L’utopia della città galleggiante esercita un’attrazione che pare irresistibile. La strada è davvero percorribile?
Nel discorso collettivo è sempre più condivisa l’idea che i cambiamenti climatici rendano necessario un adattamento del modo di vivere della nostra specie sulla terra, ma la forma che dovrebbe prendere questo cambiamento non è facile da concepire.
C’è chi ha iniziato a vedere nel vivere in città galleggianti una soluzione percorribile, e già a breve termine. Le declinazioni di questa idea sono svariate e per certi versi sorprendenti.
Naturalmente l’idea di vivere sull’acqua non è affatto una novità, se già nel Neolitico erano diffusi in diversi luoghi del mondo insediamenti su palafitte come forma di adattamento alla morfologia dei luoghi. Sono poi molti nel corso tempo gli esempi di utilizzo spontaneo e transitorio della superficie dell’acqua per soddisfare necessità abitative: ci sono persone che hanno vissuto e vivono più o meno stabilmente su imbarcazioni e mercati galleggianti come quello di Bangkok.
Anche se l’abitare sull’acqua non è proprio un’invenzione contemporanea, sembra stia vivendo alcune trasformazioni. Tanto per cominciare tipologica, perché sperimentando sistemi di galleggiamento vero e proprio, diversi rispetto alle palizzate infisse al suolo, si ottengono architetture – pensate per essere permanenti – con uno statuto epistemologico potenzialmente nuovo. Inoltre cresce la scala a cui l’abitare sull’acqua viene pensato, perché, se restano maggioritarie le realizzazioni a scala minima, si comincia sempre più a ragionare di intere città e infine a preconizzare un futuro in cui la maggior parte degli esseri umani vivrà a galla risolvendo tutto in un colpo problemi sociali e ambientali. Questo porta a un altro mutamento che mi pare significativo, ovvero il crescente interesse che stanno dimostrando verso questi esperimenti studiosi, politici, investitori e media.
I motivi dichiarati di questo interesse sono ecologici: il livello del mare è destinato a crescere negli anni a venire (il pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici dà per certa questa prospettiva, e senza reali prospettive di poter invertire questa tendenza), quindi è il momento di trovare una soluzione al problema.
Questo è stato per esempio il tema della tavola rotonda di UN-Habitat, il programma delle Nazioni Unite dedicato agli insediamenti umani, tenuta il 3 aprile 2019. Dal racconto che è stato diffuso sembra che l’idea della città galleggiante abbia riscosso unanime successo e sia risultata la benvenuta soluzione alle maggiori sfide urbanistiche e climatiche del nostro tempo.
In realtà quella su cui sono stati chiamati a riflettere intellettuali e tecnici del calibro del Nobel Joseph Stiglitz non era un’idea astratta e immaginata di futura città, ma un progetto ben preciso: Oceanix, dell’omonima società partner della tavola rotonda e di UN-Habitat.
Co-fondatore e CEO di Oceanix è Marc Collins Chen, già ministro del turismo della Polinesia francese, che in un’intervista ha delineato il futuro che immagina, raccontando che l’aspetto che più lo eccita del suo progetto è il fatto di poter reinventare completamente la relazione dell’umanità con l’ambiente. La ricaduta antropologica e sull’ecosistema dei suoi piani sarebbe paragonabile a quella iniziata 10.000 anni fa con l’inizio delle pratiche agricole e degli insediamenti umani permanenti. Un visionario insomma, come lui stesso si definisce.
Ma cos’è nella pratica Oceanix? Potremmo descriverlo come un progetto modulare e replicabile di città galleggianti con un manifesto di valori quali la sostenibilità, la convivenza in armonia con l’ambiente marino, la resilienza.
Una città Oceanix è composta di moduli galleggianti tutti uguali, simili in pianta a triangoli dagli spigoli molto smussati, con un’estensione di 2 ettari, per ciascuno dei quali sono previsti 300 abitanti. Una densità notevole: 15.000 abitanti per km2, paragonabile a quella di città molto abitate come Tokyo, e senza eguali in Italia. Questi moduli sono accostati a gruppi di sei, per comporre villaggi, a loro volta uniti a formare la città vera e propria, di 10.000 abitanti.
Ciascun modulo si direbbe in qualche modo autarchico, visto che si prevede abitato da comunità autonome animate da una non meglio precisata “cultura della condivisione”, che si sosterranno grazie a fattorie autogestite. Il fabbisogno energetico verrà colmato grazie a sole, vento e acqua, ma non sarà elevato perché non sembrano previste attività produttive ad eccezione di una “light manufacturing” energeticamente irrilevante.
Ci sono poi molti altri elementi nell’autonarrazione virtuosa di Oceanix: l’alimentazione a base vegetale, i trasporti elettrici e condivisi, l’agricoltura idroponica, la riduzione dei rifiuti e l’utilizzo di un materiale per le piattaforme (“Biorock”) che favorisce la crescita di organismi marini.
Una vera utopia contemporanea, con la bizzarria di non essere nata dall’iniziativa e da un patto condiviso dei suoi futuri abitanti, ma offerta già confezionata da un’azienda.
In un articolo del network USA Today, dal titolo “Come il capitalismo surfa sui mari in crescita dell’umana follia”, parlando di edilizia galleggiante in Olanda, il giornalista Algernon D’Armassa scriveva che “Ci sono soldi da fare nella ‘resilienza’ e ‘adattamento’ a un clima in trasformazione, esonerando il capitalismo (dalle responsabilità) e lodandone i progressi”. E sosteneva che progetti come quelli di residenze galleggianti possono essere benvenuti per alcuni, ma non offrono soluzioni strutturali a problemi profondi. La perdita di terreni costieri è infatti all’origine di molti flussi migratori e lo sarà sempre di più in futuro, e il mutamento del clima ha a che vedere con questioni che vanno dalla desertificazione alla crisi della biodiversità.
Trasportare sull’acqua le stesse logiche che hanno provocato disastri sulla terraferma potrebbe in effetti non essere la migliore delle idee, e il fatto che nuovi modi di vivere sostenibile vengano governati dall’alto con criteri di profitto potrebbe essere proprio un’aporia.
“La specie umana è eccessivamente brava a trovare modi per continuare ad arrancare in un’unica direzione, anche se questo significa sbattere contro muri e cadere dentro voragini. Siamo inesplicabilmente incapaci di cambiare direzione”.
Ci sono altri aspetti di Oceanix che possono essere utili alla riflessione sulle città galleggianti. Gli edifici saranno tutti bassi, per tenere il baricentro vicino alla base e avere stabilità, ma questo non può eliminare del tutto i disagi dovuti al moto ondoso di grande intensità, e ciò sembra vincolare la città a situarsi in baie molto protette. Politicamente sarà probabilmente l’estensione di qualche città esistente, più che una realtà autonoma, ma la governance della superficie dei mari è una questione piuttosto delicata.
Non pare inoltre esistere la possibilità di una crescita urbana spontanea, in Oceanix. La tumultuosa e per molti versi misteriosa vita delle città, che a che vedere con meccanismi sociali, economici, infrastrutturali, spaziali e soggettivi, viene normalizzata e orientata fin nei minimi dettagli; ma chissà se si tratta di una cosa davvero possibile. Probabilmente andrebbero cancellati gli elementi più vitali e perturbanti dell’ecosistema urbano: coloro che la città la abitano, e le relazioni tra di essi.
Comunque Oceanix sembra procedere a tappe rapide verso la realizzazione, e l’accordo per la costruzione di un primo prototipo c’è già: sarà presso Busan, città sud-orientale della Corea del sud, sede proposta per l’Expo del 2030 e porto di rilevanza mondiale. La co-founder di Chen, Itai Madabombe, ha espresso compiacimento di poter finalmente inaugurare la nuova frontiera per l’umanità.
C’è anche chi ha pensato a trasferirsi sul mare facendo partire il processo dal basso, come nel caso del Seasteading institute, una realtà no-profit fondata da Parti Friedman e Peter Thiel che fa da incubatore di progetti di insediamento sull’acqua. I loro progetti sono dotati solo di linee generali, visto che non saranno loro poi a realizzarli, ma solo a facilitarli. Ci sono alcune cose in comune con Oceanix, come i sistemi energetici basati su vento e sole, l’agricoltura idroponica, l’idea che le piattaforme funzionino da substrato per la crescita di organismi acquatici.
Il progetto politico e sociale invece è diverso. Muovono critiche ai governi (quello cinese, per esempio, con le sue grandi isole artificiali ad uso militare e industriale incolpate di aver causato un disastro ecologico), che utilizzano l’espansione sui mari per estendere la propria influenza territoriale, e si propongono come alternativa a tutte le nazioni esistenti.
Delle micronazioni, insomma, entità autonome piazzate nelle acque extraterritoriali o in mari di stati che accettano di riconoscerle.
Lo stesso termine utilizzato per descriversi – seasteader – riprende homesteader, che indica individui che occupano un terreno disponibile e ci vivono in regime di autosussistenza; una cosa avvenuta spesso nella storia e che nella modernità si è caratterizzata per l’idealismo e l’eco-sostenibilità.
Secondo l’istituto la piccola scala delle comunità darebbe la possibilità di sperimentare sistemi di governo alternativi, che in nazioni grandi e complesse non sarebbero più nemmeno immaginabili.
Si definiscono “qualificati e pragmatici idealisti”, mettono a disposizione conoscenze tecnologiche ed esperienza di business, e si dichiarano convinti che sia la tecnologia che il business risolveranno i problemi della società. E non solo alcuni, proprio tutti: “Arricchire i poveri. Curare le malattie. Nutrire gli affamati. Pulire l’atmosfera. Ripristinare gli oceani. Vivere in equilibrio con la natura. Dare energia al mondo in modo sostenibile. Smettere di combattere”.
Attualmente fanno capo a loro alcune aziende con progetti non ancora realizzati, e Ocean Builders, che dichiara di avere già in costruzione presso Panama alcune unità abitative sull’acqua di 73 m2. Sono costruzioni in fibra di vetro dalla forma ovoidale e molto avveniristica che galleggiano separate le une dalle altre sopra tubi in acciaio riempiti di aria che offrono una spinta capace di tenere la parte abitativa sopraelevata di 3 metri sopra il livello dell’acqua. A dire il vero sia l’immaginario richiamato dai rendering che il progetto stesso (si tratta di abitazioni e basta, dove l’autarchia appare complicata) non sembrano somigliare molto all’ideale neo-agricolo degli homesteader.
In realtà Ocean Builders aveva già messo in acqua una piattaforma, molto più modesta, dove avevano iniziato a vivere nel 2019 Nadia e Chad, una coppia di pionieri seasteader, alla cui vita è dedicata una serie di video documentari. In uno di questi Chad si dichiarava entusiasta di non avere “Nessuna regola. Sto aspettando le regole buone che le persone si daranno come comunità”.
Però il loro esperimento è finito proprio male, perché la Thailandia ne ha fatto un problema di stato e ha mobilitato addirittura navi militari per andare a smantellare con gran violenza la bianca isoletta galleggiante. Nadia e Chad si sono trovati accusati di intralcio alla navigazione e tradimento, reato per cui è prevista la pena di morte! Hanno subito anche un incredibile assalto mediatico, minacce e accuse stravaganti sui social media.
Dopo essere riusciti a lasciare il paese però non hanno abbandonato i propri ideali e collaborano ancora con Ocean Builders.
Il problema legale sembra di non poco conto, e non è probabile che ci saranno molti governi contenti di avere micronazioni di utopisti a mollo oltre i propri confini, quando potrebbero usare lo stesso spazio per allargarsi un po’. Il pensiero non può che andare all’Isola delle rose, la micronazione costruita da Giorgio Rosa al largo di Rimini in acque internazionali. Era il 1968 e non c’era nessuna azienda alle spalle dell’ingegnere romagnolo, che ha costruito il suo piccolo paese libero davvero con le sue mani. E non era un sogno utopista, ma piuttosto disperato e iconoclasta, e ludico allo stesso tempo. Durato il tempo di una stagione balneare, perché invece la sorte è stata sempre quella: distrutto da un governo italiano che su quelle acque allora non aveva ancora alcuna giurisdizione.
Per quanto magari possa sembrare tutto ancora lontano nel tempo, la spinta a costruire sull’acqua è davvero fortissima, forse anche sull’immaginario, ed è molto più concreta quando si scende di scala.
Ad Amsterdam dal 2020 circa 100 persone abitano già in 46 abitazioni galleggianti su un canale, collegate da un lungo e articolato molo connesso alla riva, che contiene gli impianti. Il quartiere di Schoonschip è nato da un processo progettuale simile a quello degli ecovillaggi: una comunità si è ritrovata intorno a dei valori condivisi, ha concertato come realizzarli e commissionato l’opera edilizia. È completamente autonomo nell’approvvigionamento dell’energia. Le case sono a basso impatto ambientale, quasi passive, e per il resto riscaldate con pompe di calore che estraggono il caldo dall’acqua, e sono dotate di una bioraffineria autonoma per gli scarichi. L’energia elettrica proviene dal fotovoltaico condiviso. Hanno tetti verdi, mobilità comune, spazi collettivi, gruppo di acquisto solidale, e nel complesso a vedersi sembra un posto gradevole in cui vivere.
Quartieri come questo sono oggi molto incoraggiati in Olanda, dove negli ultimi anni, oltre alla storica lotta per sottrarre il terreno al mare, hanno dovuto fronteggiare forti inondazioni, che Schoonschip è in grado di affrontare con efficienza. Sono costruzioni molto resistenti a questo tipo di fenomeni, perché oltre a galleggiare sono dotate di contrappesi e sono fissate alla riva, quindi non si spostano facilmente come fanno invece le houseboats che si trovano numerose nelle acque delle città olandesi.
Rotterdam, che per il 90 per cento della sua estensione è situata sotto il livello del mare, è sede del più grande ufficio galleggiante del mondo, di una grossa fattoria, sempre galleggiante, e di un padiglione per eventi piazzato in mezzo al porto.
Gli esperimenti di questo tipo hanno prodotto competenze che agli olandesi sono richieste da tutto il mondo. Waterstudio, per esempio, studio di architettura olandese fondato nel 2003 da Koen Olthuis, si dedica unicamente a progetti fluttuanti, e lavora ovunque, dalle Maldive a Dubai. Ha anche un progetto nel porto di Mola di Bari.
Olthuis è convinto che i suoi progetti galleggianti abbiano il potenziale di trasformare le città in modo radicale, in una maniera che non si è più vista dall’invenzione dell’ascensore che ci ha portato a vivere verso l’alto.
Per la capitale delle Maldive ha ideato una vera e propria città con centinaia di unità abitative – ancora allo stadio embrionale –, ma fino a ora il grosso dei suoi progetti è stato di quartieri o singole abitazioni. Anche case che rispetto a Schoonschip sono molto lontane concettualmente, come isole artificiali private con annesse sontuose ville con l’aspetto di megayacht lungo la costa di Dubai.
Anche l’architetto di Oceanix, Bjarke Ingels, ha realizzato nel frattempo interventi su piccola scala. Come le residenze studentesche di Copenhaghen, realizzate con container posizionati su piattaforme a galla nel porto che fanno parte di un progetto di globale riqualificazione dello scalo e permettono agli studenti di vivere nel cuore della città che sarebbe loro altrimenti precluso.
In qualche modo si direbbe che, se ci sposteremo sul mare, porteremo con noi intatte tutte le contraddizioni della terraferma. Ma magari in fondo no.