Il libro a venire – qualche domanda sul futuro - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Particolare delle copertina di "Le Livre à venir", di Maurice Blanchot
Particolare delle copertina di "Le Livre à venir", di Maurice Blanchot

Il libro a venire – qualche domanda sul futuro

Una breve conversazione con Emanuele Trevi sulle direzioni delle letteratura.

Particolare delle copertina di "Le Livre à venir", di Maurice Blanchot
Intervista a Emanuele Trevi
di Giulio Silvano
Emanuele Trevi

(1964). Collabora al Corriere della Sera e al manifesto. Tra le sue opere: I cani del nulla (Einaudi, 2003), Senza verso. Un’estate a Roma (Laterza, 2004), Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010), Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012), Il popolo di legno (Einaudi, 2015) e Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019).

Giulio Silvano

(1989) è nella redazione di Nuovi Argomenti, collabora col Foglio e con Esquire. Ha tradotto Anne Carson e Bernard Malamud.

"Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta", diceva Valéry. Oggi va tutto così veloce. Ci chiediamo cosa resterà degli oggetti e dei concetti. Gli scrittori ogni tanto sono un po’ profeti, possiamo fargli qualche domanda per capire cosa succederà alla letteratura, alle emozioni, alla carta. 
In questo caso, le domande sono rivolte a Emanuele Trevi.

Giulio Silvano - Se dovessi semplificare direi che le due cose che ti stanno più a cuore sono la letteratura e il ricordo delle persone care. In Sogni e favole racconti del tuo rapporto con Arturo Patten, Cesare Garboli, Amelia Rosselli. In Due vite racconti di due scrittori: Pia Pera e Rocco Carbone. Se, in qualche modo, Sogni e favole è un libro sulla mentorship, su una forma di apprendistato, Due vite è un libro sull’amicizia?

Emanuele Trevi - Sì è esatto, sono due cose diverse. A me, parlando da un punto di vista artigianale, piace più la posizione dell’apprendista, che del resto ha una grande tradizione letteraria alle spalle dai romantici in poi. In questo senso in Due vite ho sperimentato un punto di vista diverso, è sempre importante fare delle variazioni senza allontanarsi mai troppo dal tipo di scrittura che riesce. meglio. Un bellissimo libro scritto dal punto di vista dell’amicizia è quello di Comisso su De Pisis, mi ha molto ispirato. Poi mi sono reso conto, parlando della traduzione di Pia dell’Onegin, che anche Puskin adotta la stessa prospettiva nel suo romanzo in versi.

GS - Nel saggio La grande cecità (Neri Pozza) Amitav Ghosh analizza i motivi per cui nella narrativa contemporanea non vengano mai menzionati gli irreversibili cambiamenti ambientali. Parla appunto di un’epoca di “grande cecità”. Siamo spaventati a parlare di qualcosa di così gigantesco e fuori controllo? O c’è anche un fallimento immaginativo al cuore della crisi climatica?

ET - Io non capisco questa cosa della «cecità» come condizione negativa, proprio non ci riesco, perché le letteratura non è una questione di temi che si trattano. La letteratura vale sia per quello che comprende del mondo che per quello che non comprende. È la voce del singolo individuo, impastata di nascita e morte, paure e deiezioni, felicità innominabili. Perché la letteratura farebbe qualcosa di utile all’umanità affrontando «gli irreversibili cambiamenti ambientali» che incombono sul nostro pianeta? Copiando le notizie su wikipedia? Stimo molto l’autore di libri indimenticabili come Lo schiavo del manoscritto e Cromosoma Calcutta, ma questo saggio mi sembra una gran perdita di tempo. Ci sono gli scienziati e divulgatori, alcuni bravissimi come l’autore di Spillover, che hanno il diritto e il dovere di spigare come vanno queste cose. Ci manca solo la narrativa!

GS - Due vite è candidato al premio Strega. Come è cambiato questo premio negli ultimi anni? Vediamo sempre più opere di dichiarata auto–fiction nei premi letterari.

ET - Sono passati quasi dieci anni dall’ultima volta, in realtà ho percepito un clima diverso, ci sono state molte riforme. I libri di auto-fiction sono assolutamente identici ai romanzi dal punto di vista di un premio, sinceramente non ne vedo così tanti, però alcuni degli ultimi anni sono libri veramente belli. Quelli di Roberto Alajmo, di Michele Mari, e anche Albinati, La scuola cattolica può essere considerato per molti aspetti auto-fiction. Stranamente, anche a livello europeo, mi sembra un genere più maschile che femminile, ma forse è un’impressione non fondata. Io penso che sia una tecnica narrativa precisa e con delle regole, un genere a sé, ma non mi sembra molto diverso dal romanzo a dire la verità. 


GS - A parte in Ontani a Bali – libro uscito per Humboldt books con fotografie di Giovanna Silva – nei tuoi ultimi libri parli di persone che hai conosciuto e che ci hanno lasciato. Mi viene in mente un discorso che fa Foucault in dialogo con Claude Bonnefoy su morte e scrittura quando dice: «Mi sembra che potrei parlare delle cose che ci sono tuttavia molto vicine, ma a condizione che tra quelle cose molto vicine e il momento in cui scrivo ci sia quell’infimo intervallo, quella sottile pellicola attraverso la quale si è instaurata la morte». Vale anche per te?

ET - In Limonov di Carrère non c’è la morte, Limonov è campato molti anni dopo il libro, ma Carrère ha trovato lo stesso quella «pellicola» di cui parla Bonnefoy. L’ultima pagina del libro la trovo straordinaria. Non ci sono regole, condizioni necessarie a prescindere, c’è la necessità di trovare un punto di vista, lì sta il difficile. Detto questo, certamente ha ragione Pasolini quando dice che la morte è per la vita quello che il montaggio è per il cinema: un significato che si crea a ritroso partendo dalla fine.

Particolare della copertina del libro

Particolare della copertina del libro "Due vite" (Neri Pozza)

GS - Insieme a Leonardo Colombati hai fondato la scuola di scrittura Molly Bloom di cui sei preside. Da anni sei nella redazione di Nuovi Argomenti. Che ruolo hanno oggi le scuole di scrittura e le riviste di letteratura?

ET - Sono tutte cose che rientrano nell’ambito dell’arte, intesa come artigianato e trasmissione di conoscenze. In questo periodo zoppicano ma torneranno presto. 



GS - Blanchot scrive ne Il libro a venire: «Spesso si sentono strane domande, come questa: “Quali sono le tendenze della letteratura attuale?” o: “Dove va la letteratura?”. Domanda sorprendente, ma ancora più sorprendente è il fatto che una risposta c'è, e facile: la letteratura va verso se stessa, verso la sua essenza, che è la sparizione». Emanuele Trevi, ti faccio una domanda sorprendente: dove va la letteratura?

ET - A Blanchot, scrittore che ho sempre ammirato, piace molto il concetto di sparire, gli piace la sparizione, la sparizione ha occupato un posto importante nella sua mente. Io proprio non riesco a concepire una riposta minimamente sensata a questa domanda, quindi mi associo a quella risposta di Blanchot, che mi sembra intelligente, credibile.

Hai letto:  Il libro a venire – qualche domanda sul futuro
Italia - 2021
Arti
Emanuele Trevi

(1964). Collabora al Corriere della Sera e al manifesto. Tra le sue opere: I cani del nulla (Einaudi, 2003), Senza verso. Un’estate a Roma (Laterza, 2004), Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010), Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012), Il popolo di legno (Einaudi, 2015) e Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019).

Giulio Silvano

(1989) è nella redazione di Nuovi Argomenti, collabora col Foglio e con Esquire. Ha tradotto Anne Carson e Bernard Malamud.

Pubblicato:
19-05-2021
Ultima modifica:
03-06-2021
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