostra visione, spingendoci a vedere l’animale con occhio animale». Non si tratta qui di un avvicinamento animale (come quello che ho cercato di descrivere in questo saggio nel quale racconto anche più approfonditamente il lavoro di Hillman e dell’Istituto Jung sull’argomento) quanto piuttosto di un’espressione dell’animale – l’entità onirica dell’animale – nel mondo del sogno, da interpretare in senso archetipico e analogico. E torniamo a certi insegnamenti antichi che abbiamo ancora solo accennato; come spiegavo anche nel testo che ho menzionato poco sopra, e come scrive persino Hillman, con la sua consueta miracolosa esattezza: «è a questo che si riferiscono le leggende quando dicono che i santi e gli sciamani capiscono la lingua degli animali: non tanto alla lettera, in parole, quanto in senso fisico, da anima animale a immagine animale, parlando con gli animali così come appaiono nei sogni». Dovremmo allora interpretare le apparizioni animali, nel mondo a metà espresso dalla letteratura di Esposito, come apparizioni non solo simboliche, non solo archetipiche, ma anche fisiche, ovverosia potremmo forse evitare il tentativo di interpretazione univoca e banalizzante, in certi casi, per scartare piuttosto questo percorso ovvio, e inoltrarci nel bosco, cambiare prospettiva, cambiare punto di vista, cambiare corpo, e comprendere così le apparizioni degli animali come fossimo noi stessi santi o sciamani, rileggerle nel loro senso più puro, facendo capo alla nostra anima animale; come scrutando nell’ombra delle caverne i dipinti di coloro che siamo stati quando esistevano solo i nostri veri Nomi e perlopiù silenzio o suoni senza senso.
In una splendida intervista rilasciata a Fahrenheit (Rai Radio 3) è stato lo stesso Andrea Esposito a indicare il Bardo Thödol tra le opere che hanno fatto da pilastri alla costruzione della sua letteratura, anche e soprattutto filosoficamente, secondo me, oltre che per ciò che concerne l’immaginario.
Per chi non lo conoscesse il Bardo Thödol è un libro fondamentale della tradizione mistica tibetana; giunto in occidente come Il libro dei morti tibetano è uno dei grandi testi sapienziali della conoscenza misterica orientale. Molti esegeti concordano nell’interpretazione del testo come manuale per la morte e la rinascita spirituale, per la classica «discesa negli inferi» tipica della maggior parte delle culture mitiche. Si tratta di un testo fondamentale, illuminante e ricco di saggezza sacra e immagini oscuri, che difatti ha ispirato anche altri importanti autori, come Antoine Volodine o George Saunders, per citare due esempi contemporanei molto interessanti. Eppure, mi sembra che gli esiti della variante di Esposito producano effetti ancora inusitati e altrettanto perturbanti. Il Bardo di Esposito, nominiamolo così, conserva sempre le ombre della realtà, pur trasfigurandola totalmente. Così riconosciamo i palazzoni o i campi rom, le lamiere, tutto però appare sfocato, punteggiato, immerso nella nebbia e nella pioggia scrosciante.
Ci sembra quasi di ascoltare una melodia, precisione matematica per un’armonia d’insieme che porta l’orecchio a perdersi e avere delle allucinazioni, degli incubi. «Una delle qualità specifiche del Bardo Thödol è la sua essenza musicale, un musicalità interna, densa, evocativa che riconduce all’origine primordiale della parola» scriveva Ugo Leonzio nella sua introduzione al Libro dei morti tibetano che ha curato per Einaudi nel 1996. Ed è incredibile che la descrizione più vicina che io abbia trovato da accostare alla prosa di Andrea Esposito si trovi proprio in queste pagine in cui Leonzio racconta il Bardo Thödol. «È una musica fatta di omissioni che nulla ha da spartire con ciò che l’orecchio può riconoscere in una scala tonale o atonale»: Esposito tende a sottrarre, a eliminare, ferma la penna dal dire; per dire campo rom o profughi dice sempre e solo «campo»; gli aggettivi sono misurati con il contagocce di un alchimista e tramutati in oro puro, rendendo splendente anche il più comune e abusato degli aggettivi: «bello».
«Qui è il suono ripetuto, il veicolo immobile che conduce la mente, suono che per essere regolare infrange ogni regola e si apre a quel sublime disordine che è il silenzio», continua Leonzio. E in effetti, soprattutto, la prosa di Esposito è insolita, le costruzioni sintattiche suonano spesso anomale, le ripetizioni, le anafore, il discorso tortuoso e i lunghi periodi ritmati da punti fermi. Come il suono di tamburi sciamanici, o il vibrare ecolalico del gong.
Ed è sempre la stessa cosa che si ripete e si passa da prima a dopo ancora a prima e ancora e sempre nello stesso tempo senza esaurirsi e senza mai rinascere. Ma non ci tramandiamo. Ci ripetiamo senza sbocciare. Vogliamo trasmetterci ed è la sola cosa che non dovremmo fare. Vogliamo solo ripeterci. Tu vuoi ripetere tua madre. Tua madre voleva solo ripetersi. Si ripete perché tu la ripeti adesso e la ripeterai. Non porti con te niente e vai via senza trattenere niente. Non trattieni niente e non lasci andare niente.
Nel Bardo di Esposito apprendiamo l’insensato ripetitivo andirivieni della vita e della morte. Una condizione esistenziale incontrovertibile. Il Vuoto buddhista. Le storie dei libri di Esposito spesso terminano con qualcuno che dice «Che vuol dire questa storia» e di solito nessuno risponde, spesso non c’è nemmeno qualcuno che sta ascoltando. La morte e la discesa nel Bardo portano alla presa di coscienza che niente ha senso. Una volta acquisita questa consapevolezza, tramite l’illuminazione è possibile fondersi con questa vuotezza. Con questo nulla.
«La pratica del Bardo per eccellenza», ci dice Leonzio, è il mantra, «che non possiede alcun valore semantico, non è suono né immagine né simbolo, ma il luogo dove questi tre elementi si fondono e si annullano creando un varco nell’invisibile e onnipresente Vacuità». Ecco, se dovessimo leggere Voragine e Dominio in profondità, dovremmo porci in questo tipo di attenzione, cercare l’attitudine filosofica che ho appena descritto e mettere tutto in discussione. Non sto dicendo che i libri di Esposito siano essi stessi dei libri sapienziali come il Bardo Thödol ma l’opposto: possono essere letti ponendosi nella condizione mentale richiesta da libri di tale foggia per tentare di vivere la musica mantrica delle parole di Esposito e per goderne pienamente. Esattamente come dovremmo leggere le Liriche di Holderlin o la poesia di Beckett What is the Word. Possiamo studiare questi testi anche per una vita intera ma per comprenderne davvero il loro potere bisognerebbe recitarli a viva voce nella notte, col cuore in pezzi, senza nemmeno soffermarsi a riflettere, bisbigliando velocemente come chi dice il rosario. Una formula magica funziona solo se pronunciata da un credente.
Poi dice:
Alla fine lo troviamo. Alla fine trovi tutti. Non scappa mai nessuno. Nessuno scappa mai troppo lontano e alla fine trovi tutti. Alla fine tornano o alla fine li ritrovi appena dietro l’angolo perché nessuno scappa mai troppo lontano o vanno proprio dove dovevano andare dall’inizio. (Andrea Esposito, Dominio)
In un libro fenomenale di Giorgio Agamben che s’intitola Il fuoco e il racconto – e che chiunque si occupi di letteratura dovrebbe senz’altro leggere – il filosofo scrive «Il “libro” è ciò che non ha luogo né nel libro né nel mondo e, per questo, deve distruggere il mondo e se stesso». Devo avvertire il lettore che ho estrapolato questa frase da un contesto molto preciso stravolgendone il senso (mi perdoneranno quindi coloro che hanno già letto il libro) ma mi serve per introdurre il tema definitivo (e uso tema in termini musicali) di Dominio e della prosa di Andrea Esposito in generale. Tema che chiaramente prende le mosse dal Bardo Thödol, dalla letteratura di Beckett e da tutto ciò che abbiamo nominato fino a qui. Però vorrei prima fare un salto all’indietro e ricominciare tutto da capo: il titolo di questo ultimo libro è Dominio, termine che appare soltanto due volte nelle ultimissime pagine e sempre indicando un luogo, o meglio: un non-luogo. «Tutto è parte dello stesso dominio dove nessuno ha potere», il «dominio di nulla dove il tempo non riscuote e non esige, non si dipana e non si trasforma». Mi sembra importante sottolineare come, dove si parla di questo dominio, appunto, che potremmo identificare e nominare anche come «il Bardo di Esposito», come sopra; in questo luogo indicato dal titolo vi si arriva sempre tramite l’epigrafe holderliniana: (queste le frasi che precedono le occorrenze della parola «dominio» all’interno del testo) «tutto è vero ed è canto e silenzio allo stesso modo», e «senti questo canto durare nel tempo, lo vedi creare il suo dominio di nulla».
(Rileggiamo lentamente)
Solo quando «saremo canto», ovvero quando saremo vuoto, quando avremo attraversato il Bardo, morendo prima di morire, potremo davvero arrivare alla fine del viaggio, alla Parola Unica, alla realizzazione della bodhi della dottrina tibetana del risveglio, il silenzio assoluto del vuoto, l’assenza nella non-azione, la quiete del Buddha cosmico. Sprofondare nel non-senso e nella Vacuità.
«Che bello sarebbe. Che bello sarebbe finire e sparire».