Il mito, rivisto
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Dal caso del "conservatorship" agli hashtag di liberazione, il recente documentario prodotto dal New York Times, "Framing Britney Spears", racconta il disfacimento di un mito e di un'intera società.
L’immaginario americano è pieno di storie sulla costruzione del divismo, dalle pagine della letteratura fino ad arrivare al cinema e alle più recenti serie tv. La fattura del mito e la maniera in cui viene plasmato ha il sapore mitico del dio Vulcano che forgia con le proprie mani un lavoro di finissimo artigianato da restituire, poi, al mondo. Solo che, invece di armi e spade, Hollywood ha arricchito l’immaginario di star e figure dello spettacolo in grado di diventare, con le dovute accortezze, eterni. Figli di un’industria che fabbrica stelle, fino a che queste non si consumano per il tanto brillare.
Sono infatti note le pratiche di glorificazione della figura divistica nell’ambiente dello spettacolo, riportate come vere e proprie prove di forza in storie come quella dell’intramontabile Judy Garland che, per aggiudicarsi un posto permanente nella memoria collettiva, ha dovuto sottostare ai maltrattamenti e alle coercizioni di un grande studio come la MGM e del suo produttore Louis B. Mayer. Quello che, però, è diventato possibile nel corso degli anni, non è stato più solamente il costruire l’immagine di un personaggio famoso così da poterne regolare l’influenza esercitata sul pubblico, ma l’opportunità inversa di de-costruire quell’identità fondata dietro le quinte, stracciandola a pezzi nello stesso modo con cui si era fatta risplendere sotto i riflettori.
I motivi per distruggere una star possono essere molti, le cause che ciò comportano molteplici. Ma per Britney Spears fu veramente troppo. La maniera in cui un’icona indiscussa del pop è diventata vittima dell’insurrezione e della gogna mediatica, per l’incapacità di preservare la persona dietro all’artista ha segnato un crollo per la cantante nel momento in cui si trovava alle vette massime del proprio successo. Un'instabilità acuita anche dalla pervasività dei nuovi media e che ha causato il crollo psichico e individuale di una popstar quale Britney Spears che, dopo anni, torna a far discutere avendo però dalla sua parte un non indifferente assetto giornalistico e pubblico.
È infatti il The New York Times, nel 2021, ad aver realizzato un film sulla vita e la carriera della leggenda musicale, con il tentativo di allestire una narrazione di cui, in ogni caso, non può essere totalmente Britney Spears a riappropriarsi, vista la lontananza e le costrizioni legali che le vietano la completa libertà sulle scene. Una figura stavolta trattata con indulgenza, quasi con la speranza, da parte di una certa frangia di stampa, di espiare qualche colpa. Framing Britney Spears è il documentario diretto da Samantha Stark e prodotto dal The New York Times Company che, come suggerisce il titolo, inquadra il percorso di crescita, privato e lavorativo, della cantante. Quei pezzi in cui una persona può andare distrutta sono i medesimi che, inizialmente, l’hanno composta, e che vengono rimessi insieme per un dumentario a supporto dell’ingiusto trattamento subito negli anni dalla donna, sfociato poi in quella “conservatorship” che la vede tutt’ora costretta alle decisioni e restrizioni impostale dal padre.
Inquadrare (“framing”) è lo scopo del lavoro di Stark con la The New York Times Company: il voler racchiudere, nel microscopico spazio del perimetro audiovisivo, la vita della cantante riportata attraverso video di repertorio alternati ad apposite interviste, il tutto con un’onestà che per troppo tempo è mancata attorno alla narrazione della figura della donna. Sentimento di vicinanza che già il movimento Free Britney aveva cominciato ad incrementare, nonché segnale reale il quale ha acceso la scintilla per il documentario che ricorda, vista la produzione alle spalle, un lungo editoriale giornalistico, aprendosi e chiudendosi proprio indagando su quella conservatorship già nominata e contro cui la Spears stessa sta lottando.
Per “conservatorship” si intende la pratica dello Stato di assegnare a una persona un tutore che possa contribuire ad aiutarla in quanto incapace di svolgere delle azioni nel pieno delle proprie facoltà. Che riguardi un solo aspetto dell’esistenza di un individuo o il suo intero insieme, la conservatorship priva chi ne è soggetto di un’emancipazione che, nello specifico, sta da anni impedendo a Britney Spears di continuare a svolgere un mestiere e una vita “normale”. Termine che non ha mai smesso di suscitare diverse ritrosie, soprattutto negli Stati Uniti, dove la conservatorship si applica solitamente a persone anziane o affette da demenza. Un concetto legale, inoltre, entrato nell’immaginario mainstream proprio a distanza ravvicinata dal sommovimento per la liberazione di Britney Spears grazie al film I Care a Lot, il quale attorno ad un tema portante spinoso, condotto con sadica ironia dalla spregevole protagonista interpretata da Rosamund Pike.
Scritto e diretto da J Blakeson, I Care a Lot scomoda i toni del genere nascondendo quest’ultimo dietro ad un sarcasmo perverso tutto rivolto contro le pratiche di un governo e di un Paese che, di facciata, vuole proteggere i propri cittadini, ma che in verità va sacrificandoli a favore di coloro che tentano ogni sotterfugio pur di afferrare il benedetto sogno americano. Quello del diventare ricchi, del diventare schifosamente ricchi. E così la Marla Greyson di Rosamund Pike avvia la propria società indisturbata, corrompe medici e personale sanitario, mente e sorride ad un giudice che ha piena fiducia nell’amministrazione dello Stato e nell’azienda della donna che, all’apparenza, sembra servirlo devotamente. Ma in realtà Marla non ha interesse nella salvaguardia delle persone che le vengono affidate. O, ancor meglio, degli anziani che lei stessa seleziona accuratamente per poter gestire i loro beni, le loro proprietà, prendendosi ovviamente la sua doverosa percentuale.
Un film che palesa la mostruosità di un sistema che non funziona anche quando desidererebbe soltanto, e teoricamente, aiutare i suoi abitanti. Un operato che, infatti, da molti fan di Britney Spears è stato contestato e che potrebbe contribuire a fare luce sui paradossi e le contraddizioni che la vedono inserita nel medesimo meccanismo in cui si trovano i personaggi in balia della brama di Marla Greyson. Ma torniamo ora alla nostra cantante.
Che Britney Spears abbia sofferto di disturbi psichici lo ricordiamo tutti, ma al contempo sono le immotivate privazioni a cui la popstar sarebbe sottoposta dal padre Jamie Spears a scombussolare i fan. Sono stati i social media il veicolo fondante della campagna #FreeBritney, non semplice fenomeno web nato a fini speculativi o per mero intrattenimento, bensì autentica fonte di attivismo che ha portato le persone a riunirsi fuori dal tribunale per aspettare l’esito dell’udienza e del destino della cantante. La donna, infatti, ha chiesto di veder rimosso il padre dall’incarico di tutore esercitato nel corso degli ultimi dodici anni. Processo che avanza nella riconferma del controllo paterno fino a settembre 2021, ma che vede una parziale vittoria della figlia visto che al genitore verrà affiancata una società finanziaria con cui collaborare per gli investimenti sul futuro lavorativo della cantante.
Non è un segreto, però, che proprio la carriera di Britney Spears abbia subito un contraccolpo nel momento stesso in cui ha cominciato a ribellarsi al volere del padre. Ribellione suscitata da un senso di paura, come confermato dagli avvocati di Spears, che avrebbe perciò interrotto qualsiasi sua attività lavorativa. Ciò che preme all’interno del documentario Framing Britney Spears è l’investigazione, spostata a sostegno della cantante, di come la situazione sia degenerata tanto da arrivare a preoccupare tutto il mondo. Ma è fondamentale esplorare ciò è avvenuto prima, per spiegare cosa è andato deteriorandosi poi, così da sensibilizzare l’opinione pubblica tracciando un percorso che va da Britney Spears e che si allarga in seguito a questioni spettacolari, divistiche, mediali e di costume, le medesime che possono innalzare o affossare l’immagine di un’icona.
Framing Britney Spears è perciò linea diretta che collega gli esordi dal The Mickey Mouse Club ai tour fatti per i centri commerciali del Paese, i quali hanno contribuito a diffondere il nome e le canzoni di una giovanissima debuttante. La presa sul pubblico è stata da sempre immediata, l’orecchiabilità delle sue canzoni un successo per sé e per le case discografiche. E, da subito, è stato il suo aspetto a far infervorare. Viso e corpo che trasmettevano, a cavallo degli anni Duemila, un’inedita posizione per la donna, che cominciava, anche nel suo essere teen, a richiamare una certa indipendenza. Con l’arrivo e il passaggio di Britney Spears la figura femminile non poteva più rimanere completamente polarizzata. Non esisteva più la verginale figura adolescenziale o l’irriverente trasgressione della sessualità. Non c’era più la santificazione del viso angelico scollegata completamente dalla malizia sensuale e stuzzicante.
Giovane e adorabile, Britney Spears dichiarava ai giornali di voler rimanere vergine fino al matrimonio, mentre vestita da scolaretta si dimenava sulle note di …Baby One More Time. Avanzamento dei tempi, si sarebbe potuto (e dovuto) pensare. Invece le torce e i forconi non hanno mancato ad arrivare. Ciò che più sorprende è che i primi attacchi alla nuova fenomenologia nata a seguito dell’ascesa della Spears, sono arrivati da quel mondo dell’intrattenimento di cui la stessa cantante faceva parte. Dissezionare corpo, movimenti, look, testi, balletti, smorfie di Britney Spears ha rappresentato nel periodo della sua scalata al successo il peggior tipo di pubblicità che un’artista avrebbe mai potuto richiedere. E che una donna avrebbe mai potuto desiderare.
Nell’incapacità generale manifestata da riviste, tv e giornali nel descrivere e riportare attraverso i media la posizione di una donna nella propria carriera, Britney Spears ha rappresentato il capro espiatorio per movimenti e liberazioni di cui le generazioni a seguire hanno fatto tesoro, ma che di contro hanno visto la propria cantante doversi sacrificare per il pubblico. L’opinione pubblica non riusciva ad accettare la dicotomia di Britney e il suo essere femminile, mostrandosi fresca e pura e allo stesso tempo dominante, sexy e provocatrice, tanto da stabilire per la cantante una narrazione che non le apparteneva affatto. Modo di raccontarla messo in mano a riviste scandalistiche, opinionisti, giornalisti che apertamente la accusano in diretta nazionale per ciò che faceva in camera da letto e che non mancavano di giudicarla per ogni aspetto della sua vita, più o meno privata. Un ingabbiare nuovamente il corpo e l’individualità della persona, opponendosi a ciò che la cantante aveva cercato di trasmettere attraverso le proprie esibizioni.
È innegabile, dunque, che stampa sia stata fonte di pregiudizi e sferrate violente. Chi se non i media hanno deciso apertamente di ridurre a semplice volgarità le hit e i videoclip della cantante, condizionando il modo di guardare un’artista ed etichettandola come la fedifraga tentatrice nella sua relazione con il fidanzato dell’epoca Justin Timberlake. Nell’era delle boyband essere un faro per una nuova espressione femminista non poteva coincidere con il perbenismo dilagante, con l’indignazione per l’incitamento alla sperimentazione della propria sessualità, con il riflesso di tutto ciò che le teenager erano state da sempre, ma che non avevano mai potuto esprimere.
Scontrarsi con il potere e l'idolatria del pubblico per le boyband significava doversi scrollare di dosso delle etichette che, all’epoca, incastravano principalmente le donne, rendendo la limitatezza dei giudizi che portavano con loro altamente asfissiante. Il periodo storico è imprescindibile per inquadrare il sorgere di quello che sarebbe stata, è e sarà sempre Britney Spears. In pieno scandalo Bill Clinton-Monica Lewinsky, questa esplicazione di una condotta sessuale “errata”, fuori dai canoni, non conforme alla moralità famigliare, ridimensionò enormemente la maniera in cui poter parlare di sesso e delle sue implicazioni. Una libertà che aveva cominciato a trovare una propria forma di espressione, andata corrompendosi a causa dal tradimento del Presidente degli Stati Uniti con una giovane stagista di ventidue anni, coetanea di quella cantante che cercava di farsi strada in un mondo sempre più aberrato dalla sessualità.
L’equilibrio psicofisico di Britney Spears era destinato a vacillare pur con tutto il suo successo e, prima ancora che dalla conservatorship, sarebbe stato bene preservarla da quel tipo di male. Cercare di proteggere la persona prima di vederla soggetta a una condizione di controllo, sostenerla invece che attendere lo scoppio inevitabile che ne sarebbe derivato, avrebbe dovuto essere l’obiettivo delle persone che la cantante aveva accanto. Non di quelle che, ad oggi, continuano a privarla anche delle scelte più basilari.
A fare da apripista verso la teoria dell’incapacità di Britney Spears è stata quella cultura infima e invalidante dei rotocalchi, delle urla starnazzanti dei giornalini incentrati sulla perpetua ricerca del pettegolezzo. Ma, soprattutto, dell’invasività dei paparazzi, del peso avuto in una vita costantemente rinchiusa in un milione e più di click (click che formano dei frame e, ancora, torniamo al titolo Framing Britney Spears). Un modo di inchiodarla spesso distorto, mai clemente. E così alla fine la ricerca dello scandalo ha prodotto lo scandalo stesso, quello di una donna la cui vita veniva trascritta e fotografata molte volte all’inverso di come andava veramente svolgendosi, portando la cantante allo stremo, fino a quel gesto scioccante che, forse, non abbiamo da subito capito.
In quel fantomatico 2007 la testa rasata di Britney Spears non solo è testimonianza di un disagio che evidentemente la donna stava attraversando, e che ha richiesto effettive cure per i suoi disturbi mentali che andrebbero in qualsiasi caso rispettati, ma ha rappresentato un grido di aiuto che ha agito esattamente al contrario rispetto a quello che la cantante aveva auspicato. Esponendosi con un gesto inconsueto, che sapeva avrebbe scatenato la frenesia della stampa, Britney Spears cerca di dire a tutti che non è più disposta a lasciarsi condizionare dal resto del mondo. Un modo per allontanare quei flash e quei pedinamenti continui dei paparazzi, invocando la propria privacy e il diritto a non vederla intaccata. Fisicamente, moralmente, pubblicamente.
È incredibile analizzare come poi, in seguito, sarebbe stata una forma mediale inversa, ma pur sempre collegata al mondo della comunicazione, a generare l’attenzione e una inedita forma di cura nei confronti di Britney Spears. È stato infatti con l’universo dei social che si è posta l’attenzione sui turbamenti della cantante, a preoccuparsi per la situazione in cui era costretta a vivere, a lanciare il motto #FreeBritney intorno a cui si è formata una compatta community.
Dai podcast ai messaggi di sostegno, dall’attesa fuori dal tribunale al continuo supporto, il “Britney Spears Movement” ha ripristinato un equilibro che per troppi anni era stato sbilanciato a sfavore della popstar, che la ricolloca nell’esatto punto che le spetta nel panorama contemporaneo. Perché Britney Spears è stata agnello sacrificale non solo di un ambiente musicale fortemente misogino, ma di un comportamento tossico affossante dall’esterno che la voleva ri-addomesticare, cercando di mettere al sicuro le figlie dai comportamenti errati cui venivano incitate e i figli dalle grinfie di ragazze disdicevoli, nonché sessualmente tentatrici. La musica mondiale ha visto l’esplicito slut-shaming che Spears ha dovuto ignobilmente subire e a cui adesso, anche a distanza di anni, i suoi fan hanno deciso di dire basta.
Quello che la cultura pop è diventata oggi è anche merito di Britney Spears e il nostro ringraziamento non sarà mai abbastanza contro le interviste diffamatorie di Diane Sawyer e l’ispezione dettagliata e disgustosa attorno al suo abbigliamento, al suo corpo, al modo in cui ha scelto di portalo in scena. La popstar internazionale incanala al proprio interno il momento di passaggio tra ciò che è sempre stato imposto in precedenza e cosa è stato possibile grazie al suo lavoro. Un prima e un dopo Britney Spears. Lei che è stata accumulatrice di critiche, di violenze verbali, di analisi improprie sulle volontà di un’artista e persona. Artista e persona che, proprio più di dieci anni dopo, la cantante vuole reclamare.
I social sono quindi la cassa di risonanza che ha deciso di aiutarla, assieme all’affetto dei fan e al supporto dei colleghi, come Miley Cyrus che durante il Superbowl invocava a gran voce l’hashtag #FreeBritney. Quegli stessi social media senza cui il trattato fatto documentario Framing Britney Spears non sarebbe mai stato possibile. E senza cui non avremmo avuto una nuova consapevolezza sull’autodeterminazione femminile, sull’importanza di una narrazione scollegata dalla visione maschile e sulla fondamentale clausola che dovrebbe sempre permettere alle donne, e solo a loro, di gestire, esporre, coprire il proprio corpo. Un’artista che era già il futuro, anche se molti non riuscivano ad accettarlo.
Attendiamo settembre 2021 per la decisione sulla conservatorship. Fino a quel momento, sempre: #FreeBritney.