Il dio è morto, e continua a farci danzare
Italia | Pensiero
Uno scambio con Paolo Pecere, autore del saggio "Il Dio che danza. Viaggi trance e trasformazioni".
Intervista a Paolo Pecere
Prefazione al saggio del filosofo Giuseppe Rensi, "Contro il lavoro", edito da WoM Edizioni.
Chi non segue le mode intellettuali della propria epoca spesso vagheggia una giustizia postuma, sancita quando la storia avrà sgretolato le diplomazie del contingente e dissolto i rapporti di potere che decretano la fama. L’ingombro del passato però adombra anche il presente; se non fosse così un filosofo come Giuseppe Rensi sarebbe considerato tra i più importanti del novecento italiano, ben al di sopra dei contemporanei (e più allineati) Croce e Gentile. Come scrive Gianfranco Sanguinetti, «Rensi fu, in ragione della feroce indipendenza del suo spirito, un visionario che merita di figurare accanto al diabolico Nietzsche e all'irrecuperabile Kafka, così come delle punte più alte delle avanguardie artistiche della sua epoca; ma fu anche un nobile precursore dei situazionisti» [1].
Se chi legge aggrotta le sopracciglia, ascriva pure questo parere ai miei gusti e idiosincrasie, ma abbia la pazienza di seguirmi mentre cerco di rendergli questo filosofo un po’ più simpatico. Anzitutto, Rensi fa parte di quella preziosa categoria di pensatori che cambiano idea durante lo loro vita. Come osserva Fabrizio Meroi [2], l’originale e coerente percorso del filosofo passa da un iniziale positivismo a un idealismo aromatizzato ai Vedānta, per poi approdare a un originale scetticismo e infine, forse, a una sorta di misticismo. Rensi è un Cioran meno poetico e più argomentato, maestro di uno scetticismo ibridato con la teologia negativa e la filosofia orientale, allo stesso tempo più perenne e più contemporaneo di molti suoi colleghi. A contribuire al suo immeritato oblio è stata l’opposizione al regime fascista, che ne ostacolò la carriera fino e oltre la morte, tanto che nel 1941 la polizia ne vietò persino i funerali, arrivando a disperdere il corteo di amici e allievi con degli arresti. Anche in seguito al crollo del regime, il mutare delle ideologie non ha comunque favorito la riscoperta della filosofia di Rensi, che si ritrova individualista tra movimenti che, pur nella loro diversità, si fondano sempre sul collettivo. Se giustizia non è ancora stata fatta però, l’oblio si è mitigato, grazie alla ripubblicazione di molte opere rensiane da parte di importanti case editrici come Adelphi e di editori attenti a interessanti recuperi come Wom, che ha deciso di ripubblicare Contro il lavoro.
Il breve e scandaloso saggio che hai tra le mani è stato scritto nel 1923, ma si mimetizzerebbe perfettamente con un articolo appena uscito per una rivista d’avanguardia. La tesi è limpida, bruciante e ancora in controtendenza: «il lavoro, in quanto è attività spiegata non semplicemente per la voglia e il gusto di spiegarla, ma, mediatamente per un successivo risultato che ne avremo, e immediatamente a beneficio di altri, è sempre ed essenzialmente schiavitù». Il lavoro è schiavitù, perché non vogliamo ma dobbiamo farlo. Ne consegue che «Non si vuol più lavorare. E, razionalmente, è giusto. Si ha ragione. Perché il lavoro (propriamente detto: quello a cui lo sviluppo civile ci costringe) è antispirituale, antitetico all'essenza e alla destinazione dell’uomo». Niente di più lontano dall’etica della produttività contemporanea, dall’anelito al successo professionale ed economico, soprattutto se quest’ultimo ci costringe ancora all’odiato impiego. Ma sebbene il lavoro sia schiavitù, «La necessità del lavoro è perenne. Dunque perenne sarà e dovrà essere la schiavitù. Da queste verità già limpidamente viste ed affermate dallo spirito greco, non c’è via d’uscita».
Rensi non ha dubbi, una società che esalta il lavoro e ripudia la schiavitù è in contraddizione, perché «tra colui che si denominava schiavo e chi lavora non v’è alcuna differenza qualitativa, ma solo una quantitativa. Si tratta unicamente del maggior o minor tempo in cui uno a confronto dell’altro può fare a proprio libito, disporre liberamente e anche a capriccio delle sue ore». Il procedere del filosofo è tipico dello scettico; mette in discussione le nostre credenze più calcificate e le fa esplodere con rintocchi ben calibrati, fino a portarci all’evidenza opposta. Nessuna persona vuol lavorare gratuitamente perché il lavoro è cosa sgradita. Non c’è alcuna nobiltà intrinseca in esso, perché le uniche funzioni specificatamente umane sono, a detta di Rensi, il gioco e la contemplazione: «Solo nel giuoco, cioè quando il nostro agire circola soltanto in sé, trova l’appagamento soltanto in sé, noi siamo assolutamente noi stessi, siamo interamente uomo, vale a dire funzione spirituale, che non s’appropria d’un contenuto in qualsiasi senso concreto. Viceversa, il lavoro (propriamente detto) è schiavitù e quindi negazione assoluta della spiritualità propriamente umana. Nel lavoro, infatti, la nostra attività si esplica, non per il piacere che proviamo ad esplicarla, ma sotto la pressione e il comando d’un fine diverso da essa attività del quale questa è la condizione». È un pensiero che riecheggia Nietzsche in Aurora, quando scrive che «[il lavoro] logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare» [3].
Qui il filosofo sembra anticipare uno stratagemma contemporaneo per incentivare il lavoro, la gamification [4], ovvero la trasformazione – o per meglio dire il mascheramento – del lavoro in attività ludica al fine di incentivare la competizione (e dunque la produttività). Il gioco a cui pensa Rensi però è piuttosto serio, perché vi annovera anche l’arte e la filosofia, in quanto «si tratta unicamente del gusto di formulare ed esprimere una certa impressione complessiva che l’universo ci fa, o di apprezzare una di tali formulazioni, e di enunciare e scambiarsi osservazioni intorno a queste e ai concetti in cui sono racchiuse». La sua gamification dunque non è un trucco per farci lavorare di più ma un “lavoro-giuoco”, ovvero un’attività che esplichiamo per il puro gusto di esplicarla, come l’opera di chi fa arte, scienza e filosofia. Qui la posizione del filosofo risente dei gusti personali (uno sportivo ad esempio la penserebbe diversamente) ma la massima da cui si muove mantiene un valore universale: perché il lavoro diventi gioco «occorre questa cosa essenziale; che ce ne sia la voglia». Rensi sembra qui anticipare la tecno-utopia di Nick Srnicek e Alex Williams, che in Inventare il futuro [5] vagheggiano un tempo a venire in cui la tecnologia è utilizzata per liberare le persone dal giogo del lavoro, piuttosto che aumentarne la mole e fomentare le disuguaglianze. Non so come il filosofo italiano giudicherebbe la fattibilità di questo processo, forse negativamente, giacché scrive che «anche le macchine hanno bisogno di uomini che le mettano in moto, e quindi di lavoro, e quindi di schiavitù», ma senza dubbio ne sposerebbe il fine – un passaggio non di poco conto, perché l’ingegno umano si modella anche attorno ai suoi scopi, e tra una missione iper-produttiva e una dedita alla liberazione dal lavoro c’è una bella differenza. Rensi, comunque, non ha dubbi: «Non è già il caso di parlare d’un “diritto al lavoro”, ma, se mai, d’un diritto al non lavoro».
Come tutte le opere di valore, Contro il lavoro parla ai posteri più che ai contemporanei e sta a noi raccoglierne le tracce. Da bravo scettico, Rensi ci propone un’idea ovvia ma difesa da pochi, ovvero che il lavoro non nobilita ma svilisce; certo, lavorare resta una necessità, ma non è lo scopo di ogni vita degna, anzi, l’invito è di ridurre il più possibile la mole di questa detestabile attività. Il messaggio del filosofo è universale e si rivolge all’intera collettività umana, non ad alcuni privilegiati – non è dunque un invito al sopruso, ma a un riallineamento del nostro patto sociale, in modo da minimizzare il tempo che chiunque dedica a questa schiavitù. In pieno stile rensiano, il breve pamphlet non espone una strategia collettiva per realizzare il sogno di una società libera dal lavoro, ma esorta all’azione individuale – ovvero alla consapevolezza della propria schiavitù e l’invito a lavorare meno, qualora possibile. Aggiungerei che spetta alla creatività umana il compito di impegnarsi a non spostare il proprio fardello su altre persone, ma ad alleggerirlo globalmente. Rensi dà una spallata alle nostre concrezioni ideologiche e suggerisce un nuovo sguardo sul modo in cui impegniamo il nostro tempo. Spesso non vediamo i nostri errori finché non li riscontriamo altrove ed è forse per questo che all’interno di questo breve saggio si trova una novella – quasi una favola – che condensa in poche righe il senso del libro:
«Supponiamo che dal fondo dell’oceano una conchiglia pensante emergesse per la prima volta alla superficie ed aprisse le sue valve alla luce; supponiamo che essa sapesse di poter rimaner solo per pochi istanti al cospetto dell’universo immenso e variopinto e di dover poscia ritornare per sempre negli oscuri e misteriosi abissi del mare. Come si potrebbe giustificare l’affermazione che, non, se mai, necessità bruta, ma dovere morale sia per questa conchiglia quello di dedicare quei pochi istanti al lavoro? Come si potrebbe sostenere che la sua stessa essenza di ente spirituale e pensante non esiga invece che essa li dedichi alla contemplazione del grandioso spettacolo che solo per un momento le si affaccia? E come si potrebbe tributare plauso e approvazione morale e dare la consacrazione d’una spiritualità superiore a quella conchiglia se il breve momento consacrasse al lavoro e non alla contemplazione?»
Di recente un celebre oligarca si è vantato di lavorare centoventi ore a settimana. Sebbene sia probabilmente una spacconata, questa affermazione gravita attorno a un dato veritiero: l’abitudine alla contemplazione si è erosa a tal punto che anche chi potrebbe goderne non lo fa. Seguire il consiglio di Rensi non conviene dunque solo alle persone pigre e sfaccendate, ma a chiunque – ecco qualcosa per cui vale la pena lavorare.
[1] Gianfranco Sanguinetti, L’Audace de Giuseppe Rensi, in Giuseppe Rensi, Contre le travail – essaie l’activité la plus honnie de l’homme, Allia, Paris, 2019, p. 8
[2] Fabrizio Meroi, Rensi, Giuseppe, Enciclopedia Treccani https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-rensi_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Filosofia)/
[3] Friederich Nietzsche, Aurora §173, in Opere (Vol. V, Tomo 1) – Aurora e Frammenti Postumi (1879-1881), Adelphi, Milano, 1964, p. 126-127
[4] “Attraverso le tecnologie della gamification, le aziende come Amazon e Disney raggiungono un livello di controllo senza precedenti sui corpi dei loro dipendenti. Una forma di microgestione che – come sottolinea invece Jerry Z. Muller, autore di The Tiranny of Metrics – «premiando gli individui in base al- le performance registrate riduce il senso di avere uno scopo comune basato sulla cooperazione e l’efficacia. Al contrario, questa forma di ricompensa promuove solo la competizione»”. Andrea Daniele Signorelli, Technosapiens, D Editore, Roma, 2021, p.66
[5] Nick Srnicek, Alex Williams, Inventare il futuro, Not, Roma, 2018