I dialoghi con i non umani e l'esistenza di divinità teriomorfiche fin dai primordi parlano della possibilità di una società ibrida, dove umani e non umani vivano in completa simbiosi. Cosa ci è successo?
L’animale viene prima dell’uomo.
Boezio, Arithmetica, I, 1
Il Leone Umano (Löwenmensch) è un manufatto ritrovato nella grotta Stadel in Germania, dalla testa leonina e il corpo umano rivolto in avanti, ritto sulle due gambe con le braccia lungo il corpo. La curvatura della zanna di mammut su cui è cesellato, unita all’ampiezza delle spalle e alla gestualità del tronco, l’angolo dei gomiti e lo scatto dinamico delle zampe posteriori scolpiscono lo slancio in avanti dell’essere zoomorfo, in procinto di sorgere dal manufatto. Il corpo è teso ad assumere la postura verticale, la sua forma androgina indica una trasformazione in atto, avvenuta nel processo stesso in cui l’intagliatore ha ritratto l’essere, come se quest’ultimo stesse sollevandosi per la prima volta in piedi.
Scolpito nel Paleolitico (40.000 anni fa) verso la fine dell’ultima glaciazione, a oggi è la più antica testimonianza di una scultura teriomorfa al mondo. Lo storico Jill Cook del British Museum è sicuro, «questo non è un essere umano che sta indossando una maschera» ma un essere vivente immaginario che «è vigile, sta in ascolto, ci guarda». A causa del clima rigido diverse comunità animali furono costrette a convivere negli anfratti rocciosi al riparo dal freddo. Mentre gli altri umani del gruppo raccoglievano provviste, mantenevano il fuoco acceso, tessevano vestiti e crescevano la prole, dovendo coesistere spesso con diversi abitanti tra cui i leoni delle caverne, un anonimo sciamano lavorò incessantemente alla statuetta con strumenti rudimentali per almeno 400 ore, finché la figura non rivelò la forma ibrida nascosta nell’avorio. L’alchimia animale era compiuta e ora gli umani di quel gruppo si erano trasformati nei loro conviventi felini. Lo sciamano che aveva intagliato la zanna mostrò loro il corpo animale che avrebbero incarnato nei loro spostamenti in questo mondo e negli altri, forse anche dopo la morte.
Neil MacGregor in Vivere con gli dèi racconta che il Leone Umano mostra tracce di sangue solo nell’incavo della bocca, e che l’usura su tutta la superficie rivela un suo uso frequente da parte di diversi individui nel corso di molteplici generazioni. Il leone propiziò molti riti, trasmettendosi di mano in mano per svolgere la funzione di avatar, offrendosi da guida per agire su più piani di realtà, per sopravvivere al gelo, muoversi nei mondi con i sensi acuti dei felini, cacciare coi leoni e proteggersi dalle loro fauci. La caverna dove ha riposato per millenni conserva segni di bivacchi passeggeri, mentre al suo interno sono stati trovati in aggiunta denti di volpi artiche, lupi e cervi, bucati per farne delle collane e amuleti protettivi. Diversi gruppi si riunivano nella caverna solo per brevi periodi, il tempo necessario a celebrare il rinnovamento della trasformazione animale, dopodiché tornavano a spostarsi.
Fin dalla preistoria gli umani non sono altro rispetto agli altri viventi, e ciò è confermato a ogni livello dal fatto che in qualsiasi società indigena la differenza tra umano e animale come la conosce il mondo moderno non è contemplata. È la crisi che investe il centro della propria presenza rispetto allo spazio circostante e ai suoi abitanti a far sorgere la parvenza di una forma umana. L’impressione di una distinzione si palesa solo in questi momenti, non come qualcosa di definitivo ma temporaneo e accidentale, nel tentativo di rafforzare la propria presenza quando l’intreccio di relazioni che viviamo assieme al resto dei viventi diventa troppo opprimente da sostenere. Ernesto de Martino in La fine del mondo lo dice molto bene, «La costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo», perciò l’esistenza va continuamente riaffermata a ogni istante perché la prospettiva della sua dissoluzione si mantiene presente «come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante». Minacce alla presenza non sono solo la morte, le condizioni climatiche o una caccia infruttuosa, ma anche la depressione, l’isteria artica, gli attacchi di panico, che colpiscono l’uomo antico tanto quanto il contemporaneo.
Quando ciò accade, l’animalità si riscopre in quanto radice dell’essere. Antonio Ligabue, uno sciamano contemporaneo, andava spesso in giro per i boschi lungo il Po con uno specchio al collo, urlando la lingua delle cornacchie o dei lupi, perché specchiandosi poteva ammirarsi divenire l’animale che versava. Quando si guardava allo specchio non vedeva il proprio volto, ma il muso di molteplici belve ignote, innumerevoli teste animali emesse dal suo viso in guisa di cherubini mesopotamici o rappresentazioni di Visnù. Nella nozione di persona occidentale diamo per scontato che sia incluso solo l’umano, ma difatti nella maggior parte delle culture mondiali la persona è concepita duplice. In Dialoghi con i non umani Edoardo Quaretta riprende il suo viaggio tra le culture dell’Africa centrale dove esiste la nozione di persona dividuale. Fin dalla nascita ogni bambino è dotato di un doppio invisibile, che è la sua esistenza animale o non umana. I dividui abitano ognuno il corpo dell’altro in una forma di parentela immediata con la presenza invisibile. Si trasformano l’uno nell’altro trasferendosi in forme disincarnate nel corso di tutta la vita, dotati di una forza magica tale da attirare sui bambini accuse di stregoneria. Non ci sono restrizioni nella possibilità di dividui di essere chimere, e questo vale in particolare per i gemelli, considerati “bambini-divinità” perché in loro il doppio si manifesta agli occhi. Perciò presso diverse popolazioni del Congo i gemelli segnano l’unità sacra di uomo e animale.
Nel popolo kassena del Ghana settentrionale la parentela è ancora più forte. Gaetano Mangiameli racconta delle rappresentazioni dove umani e coccodrilli sono stretti in lineamenti di discendenza diretta. Così «i coccodrilli sono le loro anime» oppure «l’anima dei coccodrilli e la loro sono una cosa sola», perciò entrambi vivono una stessa vita. L’identità è totale, tutto ciò che accade a uno accade anche all’altro, ed è grazie a ciò che i divinatori possono risalire agli eventi della vita di qualcuno. I due vivono vite parallele e pienamente sincroniche, perché secondo il mito kassena i due esseri hanno stipulato tale accordo all’origine dei tempi. Il coccodrillo però ha dalla sua una maggior autenticità, perciò quando accade qualcosa di grave come un attacco contro un altro membro del popolo, ci si chiede quale immoralità abbia compiuto la controparte umana per meritarsi l’attacco.
Passando di genitore in figlio, di fratello in sorella, anche il Leone Umano tracciò un albero genealogico che consolidava l’origine divina della sua comunità, confermando il suo ruolo di antenato e progenitore. Entrare nel ventre della grotta riporta all’utero primordiale, si muore a se stessi e si prende coscienza del fatto che non siamo obbligati ad essere umani, perché in fondo non lo siamo mai stati. Per questo motivo nelle grotte troviamo dipinti altri esseri teriomorfi, come l’Uomo Uccello di Lascaux. Quando alla fine del rito si tornava al mondo, si camminava con passo felpato. La presenza del Leone Umano scorre nel sangue impastato alla terra bruna con cui i primitivi disegnavano sulle pareti cavernose.
È così che prende vita dalle radici primitive il motivo dell’animale totemico, ancora oggi largamente presente tra i popoli indigeni di tutti i continenti. Éveline Lot-Falck nel suo mitico studio I riti di caccia dei popoli siberiani racconta che l’animale totemico è colui che dona l’identità alla tribù essendone il fondatore spirituale e biologico. Gli Ostiaco-Samoiedi della Siberia occidentale hanno tra loro due clan che hanno per totem l’aquila e la nocciolaia, ma ci sono anche chi discende dal pesce persico, dalla gru e dalla talpa. Tutti questi animali hanno dato vita al clan sposandosi con un antico sciamano, anche lui capace di divenire animale, o hanno generato la stirpe da sé. Nessun clan uccide o mangia il proprio animale totem, perché sarebbe non solo un grave tabù, ma cannibalismo. Gli altri clan invece sono liberi di cacciare il totem altrui, ma spesso si instaurano legami di fratellanza tra clan proprio grazie ad antichi miti che raccontano la fratellanza tra gli animali totem.
Il totem non è solo un progenitore, ma mantiene l’indifferenziazione di uomo e animale nel presente, perché secondo il mito dei popoli del nord-est siberico, al momento è più difficile per gli umani divenire altri animali. Per lo stesso motivo, è più arduo poter viaggiare in altri mondi spirituali, le due cose sono connesse. Lot-Falck racconta del tempo del Grande Corvo, un’età primordiale cantata dai nativi in cui gli umani potevano passare in altre sembianze animali da vivi, e quindi diventare demoni della foresta o uomini della montagna. In ogni caso i Ghiliachi della Siberia orientale e gli Ostiachi, tra gli altri, hanno un rapporto con i viventi in cui si segue una «perfetta coesistenza di forme. L’essere si proietta simultaneamente nei due mondi, qui nel suo aspetto antropomorfo, lì in quello zoomorfo. Nessuna delle due personalità precede l’altra: sono entrambe autentiche e simultanee».
Se umano e animale sono uguali, ciò che cambia non è tanto l’essenza, ma la veste esterna. Quando la tigre ghiliaca si scrolla di dosso la propria pelle e la appende a un palo, mostra le proprie fattezze umane, così come un umano si ricopre con gli amuleti di una volpe e sgattaiola nella tundra, per andare a chiedere udienza agli spiriti-signori del luogo. I viventi hanno un padrone divino che ne garantisce la vita, e senza il suo consenso, nessuna caccia o relazione è proficua. L’orso spesso è uno di questi, non solo perché in molti casi uno dei signori più potenti assume le sue sembianze, ma soprattutto perché quando l’orso viene abbattuto è perché lui ha deciso di offrirsi in dono, sulla tacita premessa che sarà ricambiato. Non si è mai certi chi sia l’orso, e bisogna fare estrema attenzione per evitare di adirare un signore potente. Tutti i viventi vivono in proprie società e gerarchie, perciò bisogna essere cauti e rispettosi, presentarsi nel modo appropriato. Il pericolo però persiste anche nel caso dei morti. Dopo la morte si ritorna alla foresta, si passa in altri mondi, vivendo numerose esistenze, molte di tipo animale, prima di sparire per sempre. Gli Ostiachi raccontano che dopo morti ci si trasfroma in uno scarabeo che vive nei pressi del lago e che si estinguerà con la terza morte, mentre i Ghiliachi dicono che si trapasserà nei corpi di animali sempre più piccoli, uccelli, zanzare e formiche, fino a diventare polvere. Perciò bisogna essere accorti che l’animale appena scrutato non sia un defunto.
La differenza tra uomo e animale si accentua nell’addomesticamento, perché infantilizza entrambi. Spiritualmente invece nasce nel momento in cui la coscienza collettiva della tribù si rende abbastanza forte da sostenersi senza appoggiarsi a una presenza animale, ma a una forma impersonale di trascendenza, come il dio del monoteismo o gli dèi antropomorfi. Paul Shepard ce lo suggerisce in Natura e follia, «prima della civilizzazione, gli animali erano considerati come appartenenti al loro regno, e portatori di messaggi e di doni di carne da una terra sacra. Nel villaggio, divennero beni». Anche se le rappresentazioni antiche restano vive, di fatto «un piccolo, selezionato e modificato gruppo, passato attraverso la strozzatura dell’addomesticamento, arrivò a rappresentare nell’esperienza umana l’intero valore degli animali per le persone». L’unico animale concepibile a quel punto era un animale ammaestrato nato in cattività, reso docile dalle scelte fenotipiche operate dall’uomo.
A questo si lega la mitologia che l’occidente ha ereditato dal deserto a partire da Zarathustra fino alla religione ebraica, i culti persiani, i greci platonici e aristotelici, i secoli bui dell’Europa. Dato che ogni mito e cultura rispondono alla geografia in cui si sviluppano, i contrasti naturali del deserto hanno incentivato un estremo dualismo tra specie, la sua vasta vuotezza composta da elementi scarni del paesaggio ispira una mistica del divino impersonale slegato dal mondo. L’uomo si aliena sempre più dal luogo circostante ritirandosi in sé stesso, una situazione ben diversa rispetto ai popoli della giungla o della savana. In un luogo che pullula di vita bisogna mediare sempre con gli altri viventi, gli spiriti e gli dèi hanno di che incarnarsi, lo sanno bene gli sciamani amerindi e gli asceti delle foreste monsoniche indiane, mentre nel deserto l’esperienza sacra non trova quasi nessuna forma animale a cui aggrapparsi, perciò assolutizza la frattura tra un’animalità sempre più distante tra le gerarchie celesti e un umano sempre più manchevole. Le visioni dei profeti bastino come testimonianza.
La società contemporanea e il sistema capitalista, che sono la conseguenza di questa scissione tra umano e animale, non si curano degli spiriti animali. Il legame resta presente solo a livello iconografico per fare da logo a qualche azienda, perché per il resto l’uomo ha creduto di poter trattare come merce e risorse qualsiasi vivente. Il punto non è mangiare o non mangiare l’animale, uccidere o non uccidere, sperimentare o non sperimentare, il punto è che queste domande non vanno poste solo tra umani. Donna Haraway chiede chi risponde per conto del giaguaro, lo sciamano Davi Kopenawa risponde, il giaguaro stesso! Non bisogna comportarsi illudendosi che l’animale non sappia o non possa comunicare, ma di fatto è quello che avviene. Semplicemente, credendo che non si dovesse/potesse essere altro dopo secoli di umanismo solipsista, si è eliminato dalla società ogni mezzo e ogni figura che servivano a instaurare questa relazione.
Eppure da quando la pandemia ha fermato tutto, dice Laurent de Sutter in Cambiare il mondo. L’epidemia e gli dèi, un dio dionisiaco e mutaforma ci ha fatto visita ed è venuto a vedere cosa stavamo facendo in questi pezzi di cemento urbani. Da allora molte persone ammirano le processioni di animali che tornano nelle città durante i lockdown. Andrea Cafarella in Che cos’è il teriantropismo? per la rivista Futuri rigenera la nostra prospettiva mostrando che è possibile ampliare l’essenza umana dopo secoli di filosofia, teologia e scienze umaniste, per abbracciare nuovamente la dividualità animale. I teriantropi tracciano un arco perfetto che riporta al Leone Umano. È la proposta di cambiare le idee, il linguaggio e la nostra intera cosmologia troppo incentrate sul soggetto umano, scrollandosi di dosso l’ossessione per l’uomo. Chiamando in causa la filosofia di Deleuze, Guattari e Derrida, la psicologia onirica di Hillman e l’antropologia di Viveiros De Castro, Ingold e Morizot, la metamorfosi consiste nell’abbracciare più prospettive simultanee, immergendosi nella visione animale, diventando lui stesso. Si può vivere attraverso pratiche di meditazione estatica adottando un travestimento immaginale, mettersi nella pelle di un animale, guardarlo negli occhi e nel loro sguardo uscire fuori da noi, assumendone i movimenti e i versi, proprio come faceva Antonio Ligabue. La personificazione totale con l’animale altera la nostra visione e rompe le metafore, «il leone non significa coraggio. Significa leone e nel leone c’è tutto». Così torniamo ad essere cacciatori celesti che si riconsegnano alla foresta.