Un futuro distopico, in cui la Terra è devastata da un clima torrido e la natura, intesa come ambiente ma anche come risorse alimentari, è ridotta a rari residui. L’acqua è razionata, gli esseri umani si nutrono di barrette energetiche in gusti vari e la più ambita, chiamata Soylent green, è prodotta – dice il governo - a partire dal plancton. Clima alterato, sovrappopolazione, una società che esplode esasperando al massimo le ingiustizie sociali, tra gente comune che si batte per sopravvivere e chi invece può permettersi condizionatori, acqua in casa e una bistecca di manzo. E un governo che mente.
Azzardiamo qualche riflessione su 2022 i sopravvissuti, film di Richard Fleischer del 1973 (tratto dal romanzo Largo! Largo! di Harry Harrison del 1966), in originale Soylent Green, ma la cui traduzione italiana è immediatamente entrata nell’immaginario per ritornare in auge agli inizi di quest’anno. Non poteva essere altrimenti, venendo da due anni di una pandemia che ha trasformato in realtà le più fosche narrative apocalittiche ed entrando al tempo stesso in una nuova guerra fredda che ha rinverdito i vecchi scenari di guerra termonucleare globale, anch’essi cari alla fantascienza catastrofista. Così, è sembrato obbligatorio riprendere questa pellicola (per usare un termine caro a noi figli dello scorso millennio), decisamente angosciante per molti aspetti, per un paragone con il nostro 2022, quello vero.
Certo, la scenografia e i costumi fanno sorridere, talmente sono lontani dal nostro quotidiano, riportandoci al design e ai tagli sartoriali degli anni ’70. Ma quante somiglianze con la nostra realtà! Allora tutti i nostri problemi attuali erano veramente già prevedibili negli anni ’60? E perché nessuno ce lo ha detto? Addirittura si prevedeva già il dibattito sul suicidio assistito?
Per capirlo, bisogna tornare al clima sociale e culturale di quegli anni. Tra l’uscita del romanzo di Harrison e l’apparizione nelle sale del film di Fleischer l’economia globale entra per la prima volta in seria crisi dal secondo dopoguerra. È la fase finale dei “trenta gloriosi”, la grande stagione di crescita economica continua che aveva permesso all’Occidente una spettacolare ripresa dopo la catastrofe bellica, approdando a quella “società del consumo di massa” che secondo i sociologi ed economisti americani della teoria della modernizzazione rappresenterebbe l’ultima tappa del progresso umano. Una casa di proprietà, un buon lavoro, un’auto propria, un televisore, una lavastoviglie costituiscono gli indicatori del benessere ormai conquistato. Ma proprio all’apice di questa crescita, i primi scricchiolii del modello della crescita continua si trasformano in fosche profezie per il futuro.
I cosiddetti “neo-malthusiani” fanno notare come la crescita esponenziale della popolazione innescherà di lì a breve carestie di massa. The Population Bomb, testo iconico del biologo Paul R. Ehlrich (1968), rappresenta il manifesto di questo movimento di pensiero. Gli scenari che aprono il libro, quelli di una Bombay le cui strade sono talmente affollate da consentire a stento di camminare, mentre i più poveri defecano o urinano ai lati delle strade, non possono non aver ispirato alcune delle scene più claustrofobiche di 2022 I sopravvissuti. L’ipotesi di una carestia in cui moriranno miliardi di persone spinge a riflettere sulla necessità di razionare il cibo e sostituirlo con alimenti sostitutivi. La FAO inizia a muoversi in questa direzione, con il varo del Programma alimentare mondiale. Tra il 1972 e il 1974 si verifica la peggiore crisi agroalimentare dal dopoguerra. L’ipotesi del Soylent green non apparirà affatto implausibile agli spettatori di quegli anni. L’uso dell’ingegneria genetica attraverso l’iniziativa pionieristica di Norman Borlaug aprirà la grande stagione della “Rivoluzione verde”, di cui l’India diventerà il paese-simbolo: le rese alimentari aumentano più che proporzionalmente rispetto alla popolazione e lo spettro malthusiano viene scongiurato.
Ma nel 1972 esce un altro rapporto che agita le coscienze, I limiti dello sviluppo del gruppo di ricerca del MIT guidato dai coniugi Donella e Denis Meadows. I modelli informatici usati preconizzano il collasso futuro della civiltà a causa dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili. La crescita esponenziale, spiegano gli studiosi, non può avere altra conseguenza. Certo, lo sviluppo tecnologico può ottenere qualche risultato nello spostare in avanti il momento del collasso, come per esempio nel caso dell’applicazione dell’ingegneria genetica alla produzione alimentare; ma prima o poi la pressione antropica sulla biosfera porterà a tali livelli di inquinamento, devastazione ambientale ed esaurimento degli stock da innescare una serie di guerre e catastrofi dalle quali l’umanità uscirà ridotta ai minimi termini.
Un altro romanzo di fantascienza di quegli anni, Tutti a Zanzibar (1968) di John Brunner, mette in scena le conseguenze della sovrappopolazione mondiale nei primi decenni del XXI secolo. In Italia a fare eco a quelle profezie sarà l’influente saggio del futurologo Roberto Vacca Il medioevo prossimo venturo (1971), nel quale viene previsto il collasso della civiltà negli anni Ottanta con la morte di almeno 450 milioni di persone.
In questo clima, 2022 I sopravvissuti proponeva agli spettatori una resa drammatica e brutale di quegli scenari. Non si può sottostimare l’impatto avuto sull’opinione pubblica: se iniziative come quelle della politica del figlio unico in Cina, il contenimento delle nascite e la rivoluzione verde divennero realtà, si deve anche al ruolo di questo film nell’immaginario collettivo, similmente a quanto fece un altro film iconico più tardo, The Day After (1983), nel promuovere il disarmo nucleare.
Visto oggi, 2022 I sopravvissuti sconta alcune apparenti ingenuità che saltano all’occhio. La prima. Le uniche donne del film, giovanissime, bellissime, appaiono in quanto parte del mobilio di casa. La loro sopravvivenza dipende dal benvolere dei proprietari (uomini) degli appartamenti ai quali sono legate. Se si supera l’indignazione iniziale, tuttavia, viene in mentre che forse, per una volta, il ruolo umiliante delle donne qui è voluto. “Basterà una crisi politica, economica e religiosa per rimettere in discussione i diritti delle donne” diceva Simone de Beauvoir, filosofa e scrittrice francese. Affermazione tristemente attuale.
La seconda: la mancanza di cellulari. Ormai un mondo senza smartphone - anche senza computer, ma meno - è impensabile. Possibile che l’avvento dei telefoni portatili non fosse stato previsto? Certo, immaginare la tecnologia del futuro è molto difficile. In realtà, come dicono i futurologi, si crede di fare del futurismo ma spesso si fa del presentismo. La nostra immaginazione non riesce ad andare molto al di là del nostro naso; neanche quella di Jules Verne ci riusciva. Buona parte del cinema di fantascienza di questi anni immagina viaggi nello spazio diventati quotidiani ma, supercomputer a parte, non propone alcuna visione che possa essere interpretata come un’anticipazione di Internet, dei cellulari e degli smartphone. Tuttavia, anche qui non si tratta di un errore di previsione, anzi la previsione è crudelmente azzeccata: non ci sono cellulari, c’è poca tecnologia, per mancanza di pezzi di ricambio. Oggi la chiamiamo mancanza di materie prime.
Dunque, più che ingenuità si tratta anche in questo caso di inquietanti profezie, il che rende 2022. I sopravvissuti molto più rilevante per la nostra attualità di quanto possano lasciar immaginare i meme che ne hanno utilizzato il titolo per fare un po’ di sana ironia sui due anni che ci hanno preceduti. Lo spettro di una carestia di massa è tornato improvvisamente ad aleggiare in seguito alla guerra in Ucraina, quando il blocco delle esportazioni del grano ha fatto schizzare in alto i prezzi del cibo, unitamente alla riduzione delle esportazioni di petrolio e gas dalla Russia. Ci siamo scoperti incredibilmente vulnerabili a pochi, instabili colli di bottiglia: il nostro benessere, come ci si rese conto negli anni Sessanta, è appeso a un filo.
Né ci fanno sorridere le scene in cui il protagonista, interpretato da un’icona del cinema catastrofista di quegli anni, Charlton Heston (Il pianeta delle scimmie, 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra – terribile traduzione di The Omega Man, tratto dal fortunato romanzo Io sono leggenda di Richard Matheson), si sorprende dei sapori intensi e genuini della frutta cresciuta naturalmente. Sono considerazioni che siamo portati a fare già da molti anni, di fronte all’esigenza di una produzione alimentare destagionalizzata e in serra che favorisce la quantità a scapito della qualità. Per tacere degli scenari di un’introduzione di massa di prodotti a base di insetti tratteggiati dalla FAO: la recente levata di scudi dell’opinione pubblica italiana nei confronti della pubblicità Barilla a favore di questa opzione mostra quanto lo spettro del Soylent green – che certo non era fatto di insetti – si aggiri ancora tra noi. A ciò si aggiungono i problemi della perdita di biodiversità innescata esattamente dall’esigenza di un continuo aumento delle rese alimentari per sfamare una popolazione il cui reddito cresce oggi più che proporzionalmente rispetto al suo numero, con utilizzi su larga scala di fertilizzanti che producono erosione incontrollata del suolo e utilizzo di sementi industriali a scapito della ricchezza del patrimonio agrario tradizionale.
Il finale del film, che mette in scena l’opzione dell’eutanasia di fronte a una vita fattasi insostenibile, apre interrogativi ancora più inquietanti, se non per noi sicuramente per le generazioni a venire, che ricordano le parole del futurologo americano Herman Khan quando scriveva (riguardo allo scenario di un olocausto nucleare) che “i vivi invidieranno i morti”.
Si dice che nel prologo dei film catastrofici ci sia sempre uno scienziato che non viene ascoltato. Qui no, perché non ce n’è bisogno: il film stesso è infatti ispirato dalle previsioni inascoltate degli scienziati di allora.
Ma se frughiamo nei cassetti della storia della scienza, ci rendiamo conto che le basi fisiche e chimiche per comprendere almeno i cambiamenti climatici e la loro dipendenza dalle attività umane sono state gettate già a metà del XIX secolo, quando il premio Nobel per la chimica Svante Arrhenius (1859-1927) mise in relazione le emissioni di CO2 industriali con l’innalzamento della temperatura.
C’è da dire che ci fu bisogno di ancora diversi decenni prima che la comunità scientifica accettasse queste conclusioni, comprendesse la portata dei cambiamenti climatici e il loro effetto devastante. La nostra resistenza, la voglia di non sapere o di non cambiare quindi, vengono da lontano.
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