Dietro il successo della serie c'è un lavoro estetico, di scrittura e attoriale decisamente fuori dal comune. Un'analisi.
Il gioco di The Crown è complesso. L'acclamata serie tv britannica scritta da Peter Morgan (The Queen) e diretta fra i tanti da Stephen Daldry (The Hours, The reader) e Jessica Hobbs (Broadchurch) esplora quella zona grigia inamovibile e taciuta situata tra le pieghe e gli interstizi più inviolati della storia della Corona.
A livello di consequenzialità storica e fattualità la serie ripercorre le varie fasi della monarchia inglese dall’ascesa al trono della Regina Elisabetta II fino – per ora – agli undici anni di politica economica di Margaret Tatcher, passando per l’infinito linciaggio mediatico subito da Lady Diana negli anni del suo matrimonio (o meglio ménage à trois, come poi è diventato noto) con il Principe Carlo. In quello che potrebbe sembrare un semplicistico esercizio documentaristico, e spesso anche di inchiesta, considerando certi episodi della serie, ciò che più ha decretato il successo nonché la riuscita di ognuna delle quattro stagioni di The Crown sono le scelte decisive e controcorrenti adottate in fase di scrittura.
Morgan non va a riprodurre passivamente la realtà cui si è scelto di guardare né va a desumerne soltanto la superficie e lo sfarzo. L'obiettivo è altresì quello di stimolare questa stessa realtà, incalzarla nei suoi aspetti anche più vili e manipolarla così che essa riveli qualcos’altro rispetto a ciò che è scritto in un’immagine debitamente costruita secondo dogmi astorici, aspettative e doveri. Partendo da quest’idea, quindi, di decodifica dell’immagine per ricavarne diversi spunti di riflessione e analisi, The Crown assume un punto di vista corale che va a coinvolgere le dinamiche interiori e pubbliche di quasi ogni personaggio: facendo sì che una zona della storia smascheri l’altra, lo sceneggiatore inglese dimostra di saper conciliare al meglio esigenza di parlare del mondo e consapevolezza autoriflessiva e intima, con una tale padronanza della scrittura e del mezzo espressivo che ci pare di aver assistito per la prima volta a eventi di cui già conoscevamo i rivolgimenti e la fine.
È la finzione che entra nella Storia e ne sussume i detriti e frammenti. Nel suo Politiche dell’irrealtà, Arturo Mazzarella scrive che non c’è niente di più rischioso che rappresentare un racconto o romanzo all’insegna del documento. Rifacendosi all’idea di Barthes di una necessaria mediazione dell’artificio quale contributo determinante alla raffigurazione della realtà, la riflessione dello studioso sull’intreccio tra realtà e irrealtà del non-fiction novel è calzante rispetto a quanto detto finora dal momento che è proprio lo schermo della raffigurazione e della manipolazione narrativa a garantire la verità del racconto. Mazzarella definisce, infatti, lo sguardo del narratore come quello di una sonda che penetra in ogni angolo di realtà rovistando anche tra i residui più macabri e l’immagine come mezzo per attribuire alla realtà un ordine e una forma attraverso catene figurali via via più articolate. L'immagine è penetrata nella realtà sconvolgendo il suo statuto conoscitivo consolidato e non resta altro che riformulare le categorie attraverso cui sono stati interpretati alcuni degli eventi più cruciali del passato ed è esattamente qui che si collocano le modalità di rappresentazione di The Crown.
Intorno a quest’impostazione si dispiega uno spettacolo estetico e verbale che sa dosare i propri colpi di scena con precisione e accuratezza, abbandonandosi anche agli estri più volubili. La versatilità inventiva di Morgan, che si vede anzitutto nelle parentesi private dei personaggi, lontano dalle telecamere, come nel caso del rapporto tra Lady Diana e Carlo, viene così spesa nella costruzione di un congegno esatto e nella messa a punto di una strategia calcolata e definita per ogni circostanza cui si decide di ridare vita. Lo sceneggiatore - come il narratore quando si approccia a scrivere un romanzo autobiografico - assume in tal senso la pretesa di oggettività impossibile di un testo filmico o seriale volto all’immediatezza del (solo) racconto storico, per diramarne invece confini e prospettive e giocare con quelle affinità tra verità e fiction che rendono The Crown così magnetica agli occhi dello spettatore. E ciò è evidente anche nella tendenza degli attori a non ricalcare la gestualità e i movimenti dei personaggi in maniera asettica, con una mimica, per contraltare, ironica e audace che vada a conferirgli nuova linfa, creando un perfetto sincretismo tra l’invenzione del dialogo e quella del movimento. Per fare giusto qualche esempio: Gillian Anderson aveva come base il codice e vocabolario linguistico e gestuale di Margaret Tatcher ma nel riproporlo non è mai invasiva o macchiettistica, agendo anzi per costante sottrazione; interpretando Carlo, Josh O’Connor si mantiene su un equilibrio mirabile tra posatezza e rabbia sprezzante indotti da anni e anni di mutismo e inazione e destinati e perdurare. Emma Corrin è fisicamente somigliantissima a Lady Diana e sa come renderne la fragilità e progressivo annichilimento: una donna spezzata dai riflessi sconfinati della sua immagine pubblica.
E tornando a ciò che dicevamo all’inizio, sulla tensione cioè tra immagine pubblica e privata, contrazione dello scontro endemico e attuale tra realtà e finzione e pilastro fondamentale su cui si regge gran parte dell’architettura e del senso della serie tv, lo stesso Peter Morgan, in una recente intervista, ha dichiarato che mantenere l’accuratezza avrebbe significato violare una verità sottostante. La verità indicibile dei personaggi e delle trame e sottotrame in cui si muovono se l’obiettivo è quello di scrivere e ricostruire la Storia nel segno dello scavo continuo, disvelando ciò che rimane del sogno e della favola. Dell’ideale che la Corona avrebbe dovuto rispecchiare in eterno e che s’infrange alle porte della modernità. Per rappresentare questa cesura, Morgan sceglie infatti un episodio spartiacque per la percezione comune della monarchia e inserito in un momento storico di rottura con tradizioni secolari e rivolgimenti politico-culturali che avrebbero modificato radicalmente le tassonomie identitarie e social del mondo.
Nel 1967, Filippo è ospite di un programma televisivo statunitense dove lamenterà quanto la Corona avrebbe perso all’indomani della crisi economica in termini di ricchezza e privilegio. Il giornalista del Guardian John Armstrong ne trae ispirazione per un articolo dove accusa la Corona di costare troppo ai contribuenti con le conseguenti preoccupazioni di Elisabetta sulle spinte anti-monarchiche della stampa e della società e sulla crescente ostilità del governo, nonché dello stesso premier labourista Harold Wilson che si dichiarerà abbastanza indeciso circa il proprio sostegno alla monarchia. Filippo pensa bene di risolvere il problema decidendo di aprire le porte di Buckingham Palace alle telecamere della BBC, che avrebbe infatti realizzato un documentario sulla vita dei reali con l’idea di restituire loro uno “statuto di umanità” fino a quel momento tenuto abbastanza nascosto.
Il documentario non avrà l’effetto desiderato tanto che Elisabetta ordinerà di non trasmetterlo più. L'immagine che ne esce è pretenziosa: una famiglia reale e oltremodo privilegiata che pretende di essere normale, risultando spesso maldestra e goffa nei suoi tentativi di autenticità. Qualità che non sembra in alcun modo appartenergli. Destinata a diventare capo di stato e capo della chiesa, Elisabetta era stata fin dall’infanzia educata a presentarsi come un’icona: un’ideale a cui tendere ma che non si sarebbe mai dovuto toccare. Toccarlo avrebbe significato disfare l’incanto, arrivando, non a caso, a una definitiva e incontrovertibile rottura con la persona di Lady Diana. E l’ideale, sembra dirci Morgan, era ciò che il popolo britannico effettivamente voleva. Proprio come una fede a cui credere. Un principio astratto indissolubile.
Quello della realizzazione del documentario della BBC è uno dei pochi momenti della serie che individuano un confronto tra la realtà del mondo e quella della monarchia e che trova un’assonanza con il quinto episodio della quarta stagione dedicato all’intrusione di Mike Fagan nelle stanze della Regina a Buckingham Palace. È qualcosa di realmente accaduto anche se si dice che i due non si fossero scambiati neanche una parola per la tempestività dei soccorsi. Nella serie è invece un espediente narrativo acutissimo attraverso cui poter raccontare le problematicità e contraddizioni del governo di Tatcher partendo dalla prospettiva conglobante e universale di un unico. Durante il loro colloquio, la Regina e Fagan discutono di come le manovre politiche della prima ministra abbiano rovinato l’uomo e la nazione stessa. Colpita dalle parole di Fagan, la Regina le avrebbe poi utilizzate contro la stessa politica.
Prendendo le mosse da queste due vicende, possiamo concludere che se il medium, nel corso del tempo, ha trasformato l’individualità dell’esperienza della monarchia inglese, distaccandola sempre di più dall’intricata matassa del reale, in un grumo di esperienze più articolate e dense, restituendoci un altro tipo di favola, The Crown parte proprio da quest’assunto e lo radicalizza. Andando avanti nella serie, vediamo quanto l’esperienza mediale - della stampa, del continuo domandarsi dei personaggi se si stia facendo la cosa “giusta” agli occhi dell’opinione pubblica - costituisca una vera e propria rielaborazione dell’esperienza diretta: la realtà filtrata contiene una pluralità di campi e oggetti istituiti dalla sovrapposizione di un ambiente artificiale e artefatto a quello naturale, secondo le traiettorie di un’integrazione che riguardava ogni aspetto della vita già dagli anni Ottanta. E arrivati alla fine ci si domanda che cosa possa essere rimasto dell’ideale di partenza al di là della costruzione impeccabile di identità e relazioni: di quel “sogno” le cui scintille si potevano ancora intravedere dallo sguardo incantato di Lady Di.