Una fenomenologia dello storico e dei nuovi rapporti tra potere e cultura.
Questo articolo, lo prometto, parlerà di Alessandro Barbero, sebbene venga nominato in questa breve introduzione per ricomparire soltanto in seguito a una manciata di paragrafi zeppi di nomi che si riferiscono a un passato lontano – e poi sempre più vicino. Barbero, dopotutto, si diverte a spaziare durante i propri interventi, apre tante piccole parentesi che prese singolarmente sembrano servire a ben poco, e senza le quali tuttavia l'argomento principale perderebbe di nerbo. Se vogliamo parlare delle ragioni che hanno portato lo storico torinese a diventare nel corso dell'ultimo anno un simbolo – e un meme – della lotta di classe, dobbiamo partire da lontano, e cercare di spiegarci a quali vuoti faccia eco, e cosa si trovasse dentro quei vuoti prima che venissero scavati. È una lunga digressione, ma non possiamo farne a meno.
Tra intellettuali e potere
Il mondo degli intellettuali e quello della politica sono sempre stati in una certa misura interconnessi; si è trattato a lungo di un legame mutuato da esigenze economiche, poiché nei contesti medievali un laico privo di mezzi propri che volesse rimanere tale poteva dedicarsi alla parola scritta soltanto se fosse riuscito ad accaparrarsi tramite adulazione il supporto di un patrono – come Machiavelli che con la dedica del Principe a Lorenzo il Magnifico tentava di riavvicinarsi alla corte dei Medici, o Dante che scrive una lettera al protettore Cangrande della Scala; andando ancora indietro, fino alla prima metà del '200, Federico II di Svevia promosse lo sviluppo di una scuola poetica autoctona, lo Stilnovo, non mancando di partecipare attivamente alla produzione di versi. Storicamente l'intellettuale era colui che, affiancato e schermato dall'influenza di un personaggio di potere, metteva a sua disposizione le proprie doti filosofiche e letterarie, attaccando con una parzialità che non era malvista ma perfino dovuta, gli oppositori del proprio patrono – gli intellettuali protetti dal papato additavano come un satanasso Federico II, che veniva a sua volta difeso dai letterati che gli erano vicini.
Va da sé che i rapporti tra cultura e potere sono cambiati dal Medioevo; l'intellettuale – inteso come artista e come studioso – ha conquistato un sempre maggiore autonomia man mano che la sua fama si dimostrava in gra do di attirare un pubblico affezionato – e pagante. Beethoven, ricattato dal proprio mecenate, il principe Karl Lichnowsky, riguardo a un'esibizione a beneficio di alcuni ufficiali francesi, si risolse ad abbandonare il patrono dopo un lungo litigio, proponendosi come direttore dei teatri imperiali e diventando a tutti gli effetti un artista indipendente. In quegli anni stava avvenendo un mutamento radicale nella concezione delle arti; quello che era visto come un vezzo spendibile ma tutto sommato poco dignitoso, era diventato motivo di ammirazione, una dote eccezionale che dava diritto a un uomo orgoglioso come Ludwig von Beethoven di guardare dall'alto in basso l'aristocrazia austriaca.
Ogni intellettuale, dopotutto, agisce per conto proprio, a seconda delle proprie convinzioni sull'arte e sulla politica e dello spazio di manovra concesso dal contesto. Restando nell'ambito della composizione musicale, Verdi denunciava l'iniqua occupazione della penisola italica tra le righe delle proprie opere, diventando simbolo di un sentimento repubblicano che si esprimerà con entusiasmo nel grido Viva Verdi!. La stessa denuncia compare con analoga discrezione nelle opere di Manzoni, soprattutto nell'Adelchi, scritto tra il 1820 e il 1822. Dall'età risorgimentale in poi, l'opera degli intellettuali diventa uno strumento di denuncia e di protesta, messa in atto in contrapposizione alla classe dominante anche in assenza di un potere che li appoggi e possa fare da scudo. La censura nazifascista si è abbattuta con una ferocia inedita sugli scrittori e i giornalisti che ne denunciavano gli orrori – Pietro Gobetti, Antonio Gramsci, Leone Ginzburg – quando in tempi lontani che ci piace ricordare più bui, perfino a Galilei, a Bruno e a Campanella è stata data la possibilità di ritrattare i propri scritti e avere salva la vita. La storia si è dimostrata inclemente con gli uomini che almeno per un certo periodo hanno scelto di allinearsi allo stesso potere che ha stroncato le vite dei primi, e oggi è con un certo imbarazzo che si affrontano le opere di Louis-Ferdinand Cèline, di Ezra Pound, e dell'irriducibile Heidegger.
Nel secondo dopoguerra l'impegno politico degli intellettuali viene portato avanti con vivo entusiasmo; Albert Camus, affiliato durante l'occupazione nazista alla cellula partigiana Combat, aderisce al Partito Comunista insieme a Marguerite Duras, Raymond Queneau e Simone de Beauvoir, che nel 1971 firma il Manifesto delle 343 puttane, un'autodenuncia di massa di sensibilizzazione per il diritto all'aborto. Negli stessi anni il marito Jean-Paul Sartre fonda un partito che faccia da terza forza rispetto alla duplice egemonia dell'URSS e degli Stati Uniti – non raggiungendo i risultati sperati, tornerà a riconfluire nel Partito Comunista. In Italia dal fronte letterario si impegnavano politicamente Italo Calvino, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini. In quegli anni fare cultura non significava fare soltanto cultura; niente tratteneva un intellettuale nella ridotta circoscrizione del proprio ambito. Possiamo ben vedere che oggi le cose sono cambiate, non possiamo che prenderne atto e interrogarci sul quando e sul perché.
E ora, Barbero
Alessandro Barbero è al momento lo storico più famoso in Italia – forse l'unico storico italiano a potersi definire davvero famoso al di fuori del contesto accademico. Tra saggi e monografie ha pubblicato una buona quarantina di libri, spaziando tra il suo campo specialistico – il Medioevo e la storia militare – Carlo Magno, le Crociate, le battaglie che hanno cambiato la storia – e una vasta varietà di argomenti ed epoche – Dante, gli anni di piombo, l'Impero Romano. È meno noto come scrittore di narrativa, nonostante il suo esordio in narrativa, Bella vita e guerre altrui di Mr Pyle, gentiluomo gli sia valso il Premio Strega nel 1996.
Il successo di Barbero dipende prima di tutto dalle sue capacità oratorie, dall'abilità con cui intreccia insieme i fatti – date, battaglie – e gli interessi personali degli agenti, senza mai perdere di vista, e anzi mettendone in guardia il suo pubblico, la possibilità di mistificazione insita nel suo lavoro, che consta nel prelevare pezzi di storia lontana e farne un racconto fedele e al tempo stesso intrigante. Non dimentica, Barbero, che se un contesto storico e sociale predispone un certo comportamento, è anche vero che quello stesso comportamento è messo in atto da una persona, ed è riduttivo pensare alla storia come a un susseguirsi di epoche che muovono univocamente l'azione dei protagonisti, che piuttosto contribuiscono alla formazione del contesto, in un rimpallarsi di cause ed effetti, azioni e reazioni.
Barbero funziona, soprattutto, perché gli argomenti di cui tratta sembrano divertirlo genuinamente, specie quando si discosta dal tema centrale di una conferenza per addentrarsi in piccole digressioni. Dà l'impressione di avere sublimato per intero il proprio sogno nel farsi pagare per studiare e parlare di storia; è per questo intrinseco diletto che alleggerisce i suoi interventi, che gli appassionati, non meno degli studenti che si trovino nel piano studi un esame di storia medievale, trovano preziosi le sue innumerevoli comparse in occasione di festival culturali, alcuni dei quali sono stati raccolti in un apposito podcast ascoltabile su Spotify.
A un certo punto – che identifico con le sue conferenze sulle rivolte nel Medioevo al Festival della Mente del 2019 – Barbero è uscito dal discorso specialistico, accademico e divulgativo per entrare nel contesto internettiano, diventando il fulcro di una vasta ed entusiastica produzione memetica; gli sono state tributate pagine facebook come Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli, Alessandro Barbero guidaci verso il socialismo e – la mia preferita – Barbero ministro delle esecuzioni sommarie, nonché un pregevole profilo Instagram, Barbero e Barbarie. Brevi spezzoni dei suoi discorsi vengono ripresi, manipolati e ricampionati anche al di fuori delle pagine che gli sono dedicate, in quelle che promulgano un comunismo nuovo, di stampo accelerazionista e/o tentacolare. È venuto a formarsi un linguaggio specialistico da iniziati del meme; “Andiamo a bruciargli casa”, “I nobili non servono a niente” e “SPRANGA”, tassativamente in maiuscolo, meglio se fritto. Le espressioni più colorite vengono ricampionate e manipolate, integrate di colonne sonore ed effetti ottici. L'effetto voluto è di enfatizzare le affermazioni che più direttamente si rifanno a un contesto di lotta sociale, meglio se violenta, che quando non la scusano – contestualizzandola – la incitano. Le affermazioni che vengono riprese sono da un lato le più spicciamente truculente, dall'altro quelle che tagliano corto sulle (insopportabili) discussioni che vorrebbero inquadrare acriticamente l'uso storico della violenza in un amalgama acritica priva di sfumature etiche o contestuali, mettendo un punto aprioristico e forzato alla discussione, sterilizzando di fatto il discorso della lotta di classe. In questo preciso momento storico, Alessandro Barbero è uno dei pochi intellettuali di sinistra rimasti.
Non è che gli intellettuali abbiano smesso tutti e del tutto di fare politica. I Wu Ming ne fanno parecchia dal loro blog e attraverso le loro opere; Erri de Luca si è guadagnato una condanna per il proprio impegno sul fronte NO TAV; alcune scrittrici – Murgia e Lipperini in primis – portano avanti la crociata femminista, provocando qua e là reazioni scomposte che dimostrano quanta strada ci sia ancora da fare. Ci sono anche editori che intendono attivamente fare politica col proprio catalogo, come Edizioni Spartaco e Edizioni Alegre. Christian Raimo prende spesso la parola su minima&moralia o su Internazionale per dissezionare le minacce di una società sempre più a suo agio col nazionalismo fascistoide. Sono tutti intellettuali che fanno attivismo politico, perlopiù con ottime intenzioni e risultati variabili e che tuttavia non arriverei a definire mainstream. Da un lato perché difficilmente gli operatori dell'industria editoriale possono arrivare a definirsi propriamente mainstream, nel contesto letterario patrio in cui la fetta dei lettori forti risulta risibile; dall'altro, parliamo di attori che non si rivolgono a un pubblico generalista, ma a una fetta di pubblico che arriva “già mangiata” rispetto agli argomenti che vengono trattati.
Divulgazione e democrazia
Chi fa divulgazione si assume il compito di fare della propria materia di specializzazione un appannaggio universale, abbassando le barriere che impediscono a un non studioso di fruirne liberamente; se questo impegno è più visibile per la divulgazione delle materie scientifiche, le cui conoscenze pregresse prendono la forma incomprensibile di un linguaggio tecnico e di un alfabeto matematico, anche chi fa divulgazione di materie umanistiche deve essere in grado di fornire al pubblico occasionale gli strumenti necessari a comprendere appieno l'argomento trattato. Questo si traduce sia nella semplificazione dell'argomento – ovviamente – che in una formulazione discorsiva che tenga conto dell'intrattenimento del pubblico.
La divulgazione oggi ha poco a che fare con la televisione; i divulgatori che hanno più seguito sono quelli che dispiegano le proprie conoscenze sui social, portandole di fatto alla portata di chiunque. Dario Bressanini, Adrian Fartade, Matteo Saudino sono interconnessi in un sottomovimento culturale che esporta un sapere specialistico traducendolo in bocconi facilmente masticabili dai non iniziati. Youtube è nato nel 2005 per contenere le versioni condivisibili dei filmati delle vacanze degli utenti, si è evoluto negli anni nel media privilegiato per la diffusione di contenuti autoprodotti leggeri, ludici e divertenti – che ancora spopolano – ed è in seguito diventato una versione sregolata e multimediale di Wikipedia, in cui basta inserire una chiave di ricerca per essere indirizzati a lezioni di chimica, fisica, storia, filosofia. Strumenti e materiali che un tempo erano appannaggio di una classe privilegiata – che potesse permettersi il lusso dello studio – diventano alla portata del grande pubblico non specializzato, che non si vede dunque tagliato fuori né per ragioni meramente economiche né per la mancanza di conoscenze pregresse. La divulgazione è diventata un'alternativa, quasi un'avanguardia, rispetto a una cultura che parla a se stessa, involontariamente elitaria.
La sinistra lontana
Difficile segnalare in quale punto della storia cultura e politica si siano distaccati, se sia stato un taglio netto o un allontanarsi progressivo, colpevole e in punta di piedi. Un primo scossone ha coinciso col Compromesso Storico tra Enrico Berlinguer e Aldo Moro, che ha consacrato l'ancora inscissa unione tra comunisti e democrazia cristiana, dando il via a una grande coalizione cattocomunista. Gli intellettuali hanno forse disertato l'impegno politico quando questo ha iniziato a delinearsi nelle frange estremiste del brigatismo rosso – forse nel timore di essere accostati a mandanti ed esecutori di azioni violente. L'egemonia ventennale del berlusconismo ha certamente lasciato un segno più profondo di quanto vorremmo credere; i personaggi usciti di scena dopo l'editto bulgaro non sono mai rientrati nei palinsesti della televisione di stato. La censura c'è, ma non si vede; c'è, ma pare una prassi senza mandante, e non sembra interessare a nessuno.
Tolte pochissime eccezioni le cui istanze minoritarie rimangono prive di conseguenze, ci ritroviamo al giorno d'oggi con una sinistra istituzionale smussata, platealmente inoffensiva, che ha fatto dell'innocuità un valore assoluto e la cui inazione si risolve in un'omertà complice rispetto alle azioni di una destra dalle velleità sempre più autoritarie – nonostante la sinistra sia di fatto al governo, i porti restano idealmente chiusi, i decreti sicurezza sono tuttora in vigore, i diritti delle minoranze non erano un argomento neanche prima dello scoppio del covid19. Se attaccare il privilegio vuol dire rivedere lo status quo ed eventualmente appianarlo, è chiaro che una sinistra che non si vuole raccontare come ostile o antagonista – col timore di essere assimilata agli orrori dell'Unione Sovietica, o ancora peggio col terrorismo rosso degli anni di piombo – non può fare molto per aiutare le classi più povere a uscire dalla marginalità della propria condizione.
Barbero racconta la storia senza annacquarla di relativismo, condannando apertamente alcune fazioni senza sentire il bisogno di colpire il cerchio dopo aver manganellato la botte in quella sorta di par condicio che è diventata prassi del discorso politico beneducato – come se fosse d'obbligo accostare alla violenza istituzionale del nazifascismo quella delle lotte partigiane, sia mai che si finisca per offendere i neofascisti lasciandoli senza recriminazioni che possano fare proprie per giustificare una violenza con l'altra spogliando entrambe di valenza contestuale e ideologica. Prestandosi a questo discorso accettandone implicitamente le regole, la sinistra istituzionale disconosce le proprie origini, la propria storia, perfino i propri eroi. In questo contesto di sinistra tradita e vilipesa, le affermazioni nette di Barbero risuonano con la forza di un j'accuse.