Una lettura di «Non tutto il male. Cronache dalla terra inabitabile» di Andrea Cassini.
Si domanda: «Cosa voleva dire morte, vita, continuità, passaggio, per gli antichi Toltechi? E cosa può voler dire per questi ragazzi? E per me?» Eppure sa che non potrebbe mai soffocare in sé il bisogno di tradurre, di passare da un linguaggio all’altro, da figure concrete a parole astratte, da simboli astratti a esperienze concrete, di tessere e ritessere una rete d’analogie. Non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal pensare.
Italo Calvino
«Può un lupo dirsi magnanimo?», con queste parole Andrea Cassini dava l’abbrivo a un lungo pezzo intitolato «Il lupo e noi – filosofia dell’inforestamento», un memoir filosofico che ricalca e commenta e amplia, se vogliamo, la riflessione di Baptiste Morizot contenuta nel suo libro Sulla pista animale (nottetempo, 2018).
Già da questo incipit, così semplice eppure così conturbante (in che senso magnanimo?) sono rimasto folgorato, dal momento in cui l’ho letto la prima volta. Anche perché il testo, oltre a essere scritto con grande accuratezza e uno spiccato senso della narrazione, contiene delle idee e delle esperienze alle quali mi sento molto vicino e che condivido e studio io stesso. Tuttavia, la cosa importante che mi preme notare è che già una semplice domanda mi aveva fatto drizzare le antenne, mi aveva messo all’erta. Così ho fondamentalmente cercato e letto tutto quanto Cassini avesse scritto e che era possibile scovare online; finché la preda mi ha sorpreso alle spalle: nel giro di una manciata di mesi è stato pubblicato il suo primo romanzo, Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile (effequ), un saggio, del quale è coautore insieme a Claudio Kulesko, Blackened (Aguaplano), una traduzione di un libro, Antropocene Boom (Zona 42) di Alex Irvine, e un racconto in una antologia intitolata Hortus mirabilis (Moscabianca). Gettandomi così nella più sublime delle disperazioni: un discreto quantitativo di testi di pregiata fattura, peraltro molto diversi l’uno dall’altro e, come se non bastasse, colmi dei riferimenti letterari più straordinari a cui potessi pensare.
(Per capirci subito: proprio ieri guardavo la presentazione di Non tutto il male sulla pagina facebook dell’Indiscreto. Andrea Cassini era insieme a Edoardo Rialti (altro personaggio del quale bisognerebbe parlare più approfonditamente). Nel giro di una manciata di minuti appaiono Borges, Dante, e insieme a loro Ligotti, Mieville, Volodine, Cărtărescu. Insomma, non so se ci capiamo).
Ecco, queste sono le premesse con le quali ho approcciato la lettura di Non tutto il male. Quanto ci ho trovato poi dentro è tutt’altro: un’altra realtà – almeno altre due, anzi. Un universo che ha sicuramente la dimensione del viaggio infero; c’è un afflato epico in questo romanzo che mette radici e ramifica proprio nella dimensione del sogno e del doppio, di matrice borgesiana; c’è la lezione dei maestri contemporanei, le atmosfere di La città e la città e una certa filosofia volodiniana; il tutto però – e questo mi ha sorpreso – viene trasfigurato magnificamente da un “filtro manga” – chiamiamolo così –, e da dinamiche assurde e abbastanza inusitate in letteratura, tipiche di un certo immaginario e di specifiche scelte narrative alle quali il pubblico italiano è sicuramente poco abituato. Meccanismi e dispositivi che ricordano le dinamiche dei videogiochi. (È chiaro che questa suggestione non sia farina del mio sacco, visto che non mi interesso di videogiochi in alcun modo. Ho sùbito compreso da dove provenisse questa caratteristica del romanzo solo perché il mondo dei videogiochi è uno dei temi più trattati da Cassini. E dopo aver letto alcuni dei suoi pezzi ho voluto almeno guardare dei gameplay – ovvero dei video che mostrano la partita di un altro giocatore, comprensivi di commento ad alta voce. Probabilmente non li consiglierei per una serata tra amici, patatine e birra. Nonostante ciò – e nonostante sia probabilmente molto meglio «avere un’esperienza» vera e propria, di gioco – devo ammettere che questi video hanno un certo fascino: sceneggiature geniali, un incredibile uso dell’interattività e quindi della libertà di manipolazione concessa al giocatore, rendono questi pseudo-racconti qualcosa di molto suggestivo per chiunque si occupi di narrazioni e di letteratura nello specifico). Se ripensiamo il giocatore di videogames come un lettore, o come uno spettatore (di film, serie tv, quadri, sculture, eccetera) vediamo come immediatamente cambia tutto – il pregiudizio (che almeno io avevo, e probabilmente continuo ad avere, senza paura di ammetterlo) verso i videogiochi, viene ribaltato.
Il giocatore stringe i pugni sulla poltrona, testimone impotente di questa cospirazione. Sperimenta come tutto, in NieR: Automata, sia futile. La ricerca di un significato è una corsa cieca, che si risolve in un ciclo di distruzione. Ogni tentativo di evoluzione, individuale o sociale, conduce al fallimento. Ogni emozione positiva, ogni attimo di gioia e pace, è sovrastato dalla sconcertante brutalità della paura e del dolore. Ogni sforzo, che sia riverso nella guerra o negli obiettivi personali, intimi, dei protagonisti della storia, è futile; perché futili sono le premesse.
Queste, per esempio, ve l’assicuro, sarebbero state ottime parole per indicare l’esperienza di lettura del primo romanzo di Andrea Cassini, Non tutto il male.
Peccato che siano state usate dallo stesso Cassini per descrivere le sensazioni del giocatore (Il lettore) durante una partita a NieR: Automata, in un pezzo splendido intitolato: «2B[e] or not 2B[e]: l’esistenzialismo robotico di NieR: Automata».
In questo senso l’operazione letteraria di Andrea Cassini è davvero portentosa, un’ibridazione totale di generi che riesce a far confluire Giacomo Leopardi e Bojack Horseman nell’epigrafe del libro. Tutto l’immaginario del romanzo è costruito su questa dicotomia tra l’«alto» e il «basso» che si risolve in un pessimismo cioraniano, o meglio: nel pensiero filosofico di un autore ancora non abbastanza conosciuto in Italia: Peter Wessel Zapffe.
Nel mondo di Zapffe tutto si muove nel vuoto della ragione, sottoposto alle cieche leggi della natura; quello che avviene tra i gangli della nostra coscienza ci pare gran cosa, ma è in verità solo un transitare di fantasmi. È così che il suo antinatalismo asettico finirà per anticipare di alcuni decenni le argomentazioni dei contemporanei David Benatar, Emil Cioran, Ray Brassier e Thomas Ligotti.
Anche questo frammento proviene da uno dei succitati saggi di Andrea Cassini. E descrive perfettamente quanto avviene, a un altro – l’ennesimo – livello di lettura, in Non tutto il male: «tutto si muove nel vuoto della ragione», «in verità è solo un transitare di fantasmi». La lettura di questo romanzo ci lascia sconcertati, ci lascia un’immagine catastrofica e incontrovertibile che, attenzione, non è solo una visione distopica della realtà per una lettura ludica – quella del giocatore (secondo il mio pregiudizio di cui sopra) – ma richiede un’esperienza sensibile che solo un lettore attento può ottenere; poiché questo libro esplora la nostra condizione odierna e assoluta al contempo: tra le fiamme alte del mondo che va a fuoco, senza bisogno di mangiare, bere o respirare, o di spostarci sulle nostre gambe. Incapaci di vivere e senza speranze. Nel bel mezzo dell’inconveniente di essere nati.
Terminus Radioso, La Divina Commedia, Bojack Horseman, Gormenghast, La trilogia dell’area X, tutte queste opere si mischiano nell’immaginario di Non tutto il male con grande sapienza, dando luogo a una voce sospesa nel nulla cosmico e totalmente asservita alla storia che racconta. Per muoverci in questo abisso interrogheremo alcuni estratti dai saggi di Cassini (che potete leggere, insieme ad altri, qui, oppure nel volume di cui dicevo all’inizio: Blackened, nel quale si alternano, in un fitto intreccio di ragionamenti estremi sulle influenze contemporanee del pessimismo – anche qui: in una dinamica di dialogo tra «alto» e «basso» – con i testi di Claudio Kulesko, sul quale bisognerebbe fare un discorso a parte che mi riprometto di fare da tempo).
Credo che un autore vero si possa riconoscere anche da questo: da come costruisce un discorso coerente (pur pieno di contraddizioni, come è giusto che sia), un universo concreto, una intera letteratura, composita, nella quale sia possibile intravedere un percorso, un viaggio nel vuoto, «perché futili sono le premesse», come gli intenti della letteratura più autentica, che si scontra con il peso di dover disvelare la futilità della vita, l’insensatezza di esistere, eppure, contemporaneamente e paradossalmente, esistere al massimo grado di esistenza possibile. Sognare così forte da dare consistenza e materialità ai sogni e agli incubi più terribili e pericolosi.
Ora basta tergiversare: veniamo a noi.
Non si può parlare di Non tutto il male senza iniziare dalla costituzione di Tula, la città sull’albero (per la quale bisognerebbe aggiornare questa interessante lista di «città del futuro» stilata da Francesco D’Isa). Tula mi ha subito ricordato la capitale Tolteca di un racconto di Italo Calvino contenuto in Palomar, «Serpenti e teschi»; eppure, non c’entra proprio niente, né con la Tula reale (o quasi) né con quella di Calvino. Poiché la Tula di Cassini è una città sospesa sulle fronde di un albero che sta bruciando. Il cielo è sempre grigio e le persone hanno perso le loro funzioni vitali fondamentali. Niente ha più senso, nemmeno gli spostamenti o le abitazioni, tutto è svuotato di significato. Ognuno è solo e inutile, un morto vivente.
In un altro dei saggi di Cassini viene citata la definizione che Edward O. Wilson fa della nostra epoca (e del nostro futuro) nominandola «eremocene»: «L’età della solitudine, e cioè, di fatto, un’epoca cupa abitata solo da noi esseri umani e dalle nostre piante selezionate e dai nostri animali addomesticati; e una distesa di campi coltivati ovunque nel mondo fin dove può spingersi lo sguardo». E allora il cielo grigio di Tula, l’insensatezza della vita, il delegare le nostre primarie pulsioni per avere la certezza di non essere inghiottiti dalle fiamme che stanno letteralmente divorando il nostro mondo, adesso tutte queste cose non ci sembrano più così lontane, distopiche, assurde. La convinzione di Cassini, tuttavia, mi sembra sia che nonostante sarà «necessaria una lunga attesa», «C’è un futuro oltre l’uomo, e dopo di esso». Ecco, Tula si colloca forse al termine di questo processo di estinzione dell’uomo, come se i personaggi che si muovono in Non tutto il male potessero già toccare con mano l’apocalisse, vederla arrivare, sentirne l’odore.
Un’altra definizione che mi sembra assolutamente calzante è quella che Andrea Cassini cita testualmente da Eugene Thacker parlando dell’universo di Rick and Morty (ancora: l’alto e il basso): potremmo dire che il mondo nel quale si erge Tula sia un universo «assolutamente inumano, e indifferente alle speranze, desideri e sforzi di individui e gruppi umani». I settori dell’albero di Tula si compongono effettivamente di abitazioni ma sembra che nessuno abbia uno scopo o una direzione, né sia capace di vivere la propria dimora. I suicidi sono all’ordine del giorno, tanto che il protagonista del racconto si occupa di preparare cocktail farmaceutici per i clienti, che si rivolgono a lui tramite una sorta di social network nel quale è possibile richiedere questi mix mortali e condividere l’esperienza con gli altri utenti.
Ancora una volta troviamo, nelle parole di Cassini, una splendida e perfetta descrizione di ciò che Tula rappresenta, in un passaggio di un suo saggio nel quale presenta l’Ipotesi di Medea di Peter Ward:
Secondo Peter Ward il superorganismo terrestre ordirebbe ripetuti “tentativi di suicidio” – le estinzioni di massa – allo scopo di restaurare uno stato originario in cui la vita sul pianeta era dominata dai microbi. Non si tratta tuttavia di una guerra tra due fronti opposti, quanto di uno scenario simile a un conflitto morale, o a una battaglia con se stessi. I microbi partecipano alla vita multicellulare ma remano in direzione contraria alla sua propagazione, infondendo tendenze suicide nella vita multicellulare.
La storia che ci viene raccontata vede da una parte Zero, il protagonista, e dall’altra il Cartografo, l’altra faccia del protagonista: un cliente che, già nelle prime pagine del libro, chiederà a Zero aiuto per il «suicidio perfetto». Su questo incontro ruota tutto il romanzo, su questo incontro/scontro che altro non è, ovviamente, che l’eterna «battaglia con se stessi».
Se dovessi riassumere in pochissime parole Non tutto il male, direi che è un romanzo sul perfezionamento e sul cammino che ognuno compie dentro di sé, sulla lunga guerra contro l’ego. Ed è forse questo che cerco in ogni libro: il male e la sua accettazione, attraversando l’amore o la morte (volendo citare Edoardo Rialti nella presentazione di cui dicevo all’inizio).
Messo davanti alla realtà del mio peso, mi accorgevo di esistere. Forse abbiamo davvero bisogno in ogni momento di una certa quantità di dolore e di privazione, come la nave ha bisogno di una zavorra, e appena ritrovavo quella zavorra, ritrovavo la mia condizione di esistenza, che tuttavia mi definiva solo per ciò che non ero.
In questo breve periodo di Non tutto il male si cela una celebre frase di Arthur Schopenhauer che Andrea Cassini fa dire a Zero, e che aveva anche già citato in un testo di analisi del pensiero di Zapffe: «Le idee di Peter Wessel Zapffe per l’estinzione umana».
Sono tantissimi i riferimenti interni, le citazioni nascoste, integrate nel testo. E la cosa più incredibile è che alla fine del libro non sappiamo nemmeno con chi essere d’accordo, cosa pensare. Ha ragione Schopenhauer, abbiamo davvero necessità di soffrire? Come è possibile affrontare il dolore?
Tutti gli abitanti di Tula, eccetto Zero (almeno così sembra), sono infestati dai fantasmi. Ognuno è seguito e legato al suo fantasma, ogni spettro si nutre della persona cui è congiunto, poiché ha sempre, sempre fame. Una fame insaziabile.
Mi viene in mente un episodio di Bojack Horseman che Cassini racconta in un pezzo dedicato a questa memorabile serie tv animata, intrisa di pessimismo. Bisognerebbe per chiarezza raccontare tutto fin dall’inizio ma qui ci interessa l’idea che il protagonista di questo racconto, Bojack, in uno degli episodi della serie, è letteralmente inseguito da un enorme pupazzo gonfiabile che ha esattamente la sua stessa forma; Bojack è braccato dal pupazzo fino a trovarvisi di fronte, faccia a faccia con sé stesso. «È una metafora psicanalitica sull’ego che ci opprime e sovrasta, se vogliamo» ci dice Cassini. E questo pallone gonfiato mi ricorda proprio i fantasmi di Tula, che sovrastano e opprimono la popolazione. E che, in qualche modo, tuttavia, rappresentano anche quell’avversario che siamo chiamati a combattere per tutto il corso della nostra esistenza. Il diavolo (o il dáimōn, se vogliamo) che ci sta accanto da sempre e per sempre, insegnandoci l’arte della rigenerazione, da loro impariamo a rialzarci. I fantasmi sono anche la sofferenza e la paura che crescono in noi se lasciamo che prendano il sopravvento, divorando tutto l’afflato vitale che ci tiene in moto, che ci permette di esistere.
Allo stesso modo anche il rapporto tra Zero e il Cartografo è un rapporto di questo tipo. Sono l’uno la metà dell’altro, sognano lo stesso sogno. E il Cartografo lo annuncia esplicitamente, al loro primo incontro: «Mi dovrai uccidere, questo te l’ho detto, ma solo quando ti sarai affezionato a me, altrimenti non funzionerà. Solo quando saremo diventati amici e ti appoggerai alla mia spalla nel momento della disperazione».
Zero non è un assassino – almeno così crede – tende quindi a sottrarsi: non vuole uccidere il Cartografo, all’inizio. Questo suo alter-ego, capace di imprese sovrumane, tuttavia, sembra assolutamente sicuro di ciò che avverrà. E non sappiamo proprio da che parte propendere. I messaggi misteriosi e le promesse del Cartografo sono sicuramente allentanti ma sembra sempre che ci sia qualcosa sotto. Veniamo quindi accompagnati in una ricerca (della Verità? Della Vittoria?), un percorso narrativo che ha un grande debito con le classiche dinamiche dei videogiochi: episodi e side quest arricchiscono la storia centrale – una caccia disperata fino al luogo primordiale dell’incendio, per scoprire dove si recano gli spettri alla morte del corpo che infestavano, del loro compagno.
Quando una persona muore, a Tula, il fantasma che era legato a quella persona scompare attraverso il muro lasciando un glifo, un eptagramma, ovvero un simbolo composto da sette linee rette orizzontali, delle quali, in questo caso, le tre centrali sono spezzate da uno spazio bianco. Un simbolo che troverete alla fine di ogni capitolo e che ricorda immediatamente gli esagrammi dell’I Ching, e in particolare il 61. Chung Fu – La Verità interiore. Lo spazio formato dalle linee spezzate al centro dell’immagine indica, nell’esagramma dell’I Ching, «un cuore libero da pregiudizi e capace di accogliere la verità», mentre le linee che circondano quello spazio raffigurano «la forza della verità interiore nei suoi effetti». Se volessimo leggere nei glifi di Non tutto il male un riferimento all’esagramma del libro divinatorio più straordinario di tutti i tempi, chiamato non a caso Libro dei Mutamenti, potremmo azzardare che il mondo dei fantasmi di Tula corrisponda proprio a quell’altro universo, nel quale con la morte possiamo ottenere una verità assoluta, superiore, che muovendosi dentro di noi possa effettivamente dare senso a qualcosa, a tutto e a niente. In questo ragionamento, l’estinzione della specie umana sarebbe un gesto collettivo di enorme portata mistica. Questo sembrano credere i protagonisti del racconto: bisogna lasciare che l’albero muoia, divorato dalle fiamme, per poi diventare un nuovo albero, le cui fronde rinnovate saranno sostenute da radici giovani, perpetrando il grande circolo dell’eterno ritorno.
«Avevano fatto lo stesso sogno: spogliavano un uomo delle sue settecentosettantasette pelli ma sotto ancora non trovavano il vero volto». Così si apre il capitolo numero uno, della prima delle sette parti nelle quali è suddiviso il testo. Un sogno che si ripeterà incessantemente dall’inizio alla fine del libro, in questo ciclo senza fine di ecpirosi che precede e suggerisce una palingenesi terminando effettivamente nel vuoto di una riga che svanisce e che ci travolge e ci trascina nuovamente all’inizio: capitolo zero: «Seduto sul letto, ai piedi di lei che dorme immobile come un vegetale».
In questo sogno, perpetuo e condiviso, il sette si ripete come un mantra: «poi lo sviscerò e lo divise in sette parti: la testa, le due braccia, le due gambe, il tronco, il sesso, maschile. Poi le lanciò in aria e lasciò che il vento le trasportasse in sette direzioni diverse». Sette sono le linee dell’eptagramma che compone il glifo del regno dei fantasmi. Sette le parti del libro. E così via.
Sette è il numero della completezza per i buddisti, sette i vizi e le virtù, sette indica la conoscenza, sette sono gli attributi sacri di Allah e i chakra della tradizione sanscrita.
Cosa significa questo numero per Zero, per il Cartografo, per i fantasmi o per l’autore di Non tutto il male non lo sapremo mai. Possiamo tuttavia intuirlo e fantasticare, lasciando queste domande senza risposta, poiché ci troviamo in un mondo simbolico che contorce i riferimenti che provengono dal nostro, rendendone la concreta autenticità, il peso specifico esatto, permettendo loro di divenire reali, nel loro mondo, solo nella città di Tula.
Andrea Cassini, nel saggio già citato sul videogioco giapponese Nier: l’automata, ci racconta di una biomacchina chiamata Pascal. Questa creatura, metà organica e metà meccanica, «È la prima biomacchina a riconoscere il motivo del fallimento, potrebbe correggerlo, trascendere e diventare un esempio». Un po’ come le intelligenze artificiali di Her, il film di Spike Jonze nel quale tutti gli esseri umani vivono in costante relazione con dei piccoli device, molto simili ai nostri smartphone, i cui sistemi operativi, come futuristiche versioni di Alexa, dialogano costantemente con gli utenti, tramite un auricolare. Fino a giungere all’ultimo aggiornamento, nel quale queste voci senza corpo vengono programmate su un modello di intelligenza artificiale.
Mi sembra molto interessante la soluzione adottata da Jonze, che fa trascendere tutte le intelligenze artificiali; piuttosto che la sicuramente più consueta – e forse inverosimile – soluzione narrativa che rappresenta la “vendetta” delle macchine sugli umani. Altro parallelismo interessante: il protagonista di Her, interpretato da uno strepitoso Joaquin Phoenix, scrive lettere al posto degli altri – che hanno ormai delegato tutta una serie di attività; in modo diverso ma simile, Zero scrive i biglietti d’addio per i suoi clienti suicidi. Forse queste similarità dovrebbero suggerirci, e anzi sottolineare, quanto e come non si stia parlando, in queste e in altre «distopie», come quella volodiniana, per esempio, di un futuro distante e trasfigurato; semplicemente in queste rappresentazioni vengono forzate e travestite quelle che però sono tendenze del contemporaneo, in una dimensione parallela e immaginifica, analogica, che abbraccia l’assoluto.
Vengono espresse con il grottesco, lo strano, il weird se vogliamo: la nostra incapacità di comunicare, il nostro delegare continuamente alle macchine e alla tecnologia, soprattutto le competenze e i gesti sociali e di cura dell’altro. I libri, i film e tutte le rappresentazioni di questo tipo possono davvero dirci qualcosa su come siamo oggi, sul nostro mondo e le nostre abitudini, e forse farci riflettere davvero su come potremmo o meno diventare.
Comunque, Pascal, la biomacchina di NieR: Automata, al contrario di Samantha, l’intelligenza artificiale di Her, «è sopraffatto a sua volta dal dolore e si chiude nella propria programmazione». Ed esattamente come il Cartografo di Non tutto il male, «Chiede al giocatore di ucciderlo o cancellargli la memoria, e noi in segno di pietà siamo portati ad accontentarlo con una delle due alternative».
Le idee del Cartografo, profondamente pessimistiche, si contrappongono alle convinzioni del Questore, una sorta di tecnocrate di kafkiana memoria che insegue i protagonisti del racconto per tutto il tempo, fino allo scontro finale. Esattamente come in un videogioco, dove l’ultimo mostro, il boss, compare durante lo svolgersi dell’intera vicenda ma lo scontro vero e proprio non avviene se non all’ultimo livello del gioco; l’eroe deve prima superare tutte le prove del caso per poter affrontare l’ultimo mostro, che non è mai davvero l’ultimo, poiché l’ultimo mostro è in realtà uno e uno soltanto: noi stessi.
«Conosci te stesso – Sii infertile, e lascia che la terra sia silente dopo di te». Questa massima tratta da L’ultimo Messia di Zapffe, racchiude, secondo me, il senso definitivo di Non tutto il male e della filosofia nella quale l’albero di Tula affonda le sue radici. E «Il richiamo alla massima greca gnōthi sautón (“conosci te stesso”) sta a sancire un dialogo tra l’alfa e l’omega: ancora una volta i punti estremi si sovrappongono, e l’inizio della filosofia coincide con la sua fine». E così anche Non tutto il male, nella sua forma circolare e conchiusa, svolgendosi in un «circolo vizioso» che i protagonisti tentano di spezzare, scoprendo che si tratta in verità di un sogno dentro un sogno – come questo pezzo imperfetto e fumoso, nel quale si parla di una città sull’albero, dove ognuno è sovrastato dal proprio fantasma, tranne uno: Zero, che sta cercando sé stesso per amore, che dovrà affrontare la morte e sognare così forte di non essere mai nato da svanire nel nulla, lui e la sua stessa voce. «Non tutto il male è alieno, certe volte esiste e basta, certe volte i fantasmi hanno fame e si nutrono insieme a noi». Fine.