L’incredibile Storia
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Netflix, Riccione e i circuiti dello storytelling assuefativo.
La serie Euphoria, prodotta da HBO, mette in scena un possibile racconto dell'adolescenza, con immagini lucide, crude e realistiche.
Raccontando l’adolescenza le serie tv hanno da sempre portato in primo piano le insicurezze e i drammi irrisolti di giovani gettati in un mondo cupo e frantumato senza alcun appiglio. Che sia lo scollamento da un ambiente familiare spesso assente o collocato nel background delle storie o la quasi totale mancanza di fiducia per un domani che, per chi è nato sul finire degli anni Novanta, va a poco a poco polverizzandosi. Sam Levinson – figlio del Barry Levinson di Rain Man e Good Morning, Vietnam - è ormai noto a pubblico e critica per aver restituito non tanto la realtà quanto il senso di questa condizione. Il vortice di percezioni ed esperienze attraversato dai giovani protagonisti della serie tv Euphoria e del suo unico film Assassination Nation e la costante esposizione di sé in cui si trovano invischiati per la mediazione dei social network lascia sottendere qualcos’altro. Vale a dire la paura di desiderare. E di farlo appieno, facendo esperienza di sé attraverso l’incontro con l’altro, adolescenziale, e quindi ingenuo, perfino “puro”.
Ed è in modo particolare Euphoria che delinea questa paura che si annida in ognuno dei vissuti squadernati puntata dopo puntata dalla profetica voce fuori campo di Rue/Zendaya. Una paura che può sia condurre all’inazione che a un’iperattività sconclusionata quando si comincia a essere consapevoli della natura mutevole del proprio desiderio. Ogni volta che i giovani di Levinson, guardando, ad esempio, al rapporto in divenire costante tra Rue e Jules/Hunter Schafer, stabiliscono tra di loro un contatto o una relazione si crea inevitabilmente uno squilibrio – che rimanda all’instabilità stessa del desiderio quando brulica su di un piano di verità – ma si diventa realmente consapevoli di sé stessi e nello stesso tempo anche dell’altro. Nel corso delle puntate, tra Rue e Jules si viene così a creare una dimensione di comfort in cui il tentativo è quello di lasciarsi conoscere, mettendosi a nudo e rivelando le proprie contraddizioni e vulnerabilità. In questo spazio idilliaco sarebbe presto subentrato il lento processo di incorporazione della tossicodipendenza di Rue e quel conflitto che non avrebbe fatto altro che rendere ancora più sismico il suo percorso.
Già dalla prima stagione è evidente la centralità del personaggio di Rue nella storia di Levinson perché è dal suo punto di vista che le vicende vengono raccontate e ne è lei il moto propulsore. Ma è nella puntata speciale girata durante la pandemia e diffusa di recente in streaming che ne viene disvelata tutta la complessità. L’episodio parte da un idillio. Rue e Jules si svegliano insieme in un appartamento a New York il giorno che Jules avrebbe presentato a una casa di moda alcuni suoi progetti. È il lavoro che ha sempre sognato e la vita che entrambe hanno sempre sognato ma è un inganno che si spezza nel giro di qualche minuto. Rue è in una tavola calda con Ali/Colman Domingo - personaggio che nella prima stagione compare pochissimo – e ha appena assunto droghe. Ali è una sua controparte anziana. È "pulito" da sette anni e dopo aver smascherato Rue che si fingeva ai suoi occhi forte e finalmente libera dai problemi della droga, i due si confronteranno (per i cinquantasette minuti della puntata) sulla vita e sul disturbo che affligge la giovane. L’episodio è ambientato quasi interamente nella tavola calda ed è un susseguirsi di pensieri e riflessioni che portano Rue a pensarsi come essere umano prima che come tossica. Probabilmente sia noi che Rue avevamo bisogno di “respirare” dopo l’irrequietezza della prima stagione e la bravura di Levinson – complice anche lo sguardo umanista con cui le si era rivolto dalle prime battute della stagione e un mirabile lavoro di scrittura - sta proprio nel magnetizzare l’attenzione dello spettatore sulle sue problematiche che non restano mai esclusivamente sue, ma che riescono anzi a diramarsi oltre i confini dell’inquadratura, nel fuori campo, risuonando forti e vivide.
A perseguitare i liceali di Euphoria è il fantasma di qualcuno o qualcosa: madri, padri, aspettative e ansie. Tormentati e impauriti, per loro sembra esserci soltanto il presente, disseminandosi chi in un modo chi nell’altro nell’alveare cybernetico dei social network, l’unico luogo in cui ci si può conoscere “davvero”, senza filtri e timori. La compagna di scuola transgender Jules e Nate/Jacob Elordi chattano spesso scambiandosi fotografie e messaggi molto intimi. Nate si nasconde sotto il nome di Tyler per non farsi scoprire da tutti e dalla sua ragazza Maddy/Alexa Demie e per far sì che la sua omosessualità resti confinata a un sotto-mondo insondabile e oscuro. Nate è il paradigma del ragazzo scontroso e burbero con alle spalle un trauma familiare con cui dover fare i conti. Incarna il paradigma del maschio-americano-etero e bianco che non s’immaginerebbe mai di mettere in discussione i codici con cui è cresciuto: risultato di un processo educativo che volge alla competizione e all’aggressività. A una mascolinità tossica che implode non appena gli si presenta un altro da sé consapevole – Jules è probabilmente l’unico personaggio “ottimista” della serie che conserva un bisogno di futuro – e audace e l’eventualità dunque di dislocare certi modelli esistenziali e comportamentali. Mentre il rapporto tra lui e Maddy s’inserisce in una narrazione (purtroppo) oggi ben conosciuta: dal suo punto di vista Maddy è la ragazza da preservare dai pericoli del mondo e proiezione della retorica della giovane in pericolo, funzionale ad accrescere la forza e predominanza della figura maschile sulla scena.
In Euphoria Sam Levinson sviscera dei temi per la maggior parte già individuati in Assassination Nation (2018) che molti hanno definito come il riadattamento nell’epoca dei desideri mediatizzati e dell’intensificazione degli schermi di Le regole dell’attrazione (2002) di Roger Avary, tratto dall’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis del 1987. Del film di Avary Levinson riprende la coralità del punto di vista della narrazione e quindi una scrittura volta a un colpo d’occhio cumulativo, riproponendoci brandelli di un mondo sregolato e cangiante come Paul Thomas Anderson in Boogie Nights (1997) o Robert Altman in America oggi (1993). Conservando la medesima forza deflagrante della serie tv - distanziandosene però nel tono e nel genere diverso di ironia di cui ci si serve per far leva su certe questioni e tematiche - Assassination Nation si rivelerà essere una spietatissima e sanguinaria satira degli Stati Uniti che conosciamo oggi: un mondo carnevalizzato e ridotto a macchietta.
La narrazione si dipana nel film intorno alle figure delle quattro protagoniste che incarnano in un certo senso la spregiudicatezza e quel “peccato” che andrà a rivelare il reale e squallido volto del cittadino medio americano: turbato dallo stato delle cose spiattellatogli dalle quattro ragazze, compromesso e sull’orlo della fine. Ma soprattutto da ciò che fuoriesce dai propri parametri esistenziali e impossibilitato a riconoscersi al di fuori di sé, come se non ci potesse essere altra vita al di fuori di quella standardizzata da un’etica monocorde e congelata da abitudini e dogmi ritenuti astorici e immodificabili. Tuttavia, ciò che differenzia Euphoria e Assassination Nation è l’approccio utilizzato da Sam Levinson. Nel film si assiste a una riproposizione schietta e senza mezzi termini del quadro socio-culturale americano guardando all’universo giovanile: maschilista, razzista, sessista. E ognuno di questi caratteri viene esposto ricorrendo a una circostanza specifica o un episodio. La tesi di Levinson si dispiega lineare e coerente anche se poco viene problematizzato a livello emotivo e psicologico: lo spettatore coglie sì le idee rincalzate dalle quattro protagoniste e il messaggio politico che ognuna di loro intende lanciare, ma dimentica o non vede ciò che formicola in maniera altrettanto urgente al di là di quello strato di corpi denso e magmatico.
Se, nel film, Levinson si limita a mostrare, in Euphoria invece indaga. Meno altisonante e più intimista e indivisibile dalle contraddizioni dei suoi personaggi le cui vicissitudini vengono presentate senza moralismi e giudizi. Levinson e le altre registe della serie Pippa Bianco, Jennifer Morrison e Augustine Frizzel si avvicinano a problemi quali aborto, tossicodipendenza e slutshaming, l’ultimo dei quali viene raccontato da un’angolazione diversa. Il personaggio di Kat trasforma infatti il fenomeno dello slutshaming in uno strumento di empowerment e rivalsa - divenendo una scrittrice di fan fiction erotiche online e poi una cam-girl - per distaccarsi dalla narrazione normalizzante del corpo femminile vandalizzato dalle sue pratiche di assoggettamento.
In Euphoria il tempo sembra non scorrere più, quanto, piuttosto, ritornare flemmaticamente su ciò che è stato e su ciò che è. Mai su ciò che sarà. Nessuno dei giovani riesce a pensarsi al di fuori del liceo che sembra essere l’unica possibile alternativa. Ridefinendo i codici del teen drama, Levinson vuole dirci che cosa significa essere adolescente in un mondo di crisi e paranoia perenne dove il fantasma dell’isolamento è sempre dietro l’angolo. Euphoria segna una cesura nel modo in cui viene rappresentata l’adolescenza sul piccolo schermo e catapulta la generazione post 11 settembre in un mondo grezzo, ultraviolento e nichilista, mettendo in scena l’esperienza di una paura e di un’angoscia giovanili senza oggetto e specificazione concreta e per questo ancora più autentica.