Schermi, sogni e spettri: Mark Fisher e la cultura popolare
Globale | Pensiero
Minimum Fax pubblica il secondo volume dedicato agli scritti di K-Punk: questa volta tocca al cinema e alla televisione.
Ovvero, che fine ha fatto il romanzo sperimentale?
Sarà il caso, prima di parlarvi del romanzo di Giulio Mozzi, Le Ripetizioni, di segnalare due cose.
Primo, da dove sto parlando. Io sono un aspirante scrittore di genere (fantascienza, giallo, horror – quelle cose lì: mi sento più a mio agio se c'è da scoprire l'assassino, comunicare con gli alieni o non aprire quella porta) e come lettore sono arrivato al romanzo-romanzo, detto anche "mainstream", solo dopo i 30 anni. Mi piacciono i romanzi di trama e più ce n'è meglio è, e sono sempre stato abbastanza insensibile al problema del linguaggio, questo feticcio della vecchia critica italiana, almeno finché non ho cominciato a scrivere anch'io e mi sono reso conto che non dipendeva tutto dalla storia ma anche da come la racconti e che alla lingua che usi devi pensarci eccome, e non solo nel senso della grammatica. Soprattutto mi piacciono i romanzi di personaggi, convinto che alla fine sono loro quel che resta, non le storie né la lingua, e che il loro scopo non è tanto di farci da specchio quanto da modello. Sono un buon lettore – sicuramente sono meglio come lettore che come scrittore - sia per quantità che per qualità, e ho pure un'infarinatura di critica e narratologia ma, decisamente, non sono un critico.
Per questo, e questa è la seconda cosa, potrei non essere la persona adatta a parlare di un romanzo come quello di Mozzi, cioè di un romanzo che un tempo si sarebbe detto "sperimentale".
Spiegato semplice, come direbbero al Post: ho deciso di non dare niente per scontato e ripercorrere la storia a piedi. Con "romanzo sperimentale" si intendono alcune cose affini ma in qualche modo distinte. L'espressione è ottocentesca e viene da Emile Zola: l'idea è quello di una narrativa che obbedisca alle leggi scientifiche e che sia perciò principalmente un mezzo di osservazione e azione sulla società. Ma i romanzi che ne derivano, quelli di Zola in testa, non sono affatto diversi da quei solidi e massicci romanzi ottocenteschi, simili a divani intagliati in mogano che da soli occupano metà salotto, che sono il vero avversario/termine di paragone del romanzo sperimentale novecentesco, quello che intendiamo solitamente come tale e associamo a nomi come Joyce, Proust, Kafka, Musil, Woolf, Beckett ecc. Il plot complesso ma coerente, che si conclude con un matrimonio o un suicidio, ora si dilata o comprime o frammenta o disperde o rimane desolatamente aperto; la lingua, più o meno espressiva, e con lei la sintassi del romanzo ben fatto si avventurano in territori personali e non sempre intellegibili; i personaggi perdono definizione, si disuniscono, si disgregano, dubitano della loro stessa esistenza e finiscono spesso per confondersi con la tappezzeria verbale. Resta solo il dominio assoluto dell'autore.
L'imperativo di "make it new", che è comune anche a tutte le altri arti del Novecento, deriva in parte dall'idea che di fronte a un mutamento tecnologico e sociale senza precedenti sia necessaria un'arte anch'essa senza precedenti, al passo coi tempi, sia per mezzo di avanguardie armate di manifesti, decaloghi e riviste, sia per mezzo di singole personalità che decidono di sfidare il mondo sul suo stesso terreno armate solo di una determinazione al limite della presunzione o della mania. Deriva anche (o soprattutto) da quello che si dice il 'problema del Manierismo': cioè, cosa fai quando una forma artistica ha chiaramente raggiunto il suo apice? Cosa dipingi dopo Leonardo, Michelangelo e Raffaello? Cosa scrivi dopo Flaubert, Tolstoj e Henry James? Se sfidarli sul loro terreno è peggio che inutile l'unica soluzione è cambiare le regole del gioco e cambiarle nel modo che va bene a te e SOLO A TE.
(Nota bene: il punto del romanzo è che ha una storia più lunga della sua consacrazione/codificazione ottocentesca e che la sua caratteristica principe è una certa mancanza di forma stabilita – le forme fisse erano quelle della poesia -, malgrado tutte le chiacchiere narratologiche che vorrebbero dimostrarci come i principi dei "romanzi ben fatti", quelli che insegnano nelle scuole di scrittura americane, siano gli stessi fin dai primi racconti intorno al fuoco dei Sapiens e che non siano stati inventati molto di recente ma scoperti come Pompei e liberati da secoli di cenere e idee sbagliate. Da dire che certi meravigliosi esempi di romanzi destrutturati in anticipo, specie nel Settecento – il Tristram Shandy, Jacques il Fatalista – erano sempre esempi di romanzi comici; il XX secolo per primo ha usato la destrutturazione a scopi drammatici o tragici).
Nel 1946 James Agate, critico teatrale e letterario inglese simpaticamente reazionario, sosteneva di non essere per principio contrario alle novità ma metteva dei paletti, stabilendo a quali condizioni si potevano accettare o meno:
1) quando è l'unico modo per dire qualcosa di nuovo; 2) quando è un modo buono come un altro per dire qualcosa di nuovo a cui viene aggiunto lo charme dell'inaspettato; 3) quando è un modo migliore per dire qualcosa di vecchio; 4) quando è un modo buono come un altro per dire qualcosa di vecchio a cui viene aggiunto lo charme dell'inaspettato.
Quel che non piaceva a Agate era la sperimentazione fine a se stessa, sia del punto di vista degli autori che cercavano di distinguersi inventando qualcosa di "nuovo", sia dal punto di vista dei lettori e spettatori che volevano sentirsi al passo coi tempi e distinti da quelli in ritardo. In un clima intellettuale in cui si prendeva ancora per buono il concetto di storia ancor di più di quello di progresso e con esso il corollario per cui l'arte doveva essere al passo coi tempi o addirittura all'avanguardia, c'era un pubblico, forse non di massa ma discretamente consistente, alto-borghese e/o studentesco, disposto a accettare di leggere libri con capitoli stampati su fogli separati e mescolabili come carte da gioco, di guardare film con personaggi interpretati da più attori e interrotti da discussioni sul concetto stesso di cinema, di acquistare quadri composti da tagli sulla tela o ascoltare concerti fatti di silenzi. Dietro (o davanti) a tutto questo si alimentava una ricca discussione accademico/giornalistica che sentenziava la morte del romanzo e dell'autore e proclamava con certezza che certe cose molto popolari fra i lettori 'non si potevano più fare', tipo scoprire l'assassino nei gialli.
Il concetto d'avanguardia, di origine militare, significava che le pattuglie avanzate avrebbero aperto la strada al grosso dell'esercito, che non avrebbe tardato a arrivare e occupare tutto.
Invece no.
A un certo punto quel tipo di pubblico "colto" cominciò a diradarsi e sparire: alcuni nomi come Joyce, Proust, Kafka ecc. s'erano creati uno status monumentale e inattaccabile e quindi restavano, ancora letti e riveriti, ma erano più come ville e chiese fuori mano che si andava a visitare che case in cui la gente vivesse veramente o locali pubblici frequentati da chi voleva divertirsi. Il pubblico di massa, che aveva continuato imperterrito a leggersi i suoi romanzi ben fatti e/o di genere divenne l'unico pubblico possibile. Soprattutto, si erano imposti nuovi modi per distinguersi dagli altri e s’era capito che la funzione di distinzione così necessaria all’arte, cioè l’uso come strumento o arma per sentirsi migliori degli altri poteva essere benissimo assolta dalla cultura pop e dai generi, una distinzione orizzontale invece che verticale, così che non c’era più bisogno di impegnarsi con roba difficile per ottenere lo stesso effetto di superiorità.
Chiaro, qualcosa era cambiato anche nei romanzi realmente letti, com'era normale e com'era sempre successo: Stephen King scrive in modo molto diverso da Edgar Wallace, come Don DeLillo da Ernest Hemingway. Il post-moderno funziona come recupero dei vecchi meccanismi del romanzo ben fatto ma con strizzata d'occhio al lettore. Certi meccanismi un tempo sperimentali oggi sono normali attrezzi nella cassetta dello scrittore mainstream: tipo, Sandro Veronesi può vincere uno Strega e vendere parecchio con un romanzo, Il Colibrì, dove la successione dei capitoli è apparentemente casuale e a un certo punto si finisce pure nel futuro, eppure più mainstream di così non potrebbe essere senza implodere in un buco nero.
E già che siamo in Italia, restringiamo l'inquadratura: l'Italia del Boom e del Secondo Rinascimento, un leader mondiale nelle arti più nuove, il cinema e il design, non resta indietro nelle arti tradizionali, tanto da dotarsi, nel 1963 a Palermo di un'avanguardia (anzi, neo-avanguardia) letteraria, il Gruppo '63 e già l'idea di far nascere un'avanguardia artistica in un albergo di Palermo dice molto. Obbiettivi polemici sono la poesia e la narrativa correnti, post-neorealiste e tardo-crociane e 'ma ancora l'Ermetismo?!? Maddai!', e fra i bersagli umani ci sono scrittori all'epoca (e alcuni ancor oggi) famosi come Bassani, Cassola e Tommasi di Lampedusa. Il gruppo si scioglierà nel 1969, quando gli eventi politici avranno reso un po' sorpassate le preoccupazioni letterarie delle origini e comunque per allora i promotori erano tutti discretamente famosi e sistemati. Un po' di nomi: Umberto Eco, Giorgio Manganelli, Alberto Arbasino, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani, Angelo Guglielmi, più altri nelle vicinanze, tipo Calvino e Malerba (bit of a boys' club, isn't it?)... Non mi metto a fare un elenco di testi ma procuratevi la raccolta delle Interviste impossibili, un programma radiofonico della radio 1974-'75, che rappresenta un po' la summa estetica del gruppo e è pure piuttosto divertente (c'è un'edizione completa Donzelli). C'è uno spirito irriverente e sarcastico verso mostri sacri di ogni tempo che oggi non sarebbe tollerato, ora che la Cultura è una cosa da difendere perché da sola chiaramente non ce la fa e quindi bisogna essere molto rispettosi con i valori e le eccellenze italiane e parlarne bene in tivù perché se no vincono i Cattivi.
La critica standard al Gruppo '63 è appunto quella di essere stata la solita cordata di potere italiana, messa su per scalzare certe posizioni di potere editoriale e giornalistico e accademico rimaste dal fascismo oppure legate all'ortodossia comunista e metterci se stessi. Vero ma anche falso: se uno va a leggere i testi, tipo quelli del convegno proprio sul Romanzo Sperimentale del 1965 è difficile non ammettere che gli intervenuti parlano DAVVERO del romanzo e del suo destino, ne parlano come qualcosa di importante e decisivo, e proprio questo ci fa sentire in un passato magico e lontano.
L'altra critica, un po' più fondata, è che le opere (per qualche motivo Le interviste impossibili non vengono mai considerate e io non me ne capacito) non erano all'altezza delle teorizzazioni. Chi ha scritto cose che sono rimaste l'ha fatto perché l'avrebbe fatto comunque – l'Arbasino di Fratelli d'Italia, il Manganelli di Hilarotragedia e Centuria (Roberto Calasso odia l'idea stessa del Gruppo '63 e sostiene, assurdamente, che Arbasino e Manganelli non ne facevano veramente parte) – mentre altre cose, tipo il Capriccio Italiano di Sanguineti e altre robe ancor più astruse oggi non si riesce proprio a leggerle (anche introvabili, peraltro). Ironico poi che quella stagione sia definitivamente chiusa proprio da una delle colonne del Gruppo '63, l'Umberto Eco di Opera aperta e La struttura assente, che quando si decide a scrivere un romanzo scrive un giallo che si lascia dietro nella polvere il 99% dei giallisti, è un best seller mondiale e soprattutto mette ufficialmente fine alla stagione degli esperimenti: si torna alle Storie, anzi allo Storytelling, allo Show Don't Tell, al Point of View, ai tre atti e al Viaggio dell'Eroe, con personaggi a tutto tondo, generalmente presi dal cinema, ma soprattutto "relatable" (non voglio dire che Eco lo volesse, ma accadde). Le scuole di scrittura sono dietro l'angolo, come pure l'occasionale accademico o aspirante critico (in un'epoca in cui i critici contano sempre meno) che lamenta la decadenza della "vera" letteratura e dice che oggi Carlo Emilio Gadda non sarebbe pubblicato, lo stesso Gadda che protestava violentemente contro l'etichetta di 'sperimentale' anche se scrisse un romanzo giallo che si interrompeva prima di rivelare chi fosse l'assassino...
A un certo punto delle Ripetizioni il protagonista, Mario, è in treno e si è portato da leggere un romanzo: Arnolfini di Gian Luigi Piccioli, pubblicato nel 1970 nella collana Feltrinelli "I Narratori", i cui testi Mario compra ogni volta che li trova, ai remainders o sulle bancarelle. "Una prosa ostica, dalle quali sembrano essere stati grattati via i segni di punteggiatura, i connettivi, gli articoli". La vicenda "come in tanti libri degli anni Settanta che si dicevano sperimentali, si chiarisce solo un po' alla volta e solo fino a un certo punto". L'autore, "risiede a Roma, dove lavora nel servizio programmazione di una grande industria di stato". Riepilogando nel suo piccolo l’arco storico della neo-avanguardia Piccioli vincerà nel 1987 il Premio Flaiano con Il delitto del lago dell'Eur.
Eppure Giulio Mozzi, in pieno 2021, scrive il suo primo romanzo e è un romanzo decisamente e orgogliosamente sperimentale, figlio riconosciuto di quella stagione lontana e impopolare.
Giulio Mozzi esordisce nel 1993 con una raccolta di racconti, Questo è il giardino. È essenzialmente uno scrittore di racconti (di recente Laurana ha pubblicato un best of: Un mucchio di bugie. Racconti scelti 1993-2017) e questo in un mercato che generalmente disdegna la forma breve e punta alla monocultura del romanzo. Relativamente poco noto al grosso pubblico, Mozzi potrebbe essere definito un "writers' writer". Ha scritto anche poesie e saggi ma a partire dall'inizio del secolo si è concentrato sullo scouting editoriale e l'insegnamento della scrittura (lui preferisce il termine "retorica" di nobile ascendenza classica) e se devo giudicare dai suoi scritti sull'argomento mi pare in assoluto il migliore in Italia. Nei limiti che si autoimponeva, la versatilità stilistica di Mozzi è notevole: ho questa fantasia che in realtà sia il vero autore di decine di Gialli o Urania o Segretissimo sotto pseudonimo...
Non che non avesse mai provato a scrivere un romanzo; in effetti ci lavorava a intervalli da più di vent'anni, ma senza esserne mai soddisfatto, finché ha approfittato dell'inattività forzata del 2020 per finirlo. È uscito a gennaio di quest'anno per Marsilio.
Recensione in breve: ne vale la pena? Sì – ma con una discreta quantità di trigger warning.
La raccontava spesso, Mario, questa storia: di come in un giorno di giugno di un po' d'anni fa – un 17 giugno, diceva lui, ma secondo noi andava a occhio e s'inventava, per esagerare in precisione e dare più efficacia al racconto – improvvisamente ritrovò la propria infanzia, che credeva perduta; e di come, poche settimane dopo, quella medesima infanzia ritrovata, avendo voluto andare a verificare materialmente ciò che aveva ritrovato, l'aveva perduta nuovamente: per riconquistarla, infine, e forse per sempre: non più come ricordo, ovvero non come ricordo vero, ma come ricordo di un ricordo non vero, come immaginazione o fantasia, ma in ogni caso come fondamento della propria vita, come origine stessa della propria vita presente. Sembra che, piuttosto che la fantasticata infanzia, soggiungeva a volte Mario, non sia il fantasticare stesso il fondamento e l'origine della vita; il donare a sé, con sforzo d'invenzione, nostalgico o eroico che sia, una radice dell'esistenza, e quasi un destino preconizzato, e finalmente una storia, priva dell'attributo della realtà, ma dotata di quella della verità.
Ma andiamo con ordine.
Un incipit manzoniano in cui uno sfuggente narratore in una rarissima prima persona plurale ci parla di Mario e di quella volta che ai giardini di Boboli a Firenze l'odore di un cespuglio di bosso gli ricordò irresistibilmente l'infanzia e le vacanze estive in un piccolo paese del Friuli, tanto da spingerlo a tornarci come non faceva da anni e lì scoprire che il cespuglio di bosso non c'era mai stato e che I suoi ricordi sono irrimediabilmente ambigui e forse inventati.
In questo magistrale e per certi aspetti autoconclusivo capitolo (un classico racconto di Mozzi) facciamo appunto la conoscenza di Mario, il protagonista delle Ripetizioni, che ha molti dati biografici in comune con l'autore – vive a Padova, lavora nell'editoria, è stato impiegato per anni nell'ufficio stampa di Confartigianato Veneto, è nato il 17 giugno – ma anche una radicale indistinzione che finirà per trascinare nell'abisso lui, il romanzo e lo stesso lettore.
Gli altri personaggi importanti sono Viola, la donna che Mario potrebbe sposare; Bianca, da cui forse ha avuto una figlia, Agnese (non è sicuro di essere il padre); e Santiago, di cui riparleremo. Poi ci sono varie figure d'area veneto-patavina (per un romanzo disposto a correre così tanti rischi il radicamento locale è sorprendentemente forte) senza un nome proprio: il Grande Artista Sconosciuto, il Terrorista Internazionale, il Capufficio, il Martellatore di Monaci. Altri ancora hanno un nome, come Franco Vaccari, artista concettuale che alla Biennale di Venezia del 1972 presentò un'installazione con una cabina per le fototessere dove il pubblico doveva fotografarsi e appiccicare le foto a un muro e che il giovane Mario visita con la classe.
L'azione – le azioni, meglio - coprono vari decenni di vita italiana - I riferimenti all'attualità sono precisi e anche numerosi ma terribilmente frustranti, dato che non sono chiaramente il punto della faccenda e per quanto vere sembrano venire da un altro mondo - anche se tendono a raggrupparsi intorno a diversi 17 giugno. Mario cerca la fotografia che si fece alla Biennale nel 1972 – ci sono molte fotografie in questo romanzo, come pure diversi inserti saggistici, fra cui uno particolarmente inquietante sul Generale Cadorna (uno che scrisse: “Si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all'attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice”), inquietante sia perché orribile sia perché non capiamo veramente cosa ci faccia lì ma intuiamo che c'è una ragione, come per tutto il resto -, discute d'arte col Grande Artista Sconosciuto, pedina il Terrorista Internazionale, sospetta, giustamente, che Viola abbia una seconda vita molto dark ma decide di non farne nulla, scopre che Bianca è pazza e che sa o intuisce la verità su di lui, si chiede se una ragazza in treno non sia sua figlia Agnese – che non è sicuro sia davvero sua figlia - che non vede da quando era bambina anche se subito dopo scopriamo che invece l'ha vista più volte...
Ecco, a poco a poco ci rendiamo conto che le storyline che si intrecciano (la storia delle fototessere, la storia del ballo alla sagra, la storia di Viola, la storia di Agnese, la storia dei viaggi in treno ecc. – alternandosi in capitoli numerati) non solo sono mescolate come un mazzo di carte ma sono anche incompatibili, cioè se è vera una non può esserlo un'altra e la contraddizione non è mai risolta.
'In tutte le opere narrative, ogni volta che s'è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts'ui Pen, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang – diciamo – ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l'intruso, l'intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell'opera di Ts'ui Pen, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni' – così Borges nel Giardino dei sentieri che si biforcano. O come disse il grande Yogi Berra: 'When you come to a fork in the road, take it'.
Mozzi non ricorre a esperimenti linguistici: la lingua è piana, precisa, molto legata al reale – anche troppo. I corpi sembrano agire autonomamente dalle menti. A poco a poco l'aria si fa soffocante e leggermente orribile: scene di sesso estremamente cliniche interrompono le vaghe attività di Mario, che ci piace sempre meno più lo conosciamo (o ci pare di conoscerlo). Santiago appare rapidamente in una scena, un rapporto sado-maso con un professore che, uscendo, incontra un uomo con un cane.
Dell'uomo col cane ci siamo dimenticati fino a che, a pagina 186, Santiago si prende il centro della scena. Un marchettaro dalla bellezza efebica che è anche un'incarnazione del Male fra le più intollerabili della letteratura recente e non solo. Non ha una storia né motivazioni che lo spieghino. Solo la volontà di dominio contro chi sia così debole da lasciarsi dominare. Mario è il suo schiavo sessuale e non solo. Non sappiamo perché si sottometta, non sappiamo perché non riesca a staccarsene, dobbiamo accontentarci di qualche sua vaga preoccupazione sulle intenzioni di Santiago. Cominciano a succedersi scene persino difficili da leggersi, di crudeltà freddissima e dettagliata. Un mio amico lo legge e non è impressionato, parla di 'Jeffrey Dahmer dei poveri' e io mi chiedo cosa ci fosse di ricco in Jeffrey Dahmer; un altro invece si indigna, parla di strappo etico col lettore e promette di non leggere mai più non solo Mozzi ma qualsiasi libro edito da Marsilio.
La personalità di Mario – l'uomo col cane che incrocia il professore mentre esce dal portone - si sfalda sempre di più, come pure quella di Viola e di Bianca e di Agnese. Possibilità di salvezza – il Capufficio come maestro rifiutato, l'arte per mano del Grande Artista Sconosciuto (il cui quadro 'Discorso attorno a un sentimento nascente' è riprodotto all'interno) – vengono rifiutate una dopo l'altra. Una donna scrive una lettera al padre accusandolo di cose orribili ma non sappiamo se sia Viola, Bianca o Agnese, nel qual caso il padre sarebbe Mario, dal quale ormai ci aspettiamo il peggio. Il finale è semplicemente intollerabile ma si interrompe a metà – 'Adesso, basta' e il romanzo finisce.
Usciamo un attimo a respirare e chi vuole si può fumare una sigaretta.
Per quante perplessità possiamo aver avuto, l'effetto alla fine c'è stato, tutto.
Ma ne è valsa la pena? Per me sì.
'Il problema della convenzione non è di essere non veritiera di per sé, ma di correre il rischio, a forza di ripetizioni, di farsi sempre più convenzionale', perciò per James Wood (Come funzionano I romanzi, recentemente pubblicato da Minimum Fax nell'edizione del 2018, uno dei migliori testi sul senso della narrativa che possiate leggere) lo scrittore realista è sempre impegnato a creare nuove forme di vita per evitare che la vita stessa diventi convenzionale.
La struttura apparentemente caotica dei capitoli è in realtà perfettamente calibrata a provocare tensione, solo che rinuncia alle normali tecniche per ottenerla, e funziona perché è in grado di farlo (e non vi ho detto niente delle "Oblique Strategies" di Brian Eno e Peter Schmidt, uno dei pezzi forti del Mozzi insegnante). L'ancoraggio delle Ripetizioni alla realtà è estremamente forte e I singoli brani riproducono spesso alla perfezione il tessuto della vita in quanto ha di più quotidiano, tanto da provocare un effetto vagamente allucinatorio e per nulla rassicurante. Soprattutto alla realtà del corpo stesso, che riporta al titolo di una delle raccolte di racconti di Mozzi, Il male naturale, del 1998, uno dei cui racconti provocò un'interrogazione parlamentare per la sua rappresentazione troppo cruda della pedofilia. Il Male nelle Ripetizioni è assolutamente sgradevole perché non è attutito né dalle convenzioni dell'horror, che comunque è intrattenimento, anche nei suoi esempi più grandi, né da confortanti condanne morali esplicite, né da un provvidenziale intervento di polizia e magistratura. Ricorda un po' la violenza estrema delle Istruzioni per l'uso pratico della Signorina Richmond di Nanni Balestrini, uno delle opere capitali di quella stagione di cui dicevamo, ma senza la visionarietà surrealista del futuro latitante, sostituita da una clinica precisione. È il male del peccato originale, e la mancanza di volontà di un uomo apparentemente intelligente e colto come Mario lascia al male la possibilità di uscire e crescere naturalmente dal corpo. Siamo cattolici, c'è il libero arbitrio e dobbiamo fare la nostra parte per non cadere nell'abisso. E la sperimentazione è qui la terza possibilità di Agate: "un modo migliore per dire qualcosa di vecchio", di molto vecchio e molto fondante.
A me è venuto in mente l'ultimo capitolo di Arancia meccanica, quel capitolo tagliato dalle edizioni americane e soprattutto dal film di Stanley Kubrick. Anthony Burgess era uno scrittore popolare ma molto legato alle temperie sperimentale novecentesca e in particolare a James Joyce. A Clockwork Orange è scritto in una lingua inventata, misto di anglo-americano e russo e, se ricordate, termina con la riaffermazione della libertà personale che è libertà di peccare e perdersi, e col ritorno di Alex al male, con gran soddisfazione di tutti.
Però nel capitolo tagliato Alex si stufa. Cresce e l'ultraviolenza comincia a annoiarlo. Non si va da nessuna parte e Alex pensa che alla sua età Beethoven aveva già fatto cose meravigliose e lui niente. Invidia uno dei suoi vecchi complici che si è sposato e aspetta un figlio. Il male è sterile e noioso, senza la minima attrattiva, è solo male. L'editore americano forse aveva ragione dal punto di vista letterario ma Burgess da quello sostanziale: non c'è nulla di attraente nel male, qualsiasi cosa ne pensi la cultura pop o 'seria' e ci voleva uno scrittore dalla personalità forte per mostrarlo in tutta la sua nudità.
Le Ripetizioni non sono un romanzo rilassante, non intrattengono, non lasciano spazio alle scuse, richiedono uno sforzo, alla fine siamo letteralmente esausti, ma è come arrivare in fondo a una maratona: ci sentiamo meglio.