Coniugare architettura e antropologia: cosí più di trent'anni fa nasceva un'opera che rimane attuale e capace di indicare alcuni percorsi possibili.
Introduciamo un estratto dal saggio di Franco La Cecla, Perdersi, recentemente riedito da Meltemi, con un breve scambio con l'autore, che ringraziamo.
Singola - Sono passati più di trent'anni - era il 1988 - dalla prima edizione di questo libro, il problema di fondo si è ingigantito. Nuove migrazioni, disastri e displacement su scala planetaria rinnovano la dialettica tra quel "perdersi" che dà il titolo al saggio e ciò che chiami "mente locale", ovvero la capacità di ricostruire un habitat, il primo passo per riappropriarsi dello spazio in cui ci si è persi. Vedi delle nuove forme di risignificazione dello spazio rispetto al passato?
Franco La Cecla - Nell’insieme ciò che prefiguravo allora è andato nella direzione già avviata. In questi ultimi decenni si è assistito a una globalizzazione – che ha provocato una maggiore mobilità e una maggiore “cacciata” di enormi quantità di persone dai propri territori di vita. Ma ad essa ha seguito una contrazione della stessa mondializzazione con effetti di rafforzamento del localismo, di nascita di nuovi sovranismi e di conflitti tra vecchi residenti e nuovi arrivati. Quello che è cambiato è la dimensione e la velocità di questi due fenomeni, espansivi e contrattivi.
SNG - Altrove, nel libro, scrivi che "i nuovi soggetti delle diaspore soffrono quanto i nostri padri e nonni, ma sanno che il mondo è molto più permeabile, collegato, e che basta un'antenna parabolica e un portatile per cambiare il senso dello spazio del proprio nuovo insediamento." Ora, riportandoci a quel terreno degli ethnoscape, che citi, comprendiamo maggiormente come la riuscita o meno di questo "insediamento" dipenda anche dalla convivenza con gli "stanziali originali" (che come umani difendono un loro senso del luogo). La battaglia sui valori, sugli stili di vita, sulle tradizioni, si traduce spesso in una battaglia per il predominio del territorio. Il mito recente del nomade felice è, a seconda di quanto vogliamo essere generosi, artefatto o ingenuo...
FLC - Non è detto però che il conflitto resterà così semplice: come si evince da molti casi, arrivati alla seconda generazione di immigrati il processo di rovescia. Oggi i chicanos californiani sono i più forti assertori di un limite da porre ai nuovi arrivi dall’America latina. Non si può essere semplicisti in queste cose. Il gioco tra generazioni complica le cose e se guardiamo agli stessi localismi, alcune rivendicazioni che i passato sembravano identitari, rappresentano invece una parte piuttosto reazionaria della popolazione che vuole difendere vecchi privilegi, si guardi, ad esempio al “catalanismo” modello barcellona e alla sua funzione ferocemente razzista nei confronti della immigrazione e della presenza cosmopolita nella stessa città.
SNG - In questa tua opera, come in altre, è stata notata un'insofferenza tout court per la categoria: "Architettura, Urbanistica e Pianificazione Territoriale sono discipline vecchie, ignoranti, assolutamente sclerotiche", affermi, prima di nominare una lista di cosiddette archistar che pensano solo alla gloria e alla "patina" delle riviste. Qual è il senso di una tale generalizzazione?
FLC - Temo che sia vera, l’insieme della professione progettuale è indietro anni luce rispetto alle sfide della nuova urbanità. C’è pochissima capacità di rinnovamento delle competenze e poca capacità di autocritica. Un campo che sta morendo pe mancanza di apertura ad altre discipline, per mancanza di ricerca e di elaborazione di nuovi strumenti di comprensione del reale.
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Da Perdersi, di Franco La Cecla, Meltemi, 2020.
Le cose di cui si parla [...], a mia grande meraviglia, mantengono una freschezza intatta. A parte qualche dato, che va aggiornato “in peggio” – mi riferisco al numero, in centinaia di milioni, di gente “spostata” dal proprio luogo di origine per guerre, povertà, rilocazione forzata – la situazione non è cambiata rispetto alla prima data di uscita di questo libro. La freschezza delle sue tesi non è merito mio, ma del prolungarsi di una situazione di fondamentale “alienazione” tra gente e territorio, abitanti ed abitati. Oggi, come dodici anni fa, “perdersi” è una condizione di distrazione dolorosa e insignificante al tempo stesso, è la dimensione negata dell’importanza “per essere qualcuno” di essere non solo “da qualche parte” ma di “essere qualche parte”.
Noi siamo carne e geografia. Lo spazio è una condizione necessaria alla costruzione della nostra identità e quanto più veniamo allontanati dalla diretta manipolazione di esso tanto più la nostra identità si fa scialba, perde interesse anche per noi stessi. La bellezza del mondo serve a costituire la varietà degli umani, la sostanzia di colori, odori, memorie, sogni e nuvole. Qualunque altra maniera di costituire l’identità, se non è tappezzata dai paesaggi, dalle terre e dalle acque circostanti risulta magari più regolare, più ramificata, ma molto meno ambigua, variegata e piena di sorprese. Così è vero che uno può crescere in un paesaggio virtuale, abituare le sue metafore alle reti informatiche, diffondersi dalla tastiera del computer nel vasto mondo dei contatti, ma il suo corpo, anche se diventerà sottile ed efficace, perderà la goffaggine e la terrestrità che ci consente di essere cugini delle lucertole e parenti dell’argilla.
Uno dei motivi di entusiasmo per l’antropologia, per me che ne sono sempre un novizio, è stato il ravvisarvi lo stesso stupore nei confronti del dettaglio e della ambigua varietà del mondo che una certa sensibilità spaziale, appresa nelle scuole di architettura, mi aveva donato. Antropologia e studio degli insediamenti umani possono essere un ottimo antidoto alle “regole”, all’idea della semplificazione secondo parametri comuni, della multiformità del vero. Antropologia e studio degli insediamenti sono eredi della fenomenologia timida e stupita nei confronti del mondo. Sia che si scopra che il primo indiano incontrato dai padri fondatori sul territorio americano era già stato in Europa (lo racconta gustosamente James Clifford nel suo I frutti puri impazziscono), sia che si scopra che a Stilo in Calabria non c’è una sola casa che abbia le pareti dritte. Il mondo si curva, si adatta, ci rinfaccia le nostre aspettative e sta lì a ricordarci che, non solo siamo ignoranti, ma siamo degli ignoranti saccenti.
Se ci fosse un modo di sintetizzare l’attitudine di ricerca dell’antropologia – recente e un po’ meno recente – e di parlare delle descrizioni efficaci di habitat umani, dovrebbe essere l’umiltà sistematica, la pratica del “vero contestuale” l’elogio del “qui ed ora” della fenomenologia. La maniera con cui la gente abita il mondo è una pratica geografica della verità. Mente locale sta proprio per questo: per una verità che si fa solo in certe condizioni “meteorologiche”, paesaggistiche, di ruvidezza o impalpabilità dell’intorno.
È stato Arjun Appadurai (1996) ad introdurre recentemente l’espressione ethnoscapes in risposta ad un discorso facilone sulla globalizzazione. Un effetto di essa è proprio il formarsi “da capo” di esperienze a cui la località è essenziale, si tratti di emigrati filippini a Manila che dimenticano la propria identità etnica e ne formano una legata al nuovo quartiere (E. Berner, 1997), o si tratti delle donne africane di Barbès a Parigi che, nell’inventarsi una moda “coquette” tre volte alla settimana – tra coiffeur e sarti di strada – ridefiniscono la propria africanità in funzione di Parigi e non più di Bamako o di Dakar (F. La Cecla, 1998). Gli ethnoscapes stanno a dimostrare che lo spazio “da toccare”, lì a due passi, alla fine vince sulle memorie, le derive etniche e le nostalgie (S. Sassen, 1994). Non si rimane per sempre “a mezza parete”, ma abitare serve a costruire una “verità” che ha i caratteri dell’evento e della contiguità.
Antropologia e studio degli habitat umani servono a rammentare che c’è una “scienza” dell’immanenza di cui abbiamo perduto le tracce. Abituati a metafisiche e a ideologie globalizzanti, abbiamo dimenticato che l’immanenza è una anguilla e che sfugge a facili trappole. Essa abita nella precarietà e negli anfratti che richiedono una pazienza ed il disprezzo della propria presbiopia. Bisogna avvicinarsi molto per cogliere i movimenti dell’anguilla-immanenza ed essa detta delle regole che un momento dopo non lo sono già più. Una filosofia dell’immanenza dovrebbe rifare oggi i conti con gli spezzoni di scienze umane e del territorio che raccontano l’imprevedibilità dell’avvenimento. La scelta per l’immanenza dovrebbe fare parte degli strumenti di chi privilegia il lavoro sul campo a delle sintesi preconfezionate per forni accademici a microonde.
(1950) è un antropologo. Ha insegnato in diversi atenei italiani e stranieri tra i quali l'Università di Bologna, di Palermo e l'Università della California a Berkley. Il suo lavoro si concentra sull'organizzazione dello spazio contemporaneo tra localismo e globalizzazione. Ha pubblicato numerosi saggi.